Parla tramite cellulare e pc, controllati dalla muscolatura della gamba. Ora arriva a teatro con il suo primo spettacolo da regista e produttore

Quando Daniel Day Lewis vinse l’Oscar per «Il mio piede sinistro» il mondo intero all’improvviso scoprì che si può parlare anche senza voce, scrivere senza mani, essere un artista senza controllare buona parte dei movimenti. La storia era quella, vera, di Christy Brown, scrittore e pittore irlandese, nato con una disabilità fisica molto grave: l’unica parte del corpo di cui possedeva ogni funzione era il piede sinistro. Tre anni dopo l’uscita del film, a Napoli Giacomo Alvino conseguiva il diploma di maturità all’istituto tecnico sperimentale «Serra» e all’epoca (era il 1992) fu un evento considerato straordinario, perché lui, proprio come Brown, ha il corpo che gli fugge via per una disabilità grave. L’unica parte obbediente è la gamba destra. E con quella ha fatto lo stilista a Roma e a Parigi, ha scritto la sua biografia — «Vivo, creo, sogno!» (Pironti, 2008) — e oggi, sabato, e domani, domenica (alle 21 al Theatr’On di Napoli) è a teatro con il suo primo spettacolo da regista e produttore. Si intitola «È una figata pazzesca» e ha come protagonista Leonardo Di Costanzo.

Giacomo qua la «figata pazzesca» sembra la sua vita. Come ci è riuscito?
«Con un po’ incoscienza e soprattutto serenità in tutto ciò che faccio. Questi sono gli elementi che mi hanno spinto ad andare avanti con una certa disinvoltura, nonostante tutto. La capacità di interagire con gli altri anche nelle mie condizioni limitate mi ha aiutato molto a raggiungere gli obiettivi che mi ero prefisso. Riuscire a creare empatia con l’altro aiuta tanto».

Tecnicamente come fa a comunicare, a scrivere e a dirigere a teatro?
«La tecnologia oggi permette a tutte le persone come me di comunicare attraverso impulsi elettrici inviati al Pc dal cellulare, che controllo con i muscoli della gamba destra attraverso un sensore. Anni fa, quando presi la maturità , ero collegato direttamente al Pc, oggi invece funziona tutto col bluetooth ma la sostanza non cambia. Oggi è solo più facile. Io però “parlo” anche con gli occhi, con la mimica del viso, con il sorriso. Con mio fratello Flavio e con gli amici storici basta uno sguardo a volte, e ci capiamo subito».

Lei si sente di più un artista o una persona con disabilità ?
«Diciamo che fin da piccolo volevo condividere con gli altri le mie emozioni e non era importante il mezzo ma il fine e riuscire a liberarle. Perciò non penso alla disabilità ma alla creatività . E poi essere napoletano mi ha agevolato non poco: siamo dei vulcani in continua esplosione. La mia essenza è stata influenzata enormemente dal carattere di mia madre, lei era un’arredatrice e disegnava a mano le sue creazioni. Era un’artista coloratissima e mi ha trasmesso la tavolozza di colori che aveva dentro».

Così dopo il liceo, decise di fare lo stilista?
«Sì, seguii un corso di alta moda a Napoli e per poi sbarcare nella maison Gattinoni. Ero poco più che ventenne, disegnare per uno degli atelier più importanti del nostro Paese è stato un sogno, era la mia prima esperienza lavorativa e creativa. Devo dire grazie all’intuizione di Stefano Dominella e Guglielmo Mariotto, il direttore commerciale e quello artistico di Gattinoni, miei insegnanti alla scuola di moda: mi fecero collaborare con loro per alcuni anni, nei quali ho fatto delle esperienze incredibili, sia a livello nazionale che internazionale».

Il suo ricordo più bello come stilista?
«A metà anni ’90 nell’istituto di cultura italiana di Parigi fu realizzata una mostra-sfilata con abiti che si ispiravano ai cinque sensi. Io disegnai quello sulla vista e feci tutto da solo — di solito gli abiti sono il risultato della collaborazione di più stilisti —. È stata una sfida e un’emozione che non dimenticherò mai. Ho poi partecipato ad alcune edizioni delle massime rassegne nazionali di moda da stilista indipendente ma mi è presto stato chiaro che per continuare su quella strada fosse necessario un flusso di denaro che non ero in grado di generare da solo, serviva una macchina già rodata alle spalle, perciò ci ho rinunciato».

Così è passato alla scrittura?
«Per alcuni anni ho insegnato moda per un consorzio napoletano che organizzava corsi di formazione professionale. Poi il caro amico e grande editore Tullio Pironti mi propose di raccontare la mia storia in un libro. Nacque così "Vivo, creo, sogno!" per la cui stesura mi ci volle tanto tempo: scrivere attraverso l’uso della gamba, con almeno tre-quattro movimenti per scegliere una lettera, è uno sforzo fisico enorme».

Adesso il teatro. Di cosa parla la storia che proporrà in scena?
«In realtà è il secondo spettacolo che firmo, il primo però dove sono regista, produttore e sceneggiatore. È una pièce che prende spunto da un testo inglese che ho riadattato, cambiando il 67% del copione. Parla di Raf, lacerato dal senso di colpa per un incendio che gli ha portato via per sempre due persone importanti della sua vita e ormai abbandonatosi a una vita di alcol e droga. Con le debite distanze, Raf con il suo disagio è un po’ il mio avatar. Non sono cinico e non sono arrabbiato con la vita come lui, sono un po’ dispiaciuto, il che è diverso, a mio parere. Amo di Raf la sua leggerezza consapevole. Solo che lui ha 24 anni ed io ne ho 51. Ma resto un ottimista».

A chi deve dire grazie?
«Se sono quello che sono, e che mi piace essere, è anche grazie alle persone che ho trovato lungo il mio cammino. A cominciare da mia madre che è riuscita a superare i pregiudizi di un’epoca in cui i disabili stavano negli istituti, punto. Invece lei ha creduto nelle mie possibilità , ha individuato le mie potenzialità e le tecniche per farmi seguire un percorso “normale”, e per farlo ha dovuto indossare la mimetica di guerriera e affrontare il mondo, le istituzioni e le persone con il coltello tra i denti. Ho poi avuto tanti cari amici e compagni di scuola che mi hanno accettato e mi hanno consentito di sentirmi come loro, condividendo con me tutte le esperienze che la nostra età potesse metterci davanti».

Il teatro ce l’ha anche un po’ nel sangue: i suoi zii erano i coniugi Caccavale, storici impresari dell’Augusteo.
«Sì, e mi aiutarono anche a entrare in questo mondo meraviglioso, prima di tutto come spettatore. Devo poi molto anche a Michele Cesari, attore e regista di teatro, cinema e tv, che mi ha instradato nel percorso di formazione teatrale e a persone dello spettacolo che mi hanno incoraggiato, messo in contatto con altri, o anche solo sostenuto come Enrica Bonaccorti e Marina Tagliaferri».

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23 marzo 2024

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Giacomo Alvino oltre la disabilità: «Faccio il regista e lo scrittore muovendo soltanto il ginocchio»

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23.03.2024

Parla tramite cellulare e pc, controllati dalla muscolatura della gamba. Ora arriva a teatro con il suo primo spettacolo da regista e produttore

Quando Daniel Day Lewis vinse l’Oscar per «Il mio piede sinistro» il mondo intero all’improvviso scoprì che si può parlare anche senza voce, scrivere senza mani, essere un artista senza controllare buona parte dei movimenti. La storia era quella, vera, di Christy Brown, scrittore e pittore irlandese, nato con una disabilità fisica molto grave: l’unica parte del corpo di cui possedeva ogni funzione era il piede sinistro. Tre anni dopo l’uscita del film, a Napoli Giacomo Alvino conseguiva il diploma di maturità all’istituto tecnico sperimentale «Serra» e all’epoca (era il 1992) fu un evento considerato straordinario, perché lui, proprio come Brown, ha il corpo che gli fugge via per una disabilità grave. L’unica parte obbediente è la gamba destra. E con quella ha fatto lo stilista a Roma e a Parigi, ha scritto la sua biografia — «Vivo, creo, sogno!» (Pironti, 2008) — e oggi, sabato, e domani, domenica (alle 21 al Theatr’On di Napoli) è a teatro con il suo primo spettacolo da regista e produttore. Si intitola «È una figata pazzesca» e ha come protagonista Leonardo Di Costanzo.

Giacomo qua la «figata pazzesca» sembra la sua vita. Come ci è riuscito?
«Con un po’ incoscienza e soprattutto serenità in tutto ciò che faccio. Questi sono gli elementi che mi hanno spinto ad andare avanti con una certa disinvoltura, nonostante tutto. La capacità di interagire con gli altri anche nelle mie condizioni limitate mi ha aiutato molto a raggiungere gli obiettivi che mi ero prefisso. Riuscire a creare empatia con l’altro aiuta tanto».

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