Una manifestazione pro-Palestina - ANSA

Hanno fatto discutere le parole della filosofa Judith Butler pronunciate domenica scorsa in Francia, durante un incontro pubblico dedicato al conflitto israelo-palestinese. Secondo la famosa intellettuale americana, l’attacco brutale di Hamas a Israele dello scorso 7 ottobre 2023, non sarebbe classificabile né come terrorismo né come antisemitismo, bensì come «un atto di resistenza armata». Per la verità, tale posizione non appare come una novità. Anni fa, presso l’università di Berkeley, Butler si era spinta a dire che «Hamas e Hezbollah sono parte integrante della sinistra globale».

Se per carità ermeneutica possiamo affermare che tali parole potrebbero non costituire ipso facto una giustificazione della violenza, nondimeno una certa indulgenza che esse esprimono verso il terrorismo antisemita deve essere interrogata, anche perché non si tratta di un caso isolato, ma di una voce che rappresenta una tendenza più ampia. Più di un commentatore, infatti, ha osservato la medesima indulgenza in una parte della sinistra radicale: intellettuali, studenti, movimenti femministi e Lgbtq, in questi mesi, hanno partecipato a manifestazioni alquanto reticenti verso i crimini di Hamas, condite talvolta da slogan perlomeno ambigui.

Questo fenomeno sembra riflettere una sorta di illusione collettiva che induce alcune persone a considerare i terroristi islamici come portatori di liberazione. In tale miraggio, pare essere impigliato quel mondo che, con una certa approssimazione dovuta alla necessaria brevità, indichiamo col termine-ombrello wokeness. Il punto è che, a parere di chi scrive, quanto fin qui descritto non è un momentaneo abbaglio intellettuale, ma la conseguenza di certe premesse culturali.

Col termine woke s’indicava originariamente l’atteggiamento di chi presta attenzione alle ingiustizie sociali, legate principalmente a questioni di genere e di etnia. Il significato poi, nell’elaborazione della sinistra universitaria americana più radicale, si è allargato e articolato fino a divenire una vera e propria visione del mondo. Secondo la prospettiva woke, la società sarebbe interamente costruita su un insieme di privilegi basati sul colore della pelle (bianco), sul sesso (patriarcato), sul luogo di nascita (colonialismo, imperialismo), sull’identità di genere (cisgender). Sia il passato che il presente sarebbero da leggere alla luce di tali ingiustizie strutturali, che abbiamo il compito di rimuovere con un minuzioso e intransigente lavoro di purificazione sociale. Il movimento woke, allora, può essere visto come una sorta di Internazionale degli oppressi, o forse sarebbe meglio dire Intersezionale, dal momento che, come tiene a ribadire la dottrina, ogni individuo può entrare in diverse sezioni dell’oppressione - si pensi, ad esempio, a una donna di colore - entro architetture complesse di relazioni di potere.

Le ingiustizie strutturali sarebbero perpetrate anche grazie a ciò che possiamo definire “discorso disciplinare”. Lo stesso soggetto, infatti - come spiega ancora Butler - sarebbe un «effetto del potere», secondo il concetto foucaultiano di soggettivazione, inteso sia come sottomissione sia come costituzione del soggetto. Pertanto, sostiene Butler, non si dà nessuna costruzione del proprio sé, nessuna poíesis, al di fuori di una specifica modalità di assoggettamento, e quindi nessuna costruzione di sé al di fuori delle norme che orchestrano le forme possibili che un soggetto può assumere. Ciò vale pure per il sesso (oltre che per il genere): per l’influente filosofa americana, il sesso è un costrutto ideale che, per così dire, si materializza nel tempo attraverso la ripetizione forzata di norme regolative che passano dai discorsi e dai suoi interdetti. Il richiamo alla coppia concettuale natura-cultura per dirimere la questione, apprendiamo da Butler, è una strategia teoretica insufficiente, perché la stessa distinzione è istituita con un gesto preliminare che non riusciamo a pensare adeguatamente.

Non è nostro scopo discutere l’insieme di queste nozioni nel dettaglio né istituire il registro dei buoni maestri e dei cattivi maestri. Il punto è che nella battaglia delle idee spesso la cosa più importante non sono gli ingredienti ma le dosi. Basta farsi scappare un po’ la mano e l’interpretazione vagamente psicotica del reale è dietro l’angolo. Inforcati gli occhiali giusti, si può vedere all’opera il cosiddetto discorso disciplinare praticamente ovunque (accademia, giornali, libri di storia); il potere, diffuso in una microfisica di relazioni (non possesso di qualcuno, come insegna Foucault), pervade l’intero tessuto sociale e gli ambiti dell’apparato statale coi suoi dispositivi.

Se la ragnatela del potere ci avvolge da parte a parte, nascere significa cadervi dentro. Ma la nascita come caduta, degradazione, è un tipico tema dello gnosticismo. E infatti la filosofia woke è permeata di gnosticismo. Se per lo gnostico il mondo e quanto contiene sono un immenso inganno costruito da un dio maligno, e la missione dell’iniziato consiste nello smascherare la truffa grazie alla conoscenza liberatrice, analogamente per gli odierni “illuminati” dell’universo woke, la società tutta è solo matrice di oppressioni visibili e invisibili: si tratta di risvegliarsi a tale verità. Il filosofo Slavoj Žižek, in Guida perversa all’ideologia, ha sintetizzato bene il sentiment di cui sopra: «Quando indossi gli occhiali, intravedi una dittatura nella democrazia, l’ordine invisibile che sostiene la tua apparente libertà».

Tutto ciò si chiama anticosmismo, vale a dire la convinzione che questo mondo sia cattivo, che nello gnosticismo è accompagnato dall’antisomatismo, cioè la convinzione che il corpo sia cattivo: difatti, sia detto di passaggio, nella produzione di Judith Butler e altre voci simili, fa capolino un certo androginismo escatologico. Chiaramente, per l’universo woke, il cosmo fonte di sofferenza e angoscia per l’anima che vi è precipitata, non è più quello cui pensavano gli ellenisti, ma è rappresentato dal mondo forgiato dalla società occidentale, democratica-liberale, capitalistica, maschiocentrica ecc. È questo il mondo da cui evadere.

In tale preciso punto, a parere di chi scrive, può esserci una pericolosa zona di contatto spirituale tra parte della sinistra radicale e terrorismo fondamentalista, due galassie all’apparenza lontanissime. Tale intersezione è data in alcuni temi gnostici condivisi dalle due galassie: ossessione per purezza personale, spiritualismo, atteggiamento catastrofista, binarismo parossistico (l’universo è il teatro del confronto tra Bene e Male), necessità della rivoluzione per rivelare la corruzione radicale del mondo e instaurare la “società perfetta”. Secondo Laurent Murawiec, ad esempio, i terroristi di matrice islamica possono essere annoverati tra gli eredi dello gnosticismo, almeno per certe caratteristiche che li connotano. Nel suo libro The Mind of Jihad (2008), che all’uscita suscitò grande interesse assieme a critiche, Murawiec ha suggerito proprio che i movimenti escatologici settari tendono a generare comportamenti di natura simile e, in riferimento al terrorismo di matrice islamista, ha parlato di «un composto di culto gnostico, visione tribale, jihad islamica e terrore bolscevico».

Che si condividano o meno le analisi di Murawiec - qui citate come una delle voci di confronto possibile - l’essenziale cui fare attenzione è che per entrambi i fronti si dà il medesimo obiettivo polemico e lo stesso manicheismo: da una parte ci sarebbe il regno del male, rappresentato dalle società occidentali, all’apparenza libere e democratiche, ma in realtà ipocrite perché allestite su un sistema di oppressione sistematica ad intra e ad extra; dall’altra c’è l’Internazionale o Intersezionale degli oppressi, che unisce nella solidarietà vittimaria i soggetti più diversi, contro il cattivo demiurgo occidentale, liberale, ovviamente americano.

Come anticipato, dunque, una certa cedevolezza, quando non vera e propria simpatia, di una parte della sinistra radicale nei confronti della violenza terroristica potrebbe non essere un episodico deragliamento mentale o solo ideologismo veterocomunista, ma il frutto di un vulnus intellettuale più profondo. Sarebbe bene riflettervi, anche alla luce della tendenza fortemente antigiudaica dei più importanti sistemi gnostici e che, guarda caso, sembra palesarsi oggi con preoccupanti rigurgiti. Tutto ciò, giova chiarirlo, a prescindere dalle legittime critiche, anche molto dure, che si possono muovere all’azione del governo israeliano nel conflitto in corso a Gaza.

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L'analisi La cultura woke venata di gnosticismo condanna l'Occidente e sta con Hamas

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08.03.2024

Una manifestazione pro-Palestina - ANSA

Hanno fatto discutere le parole della filosofa Judith Butler pronunciate domenica scorsa in Francia, durante un incontro pubblico dedicato al conflitto israelo-palestinese. Secondo la famosa intellettuale americana, l’attacco brutale di Hamas a Israele dello scorso 7 ottobre 2023, non sarebbe classificabile né come terrorismo né come antisemitismo, bensì come «un atto di resistenza armata». Per la verità, tale posizione non appare come una novità. Anni fa, presso l’università di Berkeley, Butler si era spinta a dire che «Hamas e Hezbollah sono parte integrante della sinistra globale».

Se per carità ermeneutica possiamo affermare che tali parole potrebbero non costituire ipso facto una giustificazione della violenza, nondimeno una certa indulgenza che esse esprimono verso il terrorismo antisemita deve essere interrogata, anche perché non si tratta di un caso isolato, ma di una voce che rappresenta una tendenza più ampia. Più di un commentatore, infatti, ha osservato la medesima indulgenza in una parte della sinistra radicale: intellettuali, studenti, movimenti femministi e Lgbtq, in questi mesi, hanno partecipato a manifestazioni alquanto reticenti verso i crimini di Hamas, condite talvolta da slogan perlomeno ambigui.

Questo fenomeno sembra riflettere una sorta di illusione collettiva che induce alcune persone a considerare i terroristi islamici come portatori di liberazione. In tale miraggio, pare essere impigliato quel mondo che, con una certa approssimazione dovuta alla necessaria brevità, indichiamo col termine-ombrello wokeness. Il punto è che, a parere di chi scrive, quanto fin qui descritto non è un momentaneo abbaglio intellettuale, ma la conseguenza di certe premesse culturali.

Col termine woke s’indicava originariamente l’atteggiamento di chi presta attenzione alle ingiustizie sociali, legate principalmente a questioni di genere e di etnia. Il significato poi, nell’elaborazione della sinistra universitaria americana più radicale, si è allargato e articolato fino a divenire una vera e propria visione del mondo. Secondo la prospettiva woke, la società sarebbe........

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