Michela Murgia (1972-2023) a Cabras, in una fotografia di alcuni anni fa - Ansa

«Quando qualcosa non vi torna datemi torto, dibattetene, fate casino». Lo scrive Michela Murgia in apertura a Dare la vita (Rizzoli), il libro sulla gestazione per altri uscito postumo da poche settimane. Più liberale dei suoi fan, che ne hanno fatto un totem indiscutibile, la Murgia ha inteso dunque offrire non un saggio ma una serie di considerazioni che stimolassero la discussione sulla Gpa (Gestazione per altri, detta altrimenti maternità surrogata, o utero in affitto) dal punto di vista strettamente logico. Così conduce il lettore attraverso una serie di suoi ragionamenti per dimostrare la teoria della Gpa come conquista di civiltà. Ma è proprio sulla logica che Dare la vita è un libro carente, basato su passaggi che non reggono. Il principio più frequente portato avanti per legittimare gli aspetti critici dell’utero in affitto è che nella vicenda umana esistono altre pratiche altrettanto riprovevoli: una sorta di mal comune mezzo gaudio, come a dire che un male rende accettabile un altro male e una tragedia ne giustifica un’altra. L’altra argomentazione che sostiene spesso è che se cercassimo di evitare le pratiche disumane, vietandole, non riusciremmo mai a bandirle del tutto, dunque tanto vale legittimarle, con regole che di fatto ne sanciscono l’accettazione.

Il libro si divide in due parti apparentemente autonome (queerness e Gpa), in realtà collegate esplicitamente dall’autrice: secondo la sua visione, la queerness è infatti il presupposto alla Gpa. La prima metà è dunque dedicata alla “famiglia queer” che Murgia ha creato attorno a sé, ovvero una «famiglia fatta da legami altri», non di sangue ma «di anima», «una scelta di transizione permanente» che rifiuta il sistema binario uomo-donna. In un contesto del genere, sostiene, gravidanza e maternità vanno disgiunte: «Io la mia maternità la vivo senza essere mai passata dallo stato interessante», scrive assolutizzando la sua esperienza personale. Niente di nuovo, in fondo: sappiamo dalla notte dei tempi che si può essere “figli d’anima” e “madri (e padri) d’anima” senza passare necessariamente per la discendenza biologica, basterebbe che Murgia avesse incontrato le migliaia di famiglie aperte all’accoglienza per scoprire che tutto questo esisteva già e non per ideologia.

Un esempio tra tanti, l’Associazione Papa Giovanni XXIII di don Benzi e il mare sterminato di “figli di cuore”, come li chiamano, che popolano le loro famiglie accanto ai “figli di pancia”, che siano sani o disabili, bianchi o neri, giovani o vecchi, italiani o stranieri, eterosessuali o lgbt, senza che nessuno chieda loro conto di tutto questo.

Ma per Murgia smantellare la “famiglia tradizionale” è funzionale in termini di logica per approdare alla questione che le sta a cuore, la Gpa: se infatti maternità e gravidanza diventano concetti slegati o addirittura antitetici, partorire un bambino non fa di una donna sua madre, e cederlo ad altri non è più così grave. «Non è tollerabile in un discorso serio – scrive – sentir definire “maternità” quello che invece è il processo fisico della sola gravidanza (...)»: secondo lei con l’utero in affitto non si cede il bambino partorito ma solo l’atto fisico di una gestazione. Colpisce come questa visione ignori totalmente quell’universo di interazioni simbiotiche che per nove mesi unisce indelebilmente la madre con suo figlio.

La famiglia “tradizionale” è liquidata quindi come la «struttura cara alle destre», ma anche «ai moderati cattolici» per colpa della Chiesa «che la considera la cellula primaria della società cristiana». Però è costretta a opporsi anche a «donne che stimo e con cui ho condiviso percorsi», cioè le femministe del movimento Se Non Ora Quando-Libere che nel 2015 lanciarono un appello alle istituzioni europee «affinché dichiarassero illegale quella che loro chiamavano “maternità surrogata”». Il termine la infastidisce perché prevede «una sorta di “naturalità” insita nel legame di gestazione»; così come la «sbalordisce» il fatto che queste femministe parlino della maternità come di «percorso di vita» e «avventura umana straordinaria». Murgia avverte: se si sostiene una «unicità insostituibile del legame tra gestante e feto» si finisce con il mettere in discussione non solo la Gpa ma anche “diritti” già normati, ovvero l’aborto, il parto in anonimato e persino l’adozione.

Il gap logico è evidente. Così come il successivo svarione semantico con cui sovrappone la parola “famiglia” alla “famiglia mafiosa”. Lo fa appoggiandosi a quello che definisce «il nostro intellettuale più lucido e coraggioso», Roberto Saviano: «Alla domanda “quando finiranno le mafie?” Roberto ha risposto che questo avverrà solo quando finiranno le famiglie, cioè “quando l’umanità troverà nuove forme d’organizzazione sociale, nuovi patti d’affetto, nuove dinamiche in cui crescere vite”. Dopotutto la famiglia mafiosa si definisce essa stessa “famiglia”». Dimentica che a questa stregua anche la “famiglia queer” si avvale del medesimo termine...

Analizza poi gli aspetti più problematici della Gpa, primo tra tutti il passaggio di denaro. A essere venduto, sostiene, non è un essere umano, perché «le donne povere vendono la propria capacità riproduttiva, non un figlio». E la pratica non va vietata, perché tanto «qualcuno andrà a cercare la risposta in India» (come a dire, ad esempio, che è inutile vietare l’acquisto delle armi, tanto chi vuole sa dove trovarle).

D’altra parte, sostiene poi, anche l’aborto è l’interruzione di una relazione biologica e «si abortisce soprattutto per ragioni economiche», quindi «quale sarebbe la ragione per cui si può impedire la nascita di un essere umano perché non si hanno abbastanza soldi, ma non si può ipotizzare una legge che permetta di realizzarla per ottenere soldi?». In effetti, per un attimo si rende conto della gravissima disuguaglianza cui sta destinando le donne povere, sottoposte in entrambi i casi a pratiche disumane che le donne ricche non subiscono in quanto ricche, tant’è che ammette: «Che poi lo Stato debba fare di tutto per rimuovere le ragioni economiche dell’una e dell’altra scelta è una questione di giustizia», ma, conclude, «finché non saremo socialmente in grado di rimuovere gli ostacoli economici che impediscono loro di diventare o no madri esse devono poterlo fare dentro a un quadro di regole»: insomma, il loro destino è ineluttabile, tanto vale legalizzarlo.

Sa bene che la fantomatica Gpa solidale (gratuita) non esiste, o quasi, e che «immaginare che una gestante surrogata possa affrontare tutto questo per altruismo» è irreale, le donne povere lo fanno «per soldi e per nessun altro scopo». Ma il mercato umano è giustificato: «Mi appare impensabile chiedere a qualcuna di affrontare un simile impegno senza prevedere un’alta remunerazione». Sembra non considerare che l’alta remunerazione non va certo alla gestante ma soprattutto al suo sfruttatore, e che comunque nessuna vita può essere venduta né regalata, semplicemente perché non le appartiene.

Ammette anche il fatto che normare la Gpa non risolverebbe tale mercificazione, anzi, «legittimerebbe la gravidanza surrogata come opportunità per gente con i soldi», e a questo punto si incarta. Scoprendo l’acqua calda: i “genitori intenzionali” pagano, quindi sono erroneamente convinti di «stare ordinando un bambino» e perciò pretendono di ricevere «un prodotto conforme». Da qui una serie di dilemmi: «È possibile rifiutare un bambino malato? È possibile chiedere alla gestante di abortirlo? Sono questioni che turbano», ammette, ma l’unica soluzione che vede è sempre legittimare: «Le leggi che consentono sono le uniche che possano mettere dei limiti all’azione che stanno legittimando». Se Lincoln l’avesse pensata così, la schiavitù dei neri sarebbe stata legalizzata anziché bandita, così come la tortura, l’omicidio, lo stupro, la pedofilia.

Eppure, Michela Murgia conosce bene ciò che avviene nei Paesi in cui la Gpa è legale, dove gli acquirenti pretendono «un prodotto genetico con delle specifiche» altrimenti lo rifiutano. Ma se la rinuncia alla patria potestà è un diritto per i genitori tradizionali, «perché – si chiede – non dovrebbe essere possibile anche ai genitori intenzionali?». Arriva a sostenere che un bambino venduto è un privilegiato: a differenza del figlio che nasce nella propria famiglia (»evento che nei due terzi delle volte oscilla tra casualità e irresponsabilità»), quello commissionato infatti è «desideratissimo», e il fatto di essere stato «molto pagato» lo rende prezioso. Non saprà mai chi sono i suoi genitori? «È un falso problema», taglia corto, «anche un bambino generato tradizionalmente può essere stato concepito con rapporto occasionale». I prezzi sono da capogiro? «Lo so per esperienza, almeno 150mila se non 200mila euro»..., «ammesso e non concesso che la generazione biologica sia così meno costosa» (sic).

Splendido il capitolo finale del libro, intitolato “Altre madri”, un testo che risale al 2008, gli anni di Accabadora, il romanzo che la rese celebre e che già proponeva il tema delle diverse maternità, d’anima più che di sangue. La sua prosa non era ancora inquinata dalle continue schwa (simbolo per evitare le desinenze maschili e femminili) che in Dare la vita rendono impervia la lettura, cancellano la differenza tra i due sessi, mistificano una omologazione che non esiste, deformano la grammatica. Ma Michela Murgia non aveva ancora rinunciato al genio di scrittrice per vestire i panni dell’attivista. E la sua prosa era pura poesia.



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Analisi Michela Murgia e la gestazione per altri: una difesa accorata che non convince

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10.02.2024

Michela Murgia (1972-2023) a Cabras, in una fotografia di alcuni anni fa - Ansa

«Quando qualcosa non vi torna datemi torto, dibattetene, fate casino». Lo scrive Michela Murgia in apertura a Dare la vita (Rizzoli), il libro sulla gestazione per altri uscito postumo da poche settimane. Più liberale dei suoi fan, che ne hanno fatto un totem indiscutibile, la Murgia ha inteso dunque offrire non un saggio ma una serie di considerazioni che stimolassero la discussione sulla Gpa (Gestazione per altri, detta altrimenti maternità surrogata, o utero in affitto) dal punto di vista strettamente logico. Così conduce il lettore attraverso una serie di suoi ragionamenti per dimostrare la teoria della Gpa come conquista di civiltà. Ma è proprio sulla logica che Dare la vita è un libro carente, basato su passaggi che non reggono. Il principio più frequente portato avanti per legittimare gli aspetti critici dell’utero in affitto è che nella vicenda umana esistono altre pratiche altrettanto riprovevoli: una sorta di mal comune mezzo gaudio, come a dire che un male rende accettabile un altro male e una tragedia ne giustifica un’altra. L’altra argomentazione che sostiene spesso è che se cercassimo di evitare le pratiche disumane, vietandole, non riusciremmo mai a bandirle del tutto, dunque tanto vale legittimarle, con regole che di fatto ne sanciscono l’accettazione.

Il libro si divide in due parti apparentemente autonome (queerness e Gpa), in realtà collegate esplicitamente dall’autrice: secondo la sua visione, la queerness è infatti il presupposto alla Gpa. La prima metà è dunque dedicata alla “famiglia queer” che Murgia ha creato attorno a sé, ovvero una «famiglia fatta da legami altri», non di sangue ma «di anima», «una scelta di transizione permanente» che rifiuta il sistema binario uomo-donna. In un contesto del genere, sostiene, gravidanza e maternità vanno disgiunte: «Io la mia maternità la vivo senza essere mai passata dallo stato interessante», scrive assolutizzando la sua esperienza personale. Niente di nuovo, in fondo: sappiamo dalla notte dei tempi che si può essere “figli d’anima” e “madri (e padri) d’anima” senza passare necessariamente per la discendenza biologica, basterebbe che Murgia avesse incontrato le migliaia di famiglie aperte all’accoglienza per scoprire che tutto questo esisteva già e non per ideologia.

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