Ora che tutta l’opinione pubblica calcistica si è convinta che la causa prima della crisi del Napoli sta negli errori di conduzione commessi da giugno in poi dal suo proprietario, è corretto chiedersi se non ci sia dell’altro alla base di questa crisi. Qualcosa che va oltre l’uomo e i suoi limiti, un elemento di difficoltà strutturale di fronte al quale il Napoli arranca. Questione di qualità e quantità .Â

Si tratta di farsi una domanda sull’adeguatezza della «macchina» con la quale finora il Napoli è sceso in pista. In altre parole: in un calcio di numeri enormi, di spese folli, che cosa significa crescere per inserirsi stabilmente a più alti livelli? Non pare che la via delle grandi competizioni - Champions o mondiale per club - come fonti di risorse siano al momento praticabili se non per pochissimi, soprattutto quando si fanno ventotto punti in mezzo campionato. Il Napoli non è soltanto una società a proprietà a gestione familiare, anzi un one man show, come dicono gli americani. È anche una società piccola. Virtuosa nella gestione dei conti, ma la sua potenza economica è paragonabile a quella di una goletta leggera nel mare dei giganti. Basta un’annata storta perché le fiancate si sfondino. Quando il suo proprietario dice di aver rinunciato a offerte di un miliardo per la vendita del club fa un torto al buon senso degli eventuali compratori.Â

Il Napoli, eccetto il suo brillante curriculum sportivo (lo è ancora, fino ad oggi, nonostante tutto) e i suoi conti sani non ha molta sostanza da offrire: il valore della rosa è deperibile come la neve. E il modello di business del Napoli impone buoni risultati subito per rimanere nel giro dei soldi, una bella ghigliottina quando le cose vanno male. Bisognerebbe uscirne cambiando modello.Â

Guardiamo ad altre società calcistiche a carattere familiare: l’Atalanta per esempio. Ad un suo eventuale compratore i suoi proprietari potrebbero mostrare non certo solo il conto economico. Ci sarebbe la proprietà del Gewiss Stadium. Ci sarebbe il centro giovanile Bortolotti, struttura dedicata alla crescita tecnica e personale dei giovani calciatori. Ci sarebbe una cultura manageriale, consolidata negli anni, senza prevaricazioni padronali. Tutto questo ha permesso al club di stringere una partnership internazionale che ne mette al sicuro sopravvivenza e rilancio.Â

Potrebbe il Napoli imitare il modello Atalanta? Solo in teoria: sarebbe un capovolgimento non solo del modello gestionale ma anche un totale cambiamento nelle abitudini del pubblico. Si tratterebbe di accettare un andamento agonistico lento, una crescita graduale, organica, senza miti e senza petting politico tra club e tifoseria. Ci si dovrebbe spostare al polo opposto del modello Napoli e della nostra cultura del tifo. Ci vorrebbe tempo e Napoli non ha pazienza, modelli di business a parte.
Ci sono altre strade. Quando una società piccola cresce e ha bisogno di denaro fresco che non venga da sponsor e biglietti, va in borsa. A Napoli l’idea è bruciata da tentativi del passato andati male. Oggi nulla lo impedirebbe, se non la necessità di un buon momento agonistico. Maggio o giugno dell’anno scorso sarebbero stati il momento migliore. Ma andare in borsa significa sottoporsi a leggi e regole molto diverse da quelle che regolano una società non quotata. Nelle società quotate vigono forme di controllo a garanzia degli investitori - anche se la famiglia potrebbe conservare la maggioranza del capitale. Ma nessun titolare di fondi o di capitali investirebbe su una società non strutturata dove a decidere è un uomo solo. Il management e la sua competenza sono una componente del valore di una società . Quindi l’idea crolla davanti alla prassi quotidiana. Eppure sarebbe una delle migliori vie d’uscita dati questi fattori: una situazione nella quale il mercato televisivo non cresce, un pubblico che non garantisce ricavi importanti, uno sport condannato ad inseguire un mercato del lavoro sempre più dissennato, una situazione anagrafica del capo azienda che richiede che ci si difenda da variabili familiari successorie: tutto questo dato, o hai i soldi o muori. E i soldi ce li ha il mercato.

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10 gennaio 2024 ( modifica il 10 gennaio 2024 | 09:18)

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Napoli calcio, una società che non c'è. Il crollo dei campioni

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10.01.2024

Ora che tutta l’opinione pubblica calcistica si è convinta che la causa prima della crisi del Napoli sta negli errori di conduzione commessi da giugno in poi dal suo proprietario, è corretto chiedersi se non ci sia dell’altro alla base di questa crisi. Qualcosa che va oltre l’uomo e i suoi limiti, un elemento di difficoltà strutturale di fronte al quale il Napoli arranca. Questione di qualità e quantità .Â

Si tratta di farsi una domanda sull’adeguatezza della «macchina» con la quale finora il Napoli è sceso in pista. In altre parole: in un calcio di numeri enormi, di spese folli, che cosa significa crescere per inserirsi stabilmente a più alti livelli? Non pare che la via delle grandi competizioni - Champions o mondiale per club - come fonti di risorse siano al momento praticabili se non per pochissimi, soprattutto quando si fanno ventotto punti in mezzo campionato. Il Napoli non è soltanto una società a proprietà a gestione familiare, anzi un one man show, come dicono gli americani. È anche una società piccola. Virtuosa nella gestione dei conti, ma la sua potenza economica è paragonabile a quella di una goletta........

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