La produzione industriale e la partenza della legge sul made in Italy. Sul fronte manifatturiero il nuovo anno ricomincia da questi due elementi, non particolarmente confortanti in verità. I dati pubblicati giovedì scorso dall’Istat e riferiti al mese di novembre segnalano una produzione industriale che mese su mese è scesa dell’1,5%, che calcolata sul trimestre evidenzia un calo dello 0,8% e su base tendenziale fa segnare -3,1%. Le variazioni negative coinvolgono quasi tutta la manifattura, dai beni strumentali a quelli intermedi passando per i beni di consumo. Sommati al warning del vicepresidente della Bce, Luis de Guindos, che solo 24 ore prima aveva ammonito sui rischi di recessione, questi dati hanno un po’ raffreddato gli animi e riportato l’attenzione sul rallentamento dell’industria e di conseguenza del Pil. Scopriremo poi che i conti 2023 di una fascia non sottile di grandi e medie imprese (almeno il 15%) sono più che buoni, ma a livello di sistema la fotografia conserva le sue tinte grigie.

Subito dopo ci si può chiedere se il provvedimento fortissimamente voluto dal governo Meloni, la legge sul made in Italy, impatta o meno sulle dinamiche del rallentamento e sui problemi che stanno dietro, e la risposta è negativa. Se non fosse per la sfilata incredibile di piccoli bonus (olio d’oliva, concia, fiere e mercati rionali, nautica da diporto, prima lavorazione legno, vivaismo forestale e via di questo passo) la si potrebbe considerare una legge nata nel mondo della comunicazione politica. Perché ha innanzitutto lo scopo di legare elettoralmente l’espressione made in Italy ai partiti di governo (la giornata dedicata, il liceo ad hoc) ed è invece carente nell’individuazione degli strumenti operativi. Come dimostra la dotazione (solo un miliardo) di quello che pomposamente viene chiamato «fondo sovrano».

È in questo scenario d’inizio anno, tutt’altro che esaltante, che ha preso le mosse la corsa alla successione di Carlo Bonomi alla testa di Confindustria. Gara accompagnata da due riflessioni di fondo. La prima riguarda i rischi di irrilevanza che la rappresentanza degli interessi corre — e non solo sul versante padronale — in un periodo in cui emotività, moralismo e antipolitica (copyright del politologo Giovanni Orsina) condizionano gli umori dell’opinione pubblica. La seconda rimanda alla voglia di investire del mandato presidenziale personalità che non siano dei professionisti dei convegni/talk e che rappresentino anche dimensionalmente le aziende di sicuro successo.

L’elenco dei primi candidati — o di coloro che si sono affacciati alla competizione in questa fase iniziale — è ampio e non è una brutta notizia: vuol dire che almeno sul versante delle motivazioni l’interesse per l’attività imprenditoriale pubblica non è scemato. Ma il dettaglio che ha incuriosito e mosso di più i commenti è la circostanza che tra i possibili neo-presidenti ci fossero due esponenti liguri, Antonio Gozzi e Edoardo Garrone. Il primo opera nel campo della siderurgia, il secondo nelle energie rinnovabili. Sono entrambi ben conosciuti in ambito associativo per aver ricoperto cariche di peso e la loro contrapposizione — per ora solo sulla carta — ha fatto parlare di derby e ha messo in sicuro imbarazzo le strutture confederali del territorio e il presidente regionale Giovanni Mondini. La Liguria in questi anni non è stata certo considerata come il locomotore dello sviluppo e anzi al listino del Nord industriale ha finito per vedere scendere ai minimi la sua quotazione. Ma con l’abbinata Gozzi-Garrone possiamo pensare non solo a un revival di Genova, ma anche a una ripresa di vivacità dello storico triangolo industriale con Torino e Milano? Stanno cambiando di botto quelle geografie dello sviluppo che hanno visto negli anni successivi alla crisi del 2008 l’affermazione travolgente del nuovo triangolo Varese-Bologna-Treviso?

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Rispondere non è affatto semplice. Ci si può limitare a qualche flash indicativo. Milano sembra proiettata in una dimensione globale nella quale contano soprattutto l’immobiliare e il turismo e sicuramente non emergono nuovi capitani d’industria. Torino è sempre alle prese con la sua trentennale e irrisolta transizione e il caso vuole che ritorni a interrogarsi ancora sul futuro di Mirafiori dopo che è stato messo in vendita uno stabilimento, Grugliasco, considerato d’avanguardia fino a poco tempo fa. È vero che proprio in ambito confindustriale è nato il progetto MiToGeno «per pensare in grande il rilancio dell’area» e che Prometeia ha licenziato un interessante studio sul futuro della città della Mole, ma è sicuramente presto e abbiamo indizi troppo labili per dire che un’eventuale presidenza confindustriale voglia (e possa) mettere in agenda il rilancio del Nord-Ovest. Quanto ai padani dell’Est poi non si può dire che siano rimasti distratti davanti alla sfida del dopo-Bonomi: i veneti, rivelatisi storicamente anarchici e rissosi nelle ultime tornate elettorali, hanno comunque un candidato di ottimo lignaggio come Enrico Carraro (trattori) e gli emiliani sembrano compatti nel sostenere le chance di Emanuele Orsini (legno), uno degli attuali vice-presidenti.

A questo punto però la riflessione da fare riguarda proprio il peso del fattore-territorio. Per carità, sul piano della raccolta dei consensi interni al sistema confindustriale conta moltissimo. Le indiscrezioni segnalano come attorno a Gozzi si vadano calamitando i favori delle associazioni di Bergamo, Brescia, Reggio Emilia e nel nord della Toscana. E come su Garrone convergano gli auspici del gotha di Assolombarda e di una buona parte del Piemonte, in omaggio forse anche a quel revival del Nord Ovest di cui abbiamo parlato. Ma tutti, a cominciare dagli stessi Gozzi e Garrone, sanno che la legittimazione del prossimo presidente di Confindustria e il superamento del rischio-irrilevanza dipenderanno da altre sfide. Quelli che ci si prospettano sono ancora anni di grandi discontinuità in cui il modello competitivo della manifattura sarà una volta di più messo duramente alla prova e allora bisognerà far leva sulle risorse interne al sistema associativo, ma non solo su quelle. Basta pensare al ridisegno delle catene del valore, o agli scenari indotti dall’intelligenza artificiale, per averne sufficiente contezza. Il dopo-Bonomi in fondo è proprio questo, non solo il cambio del leader.

Ps. Mentre si scaldano i motori per la presidenza nazionale si è aperta una crepa nella rappresentanza del tessile-abbigliamento con l’annunciata fuoriuscita da Confindustria Moda della Smi (Sistema moda Italia), l’associazione più importante del raggruppamento presieduta da Sergio Tamborini. C’è chi la reputa una frattura non definitiva, ma comunque guai a derubricarla come un episodio minore. È la dimostrazione di come rappresentare stanca, specie se le idee mancano.

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15 gen 2024

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16.01.2024

La produzione industriale e la partenza della legge sul made in Italy. Sul fronte manifatturiero il nuovo anno ricomincia da questi due elementi, non particolarmente confortanti in verità. I dati pubblicati giovedì scorso dall’Istat e riferiti al mese di novembre segnalano una produzione industriale che mese su mese è scesa dell’1,5%, che calcolata sul trimestre evidenzia un calo dello 0,8% e su base tendenziale fa segnare -3,1%. Le variazioni negative coinvolgono quasi tutta la manifattura, dai beni strumentali a quelli intermedi passando per i beni di consumo. Sommati al warning del vicepresidente della Bce, Luis de Guindos, che solo 24 ore prima aveva ammonito sui rischi di recessione, questi dati hanno un po’ raffreddato gli animi e riportato l’attenzione sul rallentamento dell’industria e di conseguenza del Pil. Scopriremo poi che i conti 2023 di una fascia non sottile di grandi e medie imprese (almeno il 15%) sono più che buoni, ma a livello di sistema la fotografia conserva le sue tinte grigie.

Subito dopo ci si può chiedere se il provvedimento fortissimamente voluto dal governo Meloni, la legge sul made in Italy, impatta o meno sulle dinamiche del rallentamento e sui problemi che stanno dietro, e la risposta è negativa. Se non fosse per la sfilata incredibile di piccoli bonus (olio d’oliva, concia, fiere e mercati rionali, nautica da diporto, prima lavorazione legno, vivaismo forestale e via di questo passo) la si potrebbe considerare una legge nata nel mondo della comunicazione politica. Perché ha innanzitutto lo scopo di legare elettoralmente l’espressione made in Italy ai partiti di governo (la giornata dedicata, il liceo ad hoc) ed è invece carente nell’individuazione degli strumenti operativi. Come dimostra la dotazione (solo un miliardo) di quello che pomposamente viene chiamato «fondo sovrano».

È in questo scenario d’inizio anno, tutt’altro che esaltante, che ha preso le mosse la corsa alla successione di Carlo Bonomi alla testa di Confindustria. Gara accompagnata da due riflessioni di fondo. La prima riguarda i rischi di irrilevanza che la rappresentanza degli interessi corre — e non solo sul versante padronale — in un periodo in cui emotività, moralismo e antipolitica (copyright del politologo Giovanni Orsina) condizionano gli umori dell’opinione pubblica. La seconda rimanda alla voglia di investire del mandato presidenziale personalità che non siano dei professionisti dei convegni/talk e che rappresentino anche dimensionalmente le aziende di sicuro successo.

L’elenco dei primi candidati — o di coloro che si........

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