Nonostante gli importanti passi in avanti, l’Unione europea rimane, ad oggi, un progetto incompiuto. Lo ha ribadito di recente anche Romano Prodi. Basata su trattati vincolanti per gli Stati membri, essa mantiene una limitata capacità di azione politica. Una configurazione che può (forse) non avere gravi conseguenze in tempi normali (ammesso che esistano). Ma che nelle crisi fa emergere tutte le sue implicazioni negative.

Le conseguenze di questa fragilità istituzionale si sono già pesantemente palesate nella crisi finanziaria del 2008: mentre altri Paesi sovrani (Stati Uniti, Regno Unito, Giappone) misero rapidamente in campo le politiche monetarie espansive necessarie per attutire gli effetti sociali della recessione, ci vollero quattro lunghi anni per arrivare a quel 26 luglio 2012, quando Mario Draghi – con la famosa formula “whatever it takes” – riuscì ad allineare l’Unione europea ai passi necessari per affrontare la situazione. I pesanti costi umani e sociali dovuti a quel ritardo sono stati il terreno di coltura dei populismi.

Una paralisi che si ritrova anche nell’imbarazzante incapacità europea di darsi una strategia politica per gestire i flussi migratori e le relazioni con i Paesi d’origine. A partire dalla Libia. Con il Covid le cose sono andate decisamente meglio. Il Next generation Eu e il Green Deal sono stati atti politici importanti. Ma il problema è tornato a farsi evidente con la crisi in Ucraina: distinguo, incertezze, iniziative non concordate non hanno aiutato. Anzi. Un procedere zoppicante particolarmente pericoloso nel momento in cui sappiamo che uno degli obiettivi di Putin è proprio quello di spezzare l’unità europea e indebolire le sue democrazie.

Al punto in cui siamo, la fragilità politica dell’Europa rappresenta un oggettivo vantaggio per Putin. Una condizione che lo autorizza a diventare ogni giorno più aggressivo e che, perciò, ritarda anche il momento in cui sarà possibile aprire il negoziato.

Ci sono almeno tre domande politiche a cui l’Europa è chiamata oggi a rispondere.

In primo luogo, quali sono i confini europei? Il che significa: qual è l’idea dei rapporti che l’Europa vuole avere nei confronti dei Paesi confinanti? Si è avviata la lunga procedura per far entrare l’Ucraina nell’Unione europea. Ma i problemi non finiscono qui: c’è il tema della Moldavia, ugualmente minacciata da Putin; ci sono i Balcani, che rischiano di diventare una polveriera; c’è la partita della Turchia, che rappresenta un mondo completamente diverso. E, non ultimo, il Mediterraneo che guarda all’Africa.

In secondo luogo, quale è il modello di difesa comune? Tema che diventa scottante nell’ipotesi di una possibile vittoria di Trump.

Ma al di là di quello che accadrà negli Stati Uniti, è fondamentale che l’Europa affronti finalmente questo snodo. Che è tanto importante quanto la moneta unica. La Nato è indispensabile, ma non basta. Serve una posizione europea. Il che non riguarda solo il tema, sempre rimandato, della creazione di un esercito comune. Ci sono anche altri nodi spinosissimi, ma centrali: quale è il rapporto tra l’unica potenza nucleare (la Francia) – che occupa anche un seggio permanente al Consiglio di sicurezza dell’ONU ­– e l’idea di difesa della Ue? Può esistere una Unione senza una politica estera comune, in un mondo che sta cambiando così profondamente? E, più in profondità, l’Unione europea ha la capacità di presentarsi come un modello diverso nel momento in cui si osserva il ritorno di politiche neo-imperiali?

La terza questione riguarda gli impegni vincolanti (economici, militari, diplomatici) che i Paesi dell’Unione europea si sentono di prendere nella gestione della gravissima crisi in corso. E della sua possibile evoluzione. Come decidere sul riarmo, sugli spostamenti di truppe, sugli investimenti militari, sull’impegno economico a sostegno dell’Ucraina?

Allo stato attuale dei fatti sembra una chimera poter rispondere a queste domande. I tempi delle istituzioni sono quelli che sono: dopo le elezioni a giugno, seguirà la formazione del nuovo Parlamento e della nuova Commissione. Ma la storia, ahimè, non aspetta.

Di fronte a tutto questo è dunque ragionevole avanzare la proposta di una conferenza straordinaria dei capi di Stato e di governo dell’Unione europea sulle implicazioni politiche della crisi in corso. Tale conferenza – che darebbe un segnale politico fortissimo – potrebbe svolgersi subito dopo le elezioni di giugno, per fissare le linee comuni di una azione politica su cui il prossimo Parlamento e la prossima Commissione potranno poi effettivamente lavorare. All’interno di una cornice politica discussa e decisa insieme.

Ci sono momenti nella storia in cui bisogna fare dei salti. La crisi, in questo momento, è troppo grande e rischiosa per stare fermi. Bisogna immaginare qualcosa di nuovo e avere l’audacia dell’iniziativa.

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Europa Confini, difesa, Ucraina: tre domande per l’Unione

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06.04.2024

Nonostante gli importanti passi in avanti, l’Unione europea rimane, ad oggi, un progetto incompiuto. Lo ha ribadito di recente anche Romano Prodi. Basata su trattati vincolanti per gli Stati membri, essa mantiene una limitata capacità di azione politica. Una configurazione che può (forse) non avere gravi conseguenze in tempi normali (ammesso che esistano). Ma che nelle crisi fa emergere tutte le sue implicazioni negative.

Le conseguenze di questa fragilità istituzionale si sono già pesantemente palesate nella crisi finanziaria del 2008: mentre altri Paesi sovrani (Stati Uniti, Regno Unito, Giappone) misero rapidamente in campo le politiche monetarie espansive necessarie per attutire gli effetti sociali della recessione, ci vollero quattro lunghi anni per arrivare a quel 26 luglio 2012, quando Mario Draghi – con la famosa formula “whatever it takes” – riuscì ad allineare l’Unione europea ai passi necessari per affrontare la situazione. I pesanti costi umani e sociali dovuti a quel ritardo sono stati il terreno di coltura dei populismi.

Una paralisi che si ritrova anche nell’imbarazzante incapacità europea di darsi una strategia politica per gestire i flussi migratori e le relazioni con i Paesi d’origine. A........

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