Riesumando una vecchia battuta viene da dire che c’è solo da «salvare» il vecchio soldato dello sciopero generale. L’astensione generalizzata dei lavoratori nei sistemi democratici ricopre una delicata funzione: quella di garantire alla società civile organizzata spazi di iniziativa e libertà, quella di consentire l’espressione di un dissenso sociale che nella misura in cui viene incluso nella dialettica tra politica e società contribuisce di per sé a rafforzare la democrazia. Per tutti questi motivi lo sciopero generale è un’arma delicata e da usare cum grano salis, non certo un rito da perpetuare a scadenze più o meno ricorrenti. E tutto sommato la storia del sindacalismo italiano ha rispettato, almeno fino a qualche anno fa, queste prerogative.

Nell’anno di grazia 2023 con la vicenda della protesta convocata da Cgil e Uil e con la susseguente reazione del ministro Matteo Salvini ci siamo allontanati da quel solco.

Ma procediamo per gradi. Lo sciopero indetto da Maurizio Landini e Pier Paolo Bombardieri (nella foto) aveva già ab initio una sua peculiarità, e non certo positiva. Come era già accaduto con il governo Draghi si presentava come un’azione convocata da due confederazioni su tre lasciando la Cisl al di fuori. Il secondo elemento peculiare lo si può rintracciare nelle modalità di convocazione: una scacchiera di agitazioni intrecciata sia a livello settoriale sia territoriale per occupare un maggior possibile di mobilitazione e per ridurre i rischi — dal punto di vista dell’adesione dei lavoratori — di puntare su una sola scadenza. In questo modo l’iniziativa avvolgente di Cgil e Uil finisce per occupare (anche mediaticamente) parecchie caselle del calendario di novembre e abbracciare comunque ben tre venerdì. La terza singolarità riguarda proprio l’utilizzo dell’ultimo giorno della settimana lavorativa per organizzare la mobilitazione.

Alla giacobina

E qui è necessario aprire una larga parentesi. Il sindacalismo del venerdì purtroppo è diventata una malattia endemica delle relazioni industriali italiane. Sono almeno 15 anni che gruppi minoritari presenti soprattutto nel settore dei trasporti hanno battezzato il venerdì per indire astensioni dal lavoro che riguardano quasi sempre le grandi città, i centri nevralgici della mobilità. Un modo di esercitare il sindacalismo decisamente minoritario in cui l’importante non è avere il massimo del consenso e dell’astensione dei lavoratori attorno a una piattaforma rivendicativa bensì bloccare il traffico, dare una dimostrazione di forza alle controparti, saltare a piè pari qualche riflessione sull’utenza e i suoi problemi. Questo sindacalismo del venerdì potremmo definirlo come una modalità giacobina di interpretare la rappresentanza e, come detto, purtroppo ormai conta su una sua tradizione pluriennale che non è stata estirpata né dall’azione delle controparti né dagli interventi delle autorità di garanzia e nemmeno da una consapevole mobilitazione dell’opinione pubblica.

Che in qualche maniera il sindacalismo del venerdì possa attecchire anche in casa confederale è un elemento preoccupante perché mostra come la riuscita della prova di forza sia considerata da Cgil e Uil più importante un limpido rapporto con la propria base.

Un ultimo «difetto» della proclamazione dello sciopero Landini-Bombardieri lo si può rintracciare nella piattaforma di convocazione. Estremamente ampia e tutto sommato orientata prevalentemente ad allargare i cordoni della borsa: più spesa per tutti. L’obiezione della Cisl, che ha ricordato coraggiosamente come la manovra di bilancio di fine anno del governo Meloni — decisamente bruttina sul terreno della crescita — ha però come obiettivo principale quello di sostenere i redditi medio-bassi grazie al taglio del cuneo fiscale, avrebbe meritato altra considerazione perché inevitabilmente segna una contraddizione. In fondo i lavoratori sono chiamati a scioperare contro una misura che va in una direzione per loro auspicabile e che dovrebbe stare a cuore a tutta la rappresentanza sindacale e non solo alla confederazione diretta da Luigi Sbarra.

Questa era dunque la vera discussione da imbastire sullo sciopero generale, i suoi difetti di fabbricazione e l’evoluzione delle relazioni industriali italiane.

Purtroppo su questo mix di contraddizioni è andata in onda una politicizzazione da parte del ministro Salvini che poco aveva a che fare con i limiti intrinseci dell’azione sindacale. Aveva ed ha altro tipo di obiettivi.

La ribalta del ministro

Il ministro e leader della Lega è alla continua ricerca di protagonismo, sfrutta ogni occasione per smarcarsi o anticipare le mosse della premier Giorgia Meloni in una chiave di competizione politico-elettorale che tocca a volte l’esasperazione. In questo caso Salvini ha pensato di avocare a sé la rappresentanza degli interessi dell’utenza soprattutto dei trasporti messa in tribolazione dalle modalità e dalla ripetitività degli scioperi. Lo ha fatto lucidamente trovandosi per altro in contraddizione con il suo collega di partito e di governo Giancarlo Giorgetti che ha in qualche modo difeso l’istituto dello sciopero generale concentrando la critica a Landini-Bombardieri soprattutto sul merito della convocazione ovvero sulla loro piattaforma-insalata.

Ma tant’è, Salvini non è uomo di dettagli ed è partito per la caccia grossa mettendo assieme la contestazione di modalità tecniche dello sciopero a una iniziativa più radicale e dirompente sul diritto stesso di astenersi dal lavoro.

Ora è vero che nell’opinione pubblica c’è stanchezza e irritazione per il sindacalismo del venerdì e più volte è stato messo in luce come si tratta di una forma di blocco che finisce per colpire soprattutto i ceti meno abbienti (quelli che non possono permettersi di chiamare un taxi) obbligati spesso a rinunciare a una giornata di lavoro. Ma nonostante i continui scioperi di fine settimana convocati da Cobas e Cub non si è nel tempo saldato un vero fronte politico-culturale di reazione. Prova ne sia che l’autorità di garanzia ha validato gli ultimi quattro scioperi indetti dagli autonomi e che ormai i media presentano questi venerdì come una sorta di calamità naturale o comunque un male inevitabile. Non è detto, dunque, che Salvini alla fine lucrerà molto dalla posizione che ha assunto, come in verità i sondaggi dicono per le sue ultime uscite. È diventata una costante delle sue esternazioni da free rider.

È vero però che la politicizzazione impressa dal leader leghista ha in qualche modo messo in secondo piano quelli che abbiamo chiamato difetti di fabbricazione dello sciopero e ha, per così dire, assolto Landini e Bombardieri e messo in difficoltà il pragmatismo della Cisl. Dietro questa vicenda c’è il vecchio rebus che affascina i giornali sul vero posizionamento ricercato da Landini e la sua presunta volontà di uscire dal perimetro sindacale strictu sensu ed esercitare un’azione politica diretta. L’impressione è che il leader della Cgil voglia ricavarsi una posizione da pater familias dell’opposizione, non voglia portare la sua organizzazione dentro la competizione politico-elettorale, ma piuttosto ammantarsi di un vantaggio morale nei confronti di una politica — come ricorda assai spesso — minata dal tarlo dell’astensionismo. Da qui la sua collaborazione-competizione con i leader dell’opposizione, Elly Schlein e Giuseppe Conte.

Ma l’Italia del 2023, il Paese che rischia di avvilupparsi nella bassa crescita, aveva bisogno di questa recita e di aggiungere contraddizioni a contraddizioni? Probabilmente no e questa risposta può venire anche da un’opinione pubblica pro-labour, interessata più che al sindacalismo del venerdì a una cristallina azione di rappresentanza incentrata sul consenso e la trasparenza. In fondo in tutta questa querelle dei trasporti bloccati a ripetizione e della legittimità dello sciopero generale chi è stato zittito sono stati i lavoratori chiamati a una prova di forza politica e gli utenti chiamati ancora una volta a fare i conti con un sovrappiù di disagio.

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21 nov 2023

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Le anomalie di uno sciopero: il sindacalismo del venerdì e il protagonismo di Salvini

8 13
22.11.2023

Riesumando una vecchia battuta viene da dire che c’è solo da «salvare» il vecchio soldato dello sciopero generale. L’astensione generalizzata dei lavoratori nei sistemi democratici ricopre una delicata funzione: quella di garantire alla società civile organizzata spazi di iniziativa e libertà, quella di consentire l’espressione di un dissenso sociale che nella misura in cui viene incluso nella dialettica tra politica e società contribuisce di per sé a rafforzare la democrazia. Per tutti questi motivi lo sciopero generale è un’arma delicata e da usare cum grano salis, non certo un rito da perpetuare a scadenze più o meno ricorrenti. E tutto sommato la storia del sindacalismo italiano ha rispettato, almeno fino a qualche anno fa, queste prerogative.

Nell’anno di grazia 2023 con la vicenda della protesta convocata da Cgil e Uil e con la susseguente reazione del ministro Matteo Salvini ci siamo allontanati da quel solco.

Ma procediamo per gradi. Lo sciopero indetto da Maurizio Landini e Pier Paolo Bombardieri (nella foto) aveva già ab initio una sua peculiarità, e non certo positiva. Come era già accaduto con il governo Draghi si presentava come un’azione convocata da due confederazioni su tre lasciando la Cisl al di fuori. Il secondo elemento peculiare lo si può rintracciare nelle modalità di convocazione: una scacchiera di agitazioni intrecciata sia a livello settoriale sia territoriale per occupare un maggior possibile di mobilitazione e per ridurre i rischi — dal punto di vista dell’adesione dei lavoratori — di puntare su una sola scadenza. In questo modo l’iniziativa avvolgente di Cgil e Uil finisce per occupare (anche mediaticamente) parecchie caselle del calendario di novembre e abbracciare comunque ben tre venerdì. La terza singolarità riguarda proprio l’utilizzo dell’ultimo giorno della settimana lavorativa per organizzare la mobilitazione.

Alla giacobina

E qui è necessario aprire una larga parentesi. Il sindacalismo del venerdì purtroppo è diventata una malattia endemica delle relazioni industriali italiane. Sono almeno 15 anni che gruppi minoritari presenti soprattutto nel settore dei trasporti hanno battezzato il venerdì per indire astensioni dal lavoro che riguardano quasi sempre le grandi città, i centri nevralgici della mobilità. Un modo di esercitare il sindacalismo decisamente minoritario in cui l’importante non è avere il........

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