La comunicazione è parte essenziale della vita. Accompagna le nostre esistenze e qualche volta le afferra. E questo avviene sia quando a metterci in relazione, in comunicazione appunto, sono le parole – il motto, i motti – sia quando a portarci in contatto è il movimento – il moto, i moti . La comunicazione è infatti sempre collegamento, connessione, costruzione e uso di vie e di codici comuni. Gli esiti possono essere differenti, all’insegna dell’incontro o, al contrario, dello scontro. Alcune volte la comunicazione è conservazione o reazione, altre è sviluppo o rivoluzione. E nei casi estremi – in ogni brusco «cambiamento d’epoca», per usare l’espressione scelta da papa Francesco per fotografare questa fase storica – i moti e i motti prendono sconvolgente forza, fino a far sperimentare diverse e persino inedite forme di violenza. La storia di cui il genere umano è protagonista è piena di questi eventi e di queste cicatrici. Noi siamo in una ferita aperta.

La rivoluzione digitale è una rivoluzione comunicativa, e sembra avviarsi a essere il culmine e il capovolgimento – rivoluzionario appunto –, dell’Antropocene . Cioè dell’era ancora presente, che l’umanità ha abitato e condizionato con capacità meravigliosamente generativa e purtroppo anche con propensione estrattiva e manipolatoria sino alla devastazione. Abbiamo accumulato, elaborato, mercanteggiato, valorizzato e consumato risorse materiali e morali, e questo è concepibile e per molti versi ragionevole, ma abbiamo pure fatto in modo, o comunque abbiamo lasciato, che gli stessi esseri umani venissero assorbiti – ridotti da soggetti a oggetti – in uno spazio comunicativo che stiamo facendo coincidere con l’immenso ipermercato planetario che si è realizzato tra l’ultima decade del Novecento e l’inizio di questo Millennio. E questo non è solo irragionevole e, di più irrazionale, ma dovrebbe essere sentito come immorale.

Gli individui inseguono nuovi protagonismi tra reale e virtuale e di questi successi, in genere, a parte limitate eccezioni, si illudono. Soltanto ristretti sinedri trionfano, dando sostanza a vertiginose disuguaglianze reali e digitali. E, tra tutti gli altri, anche chi ottiene fama e fortuna col suo rastrello digitale da blogger e ancor più da influencer può ritrovarsi sul filo di un rasoio digitale e scoprire che il calcolato sacrificio della privacy propria e altrui (fin oltre il confine familiare) minaccia di allargarsi al nitore della fedina penale. Intanto masse crescenti di persone, di cittadini e cittadine, vengono ridotte in differenti ma ugualmente stridenti maniere a bersaglio (target) e a clientela (followers), a corporazione (stakeholders ) e a cellecaselle (account) del grande alveare della Rete. Che non è solo e necessariamente un inferno, ovviamente, ma si rivela falso paradiso se chi ci entra pensa di essere protetto e salvo dietro una salva di “salva” e di chiavi alfanumeriche sicure dettate da algoritmi oppure confezionate in modo stravagante sul filo della memoria. O magari perché ci si sente rassicurati dal fatto di essersi imposti per un verso, soltanto per un verso, una maschera digitale (nickname) o un interposto sembiante (avatar). Ma soprattutto se non ci si accorge di essere considerati e di essersi consegnati allo status di prodotti o di pezzi di prodotto: bisogni e desideri, sentimenti e risentimenti, competenze e dati sensibili da estrarre, da saccheggiare, da sfruttare. Economicamente, politicamente, mediaticamente.

Non c’è dubbio, insomma, che la rivoluzione digitale stia afferrando le nostre vite, realizzandosi in modo accelerato e veemente, mettendo a poco a poco, ma inesorabilmente, in questione la dignità della persona umana e ponendo in dubbio, e a rischio, in forma inattesa la posizione centrale e speciale, la condizione pensante e pensata, che le donne e gli uomini hanno avuto, alla quale – progredendo – hanno aspirato e che dovrebbero oggi mantenere con maggiore saggezza e concreta responsabilità nel mondo che è dato loro «in custodia» con tutta la vita e le possibilità di vita e le vie e i mezzi di comunicazione che realmente e virtualmente contiene.

Bisogna esser grati per l’allarme fatto risuonare, per la sua parte di responsabilità, dall’Autorità italiana di garanzia per la protezione dei dati personali davanti all’enorme sfida posta dall’impetuoso affacciarsi dell’Intelligenza Artificiale ( IA), macchine o meccanismi pensanti, alla dignità stessa dell’uomo e della donna. È bene averlo chiaro. Perché «occorre “mettere a terra” (cioè, traduco, nella realtà delle persone e delle comunità, ndr) sistemi che non siano competitivi rispetto all’essere umano ma complementari e che contribuiscano alla piena realizzazione dell’uomo senza configurare una sorta di nuova specie di sapiens. E poi c’è l’idea di realizzare sistemi che non escludano o marginalizzino i più poveri, creando nuove disuguaglianze, all’origine delle guerre». Ho citato un’acuta riflessione di Paolo Benanti, un grande esperto che ha saputo sottolineare come l’IA sia «un mezzo in grado di perseguire un fine costi quel che costi» e di ricordarci che «i conflitti accadono quando si perseguono obiettivi senza tener conto delle conseguenze». L’IA può farlo sul piano geopolitico come su quello economico anche attraverso « la manipolazione del linguaggio, dell’informazione e delle conoscenze ».

Non è detto che accada sempre e comunque, ma è più che probabile senza la costruzione e la condivisione di regole salde e comuni. Si sta, infatti, disegnando uno scenario da brividi in questo nostro tempo in cui la guerra dilaga e spacca di nuovo le opinioni pubbliche e la comunità internazionale e torna tragicamente a essere legittimata nell’incontro-scontro con l’altro. Per questo nell’ultimo G7 si è ragionato sull’IA su come agire per scongiurare la prospettiva che essa diventi una nuova bomba atomica. (...) Per questo il Papa chiama a disarmare queste tecnologie e a usarle per «pavimentare la via della pace». (...)

Ho ricordato in alcune occasioni, anche su “Avvenire” che Isaac Asimov aveva previsto un tale sviluppo. E aveva postulato, da scienziato (era biochimico) prima ancora che visionario scrittore, che l’era della robotica, l’era dell’IA, avrebbe dovuto essere governata da tre leggi universalmente accettate e poste ad argine delle sue potenzialità distruttive. Immaginò perciò leggi incentrate sul basilare e prioritario rispetto dell’esistenza di ogni singola persona umana. Infine, però introdusse una quarta norma – la Legge Zero – che impone la tutela dell’umanità e precede tutte le altre (...) Legge potente e ambigua sino al punto di portare alla “pazzia”, cioè all’autodistruzione, un’intelligenza artificiale pur animata da spirito di conservazione. Lo rammento anche oggi per segnalare la difficoltà del passaggio nel quale siamo impegnati.

Tutto ciò tocca in profondità le parole tra di noi e il movimento ( fisico, morale, sociale…) che esse producono o accompagnano. L’uso da parte di un’Intelligenza Artificiale di dati che ci riguardano, di informazioni fornite (più o meno consapevolmente) da noi stessi o da altri con fini limpidi o torbidi e la conseguente possibilità di “generare” (in)credibilmente narrazioni, immagini e suoni veri, verosimili o totalmente falsi aggiunge davvero una sorta di “bomba atomica” pure agli strumenti della comunicazione attuale. Che è già infestato di arnesi e atteggiamenti a rischio che trasferiscono, amplificandole, nella dimensione digitale le tensioni e le violenze che contrassegnano le nostre società ma anche le indignazioni e le reazioni per esse, che non sono tutte nonviolente.

L’antica insidia della comunicazione che è più propriamente informazione e che può degenerare in deformazione di fatti e connotati personali risulta ingigantita dalle condizioni in cui si sviluppa e continua a svilupparsi la modalità digitale. Abbiamo sotto gli occhi praticamente ogni giorno gli effetti che essa può concretamente produrre sulla vita di esseri umani trasformati in mostri o in eroi e magari precipitati di colpo nella polvere urticante dei reietti o dei truffatori. Può toccare a tutti, ma – su questo continuo a riflettere e chiedo di riflettere – soprattutto tocca agli uomini e alle donne, persino ai minori, che vengono catalogati e rinchiusi nelle categorie dei marginali e delle “persone non grate”, e addirittura – lo dico, anche se dà i brividi soprattutto in questi giorni dedicati alla Memoria – degli untermenschen , dei meno che umani. Che siano cittadini a pieno titolo della nostra Repubblica e della nostra Europa o siano “solamente” (vorrei mettere tutte le possibili virgolette a questo avverbio) cittadini del mondo, esattamente come lo siamo noi. (...)

Per concludere, brevemente, è utile concentrarsi sulla dignità di quei particolari protagonisti della comunicazione che sono i giornalisti e le giornaliste. L’umanizzazione della comunicazione passa anche dalla libera e necessaria presenza e dalla qualità umana di coloro che nella Rete operano da professionisti con competenza e codici dei doveri ben chiari. È vero che nel tempo dei nuovi canali digitali tutti hanno parte e ruolo sia accogliendo, sia elaborando sia irradiando notizie (o presunte tali), ma su ogni giornalista grava una responsabilità maggiore e il peso di un potere che è – e dovrebbe essere sempre – al servizio della libertà e della dignità degli interlocutori: chi è al centro della cronaca e chi segue le narrazioni che i giornalisti realizzano. So bene che non siamo tutti e sempre all’altezza del compito, ma tanti lo sono. E di questa altezza, che è sempre altezza umana , abbiamo bisogno.

In questo nostro «cambio di epoca» anche tutto ciò è messo radicalmente in forse, aggravando un processo che già da tempo sta portando all’impoverimento e alla destrutturazione delle comunità di lavoro che chiamiamo Redazioni e alla condizione solitaria di cronisti e croniste ridotte a freelance (letteralmente, “libere lance”, soldati di ventura, schierabili e condizionabili da chi li affitta) e che sospinge verso la minacciosa e sempre meno irrealistica suggestione dei palinsesti (digitali) informativi realizzati non più solo da aggregatori di notizie, ma da intelligenze “altre”, artificiali appunto. Anche questa è una violenta torsione a cui siamo sottoposti. Finché siamo in tempo, mentre sale la piena, diamo argini e diamoci regole perché il fiume digitale, attraversi la città dell’uomo e della donna, le sia complementare, e non la devasti con innaturale e mai innocente violenza.​


Questo testo è una sintesi dell’intervento pronunciato da Marco Tarquinio al convegno “Violenza della rete, violenza nella rete”, organizzato il 30 gennaio 2024 a Roma dal Garante della privacy in occasione della Giornata europea.

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Analisi Rivoluzione digitale e comunicativa: preserviamo la dignità delle persone

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31.01.2024

La comunicazione è parte essenziale della vita. Accompagna le nostre esistenze e qualche volta le afferra. E questo avviene sia quando a metterci in relazione, in comunicazione appunto, sono le parole – il motto, i motti – sia quando a portarci in contatto è il movimento – il moto, i moti . La comunicazione è infatti sempre collegamento, connessione, costruzione e uso di vie e di codici comuni. Gli esiti possono essere differenti, all’insegna dell’incontro o, al contrario, dello scontro. Alcune volte la comunicazione è conservazione o reazione, altre è sviluppo o rivoluzione. E nei casi estremi – in ogni brusco «cambiamento d’epoca», per usare l’espressione scelta da papa Francesco per fotografare questa fase storica – i moti e i motti prendono sconvolgente forza, fino a far sperimentare diverse e persino inedite forme di violenza. La storia di cui il genere umano è protagonista è piena di questi eventi e di queste cicatrici. Noi siamo in una ferita aperta.

La rivoluzione digitale è una rivoluzione comunicativa, e sembra avviarsi a essere il culmine e il capovolgimento – rivoluzionario appunto –, dell’Antropocene . Cioè dell’era ancora presente, che l’umanità ha abitato e condizionato con capacità meravigliosamente generativa e purtroppo anche con propensione estrattiva e manipolatoria sino alla devastazione. Abbiamo accumulato, elaborato, mercanteggiato, valorizzato e consumato risorse materiali e morali, e questo è concepibile e per molti versi ragionevole, ma abbiamo pure fatto in modo, o comunque abbiamo lasciato, che gli stessi esseri umani venissero assorbiti – ridotti da soggetti a oggetti – in uno spazio comunicativo che stiamo facendo coincidere con l’immenso ipermercato planetario che si è realizzato tra l’ultima decade del Novecento e l’inizio di questo Millennio. E questo non è solo irragionevole e, di più irrazionale, ma dovrebbe essere sentito come immorale.

Gli individui inseguono nuovi protagonismi tra reale e virtuale e di questi successi, in genere, a parte limitate eccezioni, si illudono. Soltanto ristretti sinedri trionfano, dando sostanza a vertiginose disuguaglianze reali e digitali. E, tra tutti gli altri, anche chi ottiene fama e fortuna col suo rastrello digitale da blogger e ancor più da influencer può ritrovarsi sul filo di un rasoio digitale e scoprire che il calcolato sacrificio della privacy propria e altrui (fin oltre il confine familiare) minaccia di allargarsi al nitore della fedina penale. Intanto masse crescenti di persone, di cittadini e cittadine, vengono ridotte in differenti ma ugualmente stridenti maniere a bersaglio (target) e a clientela (followers), a corporazione (stakeholders ) e a cellecaselle........

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