C’è, in effetti, il rischio di dedicarci perennemente alle imprese di Jannik Sinner, proprio perché su "Avvenire" non parliamo solo di cronaca dello sport ma soprattutto di come lo sport impatti sulla società, qualche volta nel bene, qualche volta nel male. Come si fa dunque a non parlare spesso di un atleta che ha vinto 42 delle ultime 45 partite (in uno sport come il tennis), che con la posizione numero 2 al mondo è arrivato dove nessun italiano era mai arrivato prima, ma che, soprattutto, ogni volta che apre la bocca insegna qualcosa anche a chi tennista non è?

Domenica, dopo la vittoria straordinaria (verrebbe da dire “prepotente”, ma mai aggettivo sarebbe più lontano da Sinner) sul bulgaro Dimitrov a Miami, nel corso dell’intervista post-gara ha dichiarato: «Sono un predestinato del lavoro». Si potrebbe chiudere qui, perché non c’è frase più vigorosa che un atleta potrebbe pronunciare. Dopo una certa sopravvalutazione del talento (inteso come dono, ma anche come colui o colei che proprio grazie al talento accorcia i tempi, brucia le tappe) arriva Sinner, il campione che non so se meritiamo, ma di cui certamente abbiamo bisogno.

Al netto degli sport di squadra, c’è una costellazione fatta da quattro stelle che hanno segnato la storia dello sport azzurro degli ultimi cinquanta anni (sempre nel senso di cui sopra, cioè quello di avere avuto un impatto impressionante sulla società): si chiamano Pietro Mennea, Alberto Tomba, Marco Pantani e Valentino Rossi. Tanti sono gli atleti e le atlete che hanno ottenuto successi indimenticabili e hanno fatto sognare milioni di tifosi, ma probabilmente solo questi quattro sono arrivati così in profondità da lasciare un segno nella nostra società e cultura.

Tutti e quattro sono stati enormi lavoratori (il tratto comune è sempre quello) e hanno in qualche modo rappresentato la propria epoca: Pietro Mennea il riscatto, la rinascita, il desiderio fachirico di raggiungere l’eccellenza da underdog in battaglia con il mondo; Alberto Tomba la grandezza, la superiorità impressionante, senza perdere l’aspetto ludico, quasi cameratesco, della prestazione; Marco Pantani, la sua capacità di emozionare come forse nessun altro, ma anche la difficoltà del suo percorso, le luci e le ombre, la sofferenza, in bicicletta e fuori, la sua solitudine, l’epilogo tragico; Valentino Rossi, al contrario, la leggerezza, il sorriso, la velocità nel senso letterale del termine, simbolo dell’inizio del nuovo millennio.

Oggi questa costellazione sta aggiungendo una quinta, luminosissima stella, quella di Jannik Sinner: il ragazzo che non ha fretta e proprio per questo va veloce, colui al quale pare piacere più l’allenamento della partita, il giovane che rifiuta le scorciatoie, che ringrazia gli avversari quando lo mettono in difficoltà perché gli stanno insegnando qualcosa, la dimostrazione vivente che il talento, senza l’allenamento, serve a poco. Che spettacolo, questo 22enne che ci traghetta dall’epoca dei “talent show” a quella dei “training show”. Sì, abbiamo maledettamente bisogno di un campione come lui proprio in questo momento, qualcuno capace di insegnarci che nulla, ma davvero nulla, succede per caso.

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Sport e società Sinner, il predestinato (del lavoro) di cui abbiamo bisogno

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01.04.2024

C’è, in effetti, il rischio di dedicarci perennemente alle imprese di Jannik Sinner, proprio perché su "Avvenire" non parliamo solo di cronaca dello sport ma soprattutto di come lo sport impatti sulla società, qualche volta nel bene, qualche volta nel male. Come si fa dunque a non parlare spesso di un atleta che ha vinto 42 delle ultime 45 partite (in uno sport come il tennis), che con la posizione numero 2 al mondo è arrivato dove nessun italiano era mai arrivato prima, ma che, soprattutto, ogni volta che apre la bocca insegna qualcosa anche a chi tennista non è?

Domenica, dopo la vittoria straordinaria (verrebbe da dire “prepotente”, ma mai aggettivo sarebbe più lontano da Sinner) sul bulgaro Dimitrov a Miami, nel corso dell’intervista post-gara ha dichiarato: «Sono un predestinato del lavoro».........

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