I dati sul mercato del lavoro diffusi ieri dall’Istat presentano luci ed ombre. Continua a crescere il numero degli occupati (465mila in più rispetto all’anno precedente, di gran lunga con contratti a tempo indeterminato) e si riduce il tasso di disoccupazione. Aumentano però contemporaneamente gli inattivi (tra i quali sono molti gli “scoraggiati” che vorrebbero un lavoro, ma desistono dalla ricerca). Il potere d’acquisto reale dei salari continua a ridursi (i salari aumentano meno dell’inflazione), anche se meno dell’anno scorso, grazie al calo progressivo dell’inflazione stessa.

Questi dati sono figli di dinamiche strutturali ormai in corso da tempo come la crisi demografica, la quota elevata di lavoratori poveri e di part-time involontario, il profondo dualismo (specializzati/non specializzati) del mercato del lavoro, il mismatch (la paradossale compresenza, anzi la crescita, di posti di lavoro vacanti assieme a disoccupati e inattivi) oltre a una mutazione antropologica dei nostri giovani, che spesso non vivono più la ricerca di una professione stabile come dimensione fondamentale di vita. La tradizionale indagine Unioncamere-Anpal indica infatti che le imprese in difficoltà a trovare lavoratori è passata dal 38,6% dello scorso anno al 46,6 % quest’anno. Le motivazioni principali sono la mancanza di candidati e la preparazione inadeguata. Allo stesso tempo il Censis ha rilevato in questi giorni che per quasi il 67% degli italiani il lavoro non è più centrale nella vita personale, ma uno strumento per ottenere reddito e godersi il tempo libero.

Quello che cominciamo a osservare è dunque la risultante di una serie di fenomeni che stanno rivoluzionando e rivoluzioneranno (si pensi all’impatto dell’IA) profondamente il mercato del lavoro di domani. Le dinamiche demografiche sono fenomeni di lungo periodo non modificabili nel breve. Quella che un tempo si chiamava piramide demografica è diventata un “muffin”, una figura pentagonale dove la base cresce fino alla classe di età dei baby boomer (oggi tra i 50 e i 60) per poi restringersi naturalmente nelle classi di età maggiori. Significa che nei prossimi 6-10 anni usciranno dal mercato molti più lavoratori di quelli che entreranno e pertanto saranno i lavoratori a essere scarsi più dei posti a disposizione. Già oggi mancano 80mila medici/infermieri, mentre nella sola regione Lazio si cercano 10mila persone nella ristorazione.

I posti vacanti sono e diventeranno sempre più una caratteristica costante del paesaggio sia fra i lavoratori ad alta e media qualifica sia fra quelli a bassa qualifica. Nel primo caso perché la formazione alle nuove competenze faticherà a inseguire trend d’innovazione sempre più rapidi. La società di consulenza globale Gartner calcola – ottimisticamente – un aumento netto di quasi mezzo miliardo di posti a livello globale nei prossimi dieci anni grazie alla diffusione dell’intelligenza artificiale. Sembra una cifra enorme, che tuttavia non si discosta dalla crescita media di quasi 40 milioni di posti di lavoro all’anno nei dati dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro. Ancora una volta, con buona probabilità, le previsioni catastrofiste sui robot che “rubano” il lavoro saranno confutate per un motivo molto semplice: maggiore produttività crea più ricchezza e più domanda, che generano a loro volta più lavoro (seppure in altri settori). Il che non significa automaticamente un aumento di pari livello degli occupati, perché per accedere a quei posti di lavoro bisognerà saper lavorare e interagire con gli assistenti digitali.

Come previsto da Keynes nel suo famoso scritto del 1930 (Economic possibilities for our grandchildren), in molte imprese e settori tutto questo ridurrà la settimana lavorativa a quattro giorni – sono in atto già alcune sperimentazioni in tal senso, anche in Italia - liberando un enorme domanda di tempo libero (e di beni e servizi a esso collegati). Per un Paese come il nostro – che ha un vantaggio comparato su turismo, arte e cultura – potrebbe tradursi in un’opportunità enorme. I posti di lavoro vacanti nei settori a bassa qualifica aumenteranno per motivi diversi, ovvero per la crescita del salario di riserva (il minimo a cui si è disposti a lavorare) da parte dei cittadini che avranno a disposizione molti strumenti per arrangiarsi e ricadere nella categoria inquadrata dal Censis (“ il lavoro non è il centro della mia vita”).

L’ambivalenza delle piattaforme (logistica, trasporti, affitti) è infatti quella di offrire da una parte posti a basso reddito, dall’altra di consentire ai lavoratori a bassa qualifica di essere lavoratori indipendenti che si costruiscono profili a piacere decidendo come e quanto lavorare e rifiutando pertanto posti fissi a remunerazioni, per sforzo impiegato, inferiori a quelle dell’autoimpiego costruito. In questo panorama, le politiche del lavoro devono puntare a creare opportunità e condizioni di dignità per tutti attraverso livelli minimi di remunerazione, welfare e tutele per i lavoratori a bassa qualifica e percorsi di formazione in grado di favorire l’incontro tra lavoratori qualificati e posti di qualità. Un altro ambito fondamentale delle politiche del lavoro che s’incrocia con la lotta alla povertà sarà quello di prendere in carico chi è ai margini e non è occupabile, e di integrare il reddito dei lavoratori che, pur lavorando, restano sotto la soglia di povertà. In tal senso servono sistemi nuovi e diversi, capaci di integrare le prospettive della co-programmazione mettendo assieme pubblico, Terzo settore e mondo profit, in modo tale da rendere più efficiente e veloce la presa in carico. Sarebbe infine miope e controproducente non provare a risolvere parte di questi problemi anche con più lavoratori stranieri. Nella vita le condizioni di partenza contano, e che quello che per un italiano può essere visto come un arretramento rappresenta per chi scappa da regimi o condizioni economiche disperate un balzo in avanti: lo testimoniano i tanti lavoratori e microimprenditori di prima e seconda generazione che rappresentano ormai una delle spine dorsali del Paese. L’attuale governo ha in tal senso opportunamente raddoppiato la quota di flussi migratori legali, soddisfacendo comunque solo un terzo della domanda degli imprenditori italiani.

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Analisi Boom di occupati e di posti vacanti, così cambia il mercato del lavoro

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01.02.2024

I dati sul mercato del lavoro diffusi ieri dall’Istat presentano luci ed ombre. Continua a crescere il numero degli occupati (465mila in più rispetto all’anno precedente, di gran lunga con contratti a tempo indeterminato) e si riduce il tasso di disoccupazione. Aumentano però contemporaneamente gli inattivi (tra i quali sono molti gli “scoraggiati” che vorrebbero un lavoro, ma desistono dalla ricerca). Il potere d’acquisto reale dei salari continua a ridursi (i salari aumentano meno dell’inflazione), anche se meno dell’anno scorso, grazie al calo progressivo dell’inflazione stessa.

Questi dati sono figli di dinamiche strutturali ormai in corso da tempo come la crisi demografica, la quota elevata di lavoratori poveri e di part-time involontario, il profondo dualismo (specializzati/non specializzati) del mercato del lavoro, il mismatch (la paradossale compresenza, anzi la crescita, di posti di lavoro vacanti assieme a disoccupati e inattivi) oltre a una mutazione antropologica dei nostri giovani, che spesso non vivono più la ricerca di una professione stabile come dimensione fondamentale di vita. La tradizionale indagine Unioncamere-Anpal indica infatti che le imprese in difficoltà a trovare lavoratori è passata dal 38,6% dello scorso anno al 46,6 % quest’anno. Le motivazioni principali sono la mancanza di candidati e la preparazione inadeguata. Allo stesso tempo il Censis ha rilevato in questi giorni che per quasi il 67% degli italiani il lavoro non è più centrale nella vita personale, ma uno strumento per ottenere reddito e godersi il tempo........

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