Le proteste all'università di Sana'a, nello Yemen, in solidarietà del popolo palestinese - Ansa

Per i non esperti di geografia mediorientale, queste settimane portano tristemente alla ribalta luoghi e nomi tanto esotici quanto difficili da collocare sulla mappa, come Bab el-Mandel, Baluchistan, Kerman, Erbil. Aree di una regione in cui, passo dopo passo, scoppiano nuovi focolai dell’incendio indomabile scatenatosi il 7 ottobre scorso, con l’attacco di Hamas a Israele e la durissima reazione dello stato ebraico a Gaza e che rendono quanto mai tragicamente attuale la famosa definizione di Francesco di una “guerra mondiale a pezzi”.

In questi ultimi giorni, oltre all’inizio delle operazioni militari navali anglo-americane contro gli Houthi in Yemen, per bloccare i loro attentati alla navigazione commerciale verso il Canale di Suez, vena giugulare del commercio marittimo internazionale, si è assistito a un serie di attacchi missilistici iraniani in Siria, Iraq e Pakistan (con la rappresaglia, sempre missilistica e ampiamente prevedibile, di quest’ultimo Paese).

Ma cosa vuole ottenere la Repubblica Islamica con questi attacchi e con il sostegno a una fitta rete di milizie attive in Medio Oriente? È evidente come la brutalità delle operazioni militari israeliane a Gaza, che in questi quattro mesi di conflitto hanno causato la morte di quasi venticinquemila civili palestinesi, fra cui moltissime donne e bambini, siano sempre meno sopportabili per la dirigenza iraniana, ormai priva di esponenti moderati o pragmatici, tutti estromessi dal potere dalle fazioni più radicali e dogmatiche. Queste ultime invocano la distruzione “dell’entità sionista”, finanziano e armano gli Houthi in Yemen, Hezbollah in Libano, Hamas a Gaza, più una pluralità di milizie che sono servite a far vincere all’alleato Assad la guerra civile in Siria e a condizionare la politica irachena. Ma Teheran sa di non poter entrare direttamente nel conflitto, dato che si troverebbe a dover affrontare la reazione israeliana e statunitense, che hanno mezzi offensivi enormemente superiori ai suoi.

Tuttavia, una serie di clamorosi attentati terroristici e di plateali attacchi israeliani ai vertici militari dei potenti pasdaran, le cui forze militari sono dispiegate nella regione, ha in queste settimane umiliato Teheran, mostrando al mondo la sua vulnerabilità, tanto all’esterno quanto all’interno del Paese. Una situazione insostenibile per le potentissime guardie della rivoluzione, che rappresentano ormai l’elemento più forte del regime: un’ascesa costruita con i successi geopolitici e militari all’estero, che viene tuttavia incrinata dai continui colpi subiti all’interno del Paese. Da qui la scelta di mostrare i muscoli con una serie di attacchi missilistici e con droni nei paesi vicini, per colpire agenti del Mossad o gruppi terroristici e indipendentisti come quelli attivi in Baluchistan o nel Kurdistan iraniano. Insomma, una serie di mosse offensive che tuttavia rappresentano anche la necessità difensiva di non lasciare senza risposta i colpi subiti, per evitare di essere percepiti come deboli o impauriti.

Questo genere di attacchi limitati, in una situazione “normale” – ammesso che nel Medio Oriente vi sia mai stato un periodo di tranquillità geostrategica – non avrebbero suscitato i timori che suscitano ora, con la regione già in fiamme. Sarebbe grossolano ritenere che gli Houthi o Hebzollah siano solo delle marionette nelle mani dell’Iran. Non è così: sono movimenti che dipendono fortemente da Teheran ma hanno una loro autonomia e una propria agenda politica. Il rischio, tuttavia, è che le diverse tessere del puzzle dei conflitti di questa guerra mondiale a pezzi tendano a compattarsi: nonostante praticamente tutti gli attori regionali e internazionali non lo vogliano, lo scivolamento verso una lettura unitaria delle tensioni sembra sempre più forte.

E unire “i pezzi” di questi diversi conflitti come fossero un unico puzzle, spinge a dare una risposta politico-militare unica e polarizzata, estremizzando i pericoli e alzando continuamente l’intensità dello scontro, nel gioco di provocazioni e contro-provocazioni.

Al contrario, il compito della diplomazia internazionale – ma anche di chi interpreta e spiega le dinamiche geostrategiche in corso – deve essere quello di tenere ben distinte le tessere del mosaico dei conflitti, sforzandosi di ridurne l’impatto sul quadro generale.
Ma per farlo è fondamentale che Israele accetti una nuova tregua duratura a Gaza, come si chiede ormai da mesi. Togliendo ogni paravento a chi prospera nell’incendio mediorientale che è in corso.




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L'analisi Faglie di guerra che si avvicinano, il rischio “saldatura” dei conflitti

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19.01.2024

Le proteste all'università di Sana'a, nello Yemen, in solidarietà del popolo palestinese - Ansa

Per i non esperti di geografia mediorientale, queste settimane portano tristemente alla ribalta luoghi e nomi tanto esotici quanto difficili da collocare sulla mappa, come Bab el-Mandel, Baluchistan, Kerman, Erbil. Aree di una regione in cui, passo dopo passo, scoppiano nuovi focolai dell’incendio indomabile scatenatosi il 7 ottobre scorso, con l’attacco di Hamas a Israele e la durissima reazione dello stato ebraico a Gaza e che rendono quanto mai tragicamente attuale la famosa definizione di Francesco di una “guerra mondiale a pezzi”.

In questi ultimi giorni, oltre all’inizio delle operazioni militari navali anglo-americane contro gli Houthi in Yemen, per bloccare i loro attentati alla navigazione commerciale verso il Canale di Suez, vena giugulare del commercio marittimo internazionale, si è assistito a un serie di attacchi missilistici iraniani in Siria, Iraq e Pakistan (con la rappresaglia, sempre missilistica e ampiamente prevedibile, di quest’ultimo Paese).

Ma cosa vuole ottenere la Repubblica Islamica con questi attacchi e con il sostegno a una fitta rete di........

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