Il contagio è avvenuto. La pacificazione culturale anche. Possiamo dunque pensare di non avere più due Napoli, ma una sola? Prima di rispondere, conviene riportare i termini della questione. Le due Napoli di cui si parla sono le solite: quella bassa e quella alta, la plebea e la colta; le Napoli divise di Cuoco e di Mimì Rea. Il contagio, invece, è stato ufficializzato a Sanremo dopo le scalate in classifica di Geolier.Â

Il contagio è avvenuto. La pacificazione culturale anche. Possiamo dunque pensare di non avere più due Napoli, ma una sola? Prima di rispondere, conviene riportare i termini della questione. Le due Napoli di cui si parla sono le solite: quella bassa e quella alta, la plebea e la colta; le Napoli divise di Cuoco e di Mimì Rea. Il contagio, invece, è stato ufficializzato a Sanremo dopo le scalate in classifica di Geolier e, soprattutto, dopo i fischi al suo indirizzo e i vuoti lasciati in platea. Scontata la solidarietà venuta da Napoli per quanto di antimeridionale poteva esserci in quei gesti. Meno scontata la celebrazione di Geolier come espressione unanime della città . Siamo tutti con te e tu sei tutti noi. Ecco cosa gli ha detto in sostanza il sindaco. Come se non ci fosse differenza tra essere vicini e identificarsi. La pacificazione, infine, è in atto da tempo. Chi mette più in discussione la tradizione culturale napoletana? L’ex avanguardia riscopre Eduardo, lo cita come se lo avesse sempre portato a modello, e lo riporta con successo in teatro e in tv. E i rapper «contestatori» duettano felicemente con gli ex neomelodici «conservatori» un tempo contestati. Morti e sepolti gli anni in cui una parte della città si indignava per l’elogio funebre di Rosa Russo Iervolino in onore di Mario Merola. O quelli, molto più recenti, in cui cyop&kaf, noti graffitisti, ma in realtà sofisticati semiologi dell’antagonismo, si interrogavano in termini problematici sulle differenze tra il «napulegno» e il «napolese».

Ovvero, tra la lingua «tosta» di Viviani o quella incorrotta di Enzo Moscato o, ancora, quella «a metà » di Pino Daniele, da un parte, e la lingua tutta diversa dei nativi digitali, dall’altra; a loro avviso funzionale ai ritmi della Silicon Valley e non a caso diventata strumento principale del «contagio» sociale. Dal basso delle periferie all’alto dei quartieri ricchi, beninteso. Con i borghesi «alfabetizzati che in un imbarazzante processo di mimesi scrivono balbettando». Dove sono i di cyop&kaf di oggi? Perché è così difficile incrociare un analogo sguardo critico? Invece, anche dubitare di un solo verso scritto della canzone sanremese di Geolier o addirittura di una sola parola, oggi può farti finire in «fuorigioco», tra i nemici del popolo. Esempio: «Si ng stiv t’era nvta». Se non ci fossi dovrei inventarti, secondo la traduzione accreditata. Come si arriva, a parte tutto il resto, da «nvta» a inventare? Ma togliamo il pelo e torniamo all’uovo.
Oggi perfino nei cieli alti della filosofia qualcosa si muove in direzione di una inedita e suggestiva armonia napoletana. Ora si tengono insieme anche Giordano Bruno e Giambattista Vico, solitamente citati in successione per le comuni origini meridionali, anche se distanti più di un secolo e mezzo, e mai davvero messi in connessione. Un orizzonte sempre ignorato dice il filosofo Biagio de Giovanni, che invece prova a colmare questa lacuna. E non solo sottolineando i molti tratti comuni a Bruno e a Vico, dal linguaggio immaginifico alla consapevolezza di aprire un tempo nuovo o all’idea di un mondo non più «centrato», non più al centro, cioè, dell’universo, oltre le stesse convinzioni di Copernico, e non più «governabile» avendo come unico riferimento la ragione di Cartesio. De Giovanni parla esplicitamente, sin dal titolo del suo saggio («Giordano Bruno Giambattista Vico e la filosofia meridionale», Edizioni Scientifiche Lettere) di un filo rosso che attraversa il pensiero napoletano. Tutto questo nonostante Vico non si sia mai confrontato con Bruno e Croce abbia fatto grosso modo lo stesso «scoprendo» il primo come padre dello storicismo e lasciando l’altro lì dove era. Per cui, ecco che la domanda iniziale torna e anzi si rafforza. Contagiata, pacificata e ora confortata dall’avere radici in una scuola di pensiero tanto risalente, Napoli può dirsi finalmente «risolta», almeno dal punto di vista identitario? Davvero è alta cosa rispetto alla città «dalle troppe identità » - e dunque senza una vera identità - di cui parlava Paolo Macry solo qualche libro fa? È venuto il momento di rispondere. No. Purtroppo sarebbe un azzardo crederlo. Napoli non può dirsi ancora risolta almeno per un paio di motivi. Primo, perché la città non è affatto sotto assedio (Geolier è arrivato secondo, non ultimo ed è stato votato al Nord quanto al Sud) e immaginare il nemico alle porte è il modo peggiore per ricompattare un corpo sociale. Prova ne è la mancata riflessione sui valori assai discutibili veicolati da almeno una parte della musica e della cultura hip-hop. Secondo, perché se è vero che si può parlare di una filosofia napoletana retta dal pensiero di Bruno e Vico, allora non si può prescindere da ciò che più la caratterizza. Più ancora dei tratti già citati. Il riferimento è alla convergenza sui contrari che fanno «esistere» il mondo, a cominciare dal rapporto tra finito e infinito, tra ragione e sentimento., tra luci e ombre della vita. Riflettere sui contrari vuol dire in primo luogo riconoscerli, non ignorarli, e quindi tendere a una sintesi. E se questo è il metodo, proviamo ora a rintracciarlo nella nostra quotidianità . Dov’è, a Napoli, la sintesi socio-urbanistica tra realtà come San Pietro a Patierno e Chiaia-Posillipo? Dov’è la sintesi culturale tra le due città ? Al di là delle apparenze, ciò che emerge è semmai un procedere secondo antiche e consolidate abitudini. Si continua, cioè, ad andare avanti per omologazioni successive. Prima era «cool» simpatizzare con le avanguardie antisistema, ora lo è stare in un sistema contagiato da una cultura in cui c’è di tutto: il potere e il contro-potere, l’arroganza e il vittimismo, lo sfarzo e la miseria. E anche, come ha detto la madre di Giogiò Cutolo, i kalashnikov imbracciati nel video di una canzone intitolata «Narcos». Far finta di nulla e concedersi rimozioni per opportunismo o convenienza è l’esatto opposto di un misurarsi con i contrari per trovare una via d’uscita. Se è ancora possibile abusare dell’idea di una filosofia napoletana, si potrebbe allora dire così. Vico parlava di una cultura astratta che «assidera» la vita, di «barbarie della riflessione», di illusioni riposte in eccessivi processi di razionalizzazione. Attenti a non ricascarci. Sarebbe piuttosto un segno di civiltà dare un senso alla luci e alle ombre di Napoli non considerandola cambiata solo perché a governarla c’è una maggioranza politica e non un’altra. La nostra maggioranza e non quella dei nostri avversari. Nulla è invece scontato, perché «Illusoria - scrive de Giovanni - è l’immagine di un progresso che vince i ritmi spezzati del tempo storico e dell’umanità che lo vive». Il problema, allora, non è se Napoli ha trovato finalmente pace, perché la pace può essere anche «indifferenza reciproca», resa al più forte o mera apparenza. Ma se questi rovesci della vita cittadina possono servire davvero a scuotere i diversi mondi che la abitano.
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15 febbraio 2024

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Napoli al tempo di Geolier, l’illusione dell’armonia ritrovata

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15.02.2024

Il contagio è avvenuto. La pacificazione culturale anche. Possiamo dunque pensare di non avere più due Napoli, ma una sola? Prima di rispondere, conviene riportare i termini della questione. Le due Napoli di cui si parla sono le solite: quella bassa e quella alta, la plebea e la colta; le Napoli divise di Cuoco e di Mimì Rea. Il contagio, invece, è stato ufficializzato a Sanremo dopo le scalate in classifica di Geolier.Â

Il contagio è avvenuto. La pacificazione culturale anche. Possiamo dunque pensare di non avere più due Napoli, ma una sola? Prima di rispondere, conviene riportare i termini della questione. Le due Napoli di cui si parla sono le solite: quella bassa e quella alta, la plebea e la colta; le Napoli divise di Cuoco e di Mimì Rea. Il contagio, invece, è stato ufficializzato a Sanremo dopo le scalate in classifica di Geolier e, soprattutto, dopo i fischi al suo indirizzo e i vuoti lasciati in platea. Scontata la solidarietà venuta da Napoli per quanto di antimeridionale poteva esserci in quei gesti. Meno scontata la celebrazione di Geolier come espressione unanime della città . Siamo tutti con te e tu sei tutti noi. Ecco cosa gli ha detto in sostanza il sindaco. Come se non ci fosse differenza tra essere vicini e identificarsi. La pacificazione, infine, è in atto da tempo. Chi mette più in discussione la tradizione culturale napoletana? L’ex avanguardia riscopre Eduardo, lo cita come se lo avesse sempre portato a modello, e lo riporta con successo in teatro e in tv. E i rapper «contestatori» duettano felicemente con gli ex neomelodici «conservatori» un tempo contestati. Morti e sepolti gli anni in cui una parte della città si indignava per l’elogio funebre di Rosa Russo Iervolino in onore di Mario Merola. O quelli, molto più recenti, in cui cyop&kaf, noti graffitisti, ma in realtà sofisticati semiologi dell’antagonismo, si interrogavano in termini problematici sulle differenze tra il «napulegno» e il «napolese».

Ovvero, tra la lingua........

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