Quantitativamente non c’è dubbio: le imprese straniere fondate da marocchini, cinesi, albanesi, rumeni e via di seguito si sono radicate nel mercato italiano. E crescono di numero ad ogni rilevazione. Dal punto di vista soggettivo non è chiaro però il percorso di marcia di questi neo-imprenditori: sta nascendo un nuovo ceto? Si sta rafforzando una loro cultura d’impresa? Che rapporto c’è tra la loro identità sociale e l’appartenenza alla propria comunità nazionale? Che tipo di rivendicazioni producono e da chi vengono intermediate? Ma procediamo con ordine. Prima i dati: secondo un report appena prodotto da Unioncamere/Infocamere, il numero delle imprese straniere iscritte al registro delle Camere di commercio è di 657.565 unità di cui il 90% è attivo. Rispetto a giugno 2022 l’aumento è stato dell’1% consolidando così il trend dell’ultimo quinquennio (+10% rispetto al 2018 e nonostante il Covid) che risulta opposto a quello delle imprese italiane in calo, nello stesso periodo, del 3 per cento.

Circoscrivendo la ricognizione all’anno in corso vediamo come tra gennaio e giugno le nuove iscrizioni siano state 35.500 (+257 sul 2022) mentre le cessazioni si sono fermate a quota 20.923 (+1.024 sul 2022) generando un saldo positivo di oltre 14.500 unità. Quest’incremento è totalmente dovuto a nuove società di capitali che nell’ultimo anno sono cresciute del 12% superando quota 90 mila unità, a fronte di una leggera flessione delle società individuali che rappresentano però quasi l’80% dello stock totale.

Lombardia & commercio

A trainare l’imprenditoria straniera nel primo semestre 2023 (+3%) sono state costruzioni e servizi, che insieme rappresentano il 44% del totale, e l’agricoltura (+5%). Il commercio che è il settore-principe con 261 mila imprese ha registrato una leggera frenata (-0,7%) così come l’industria manifatturiera (-0,3%) che complessivamente conta su 47 mila imprese.

Volendo costruire una mappa geografica della presenza straniera è la Lombardia con tutto il Nord Ovest a spiccare: vi si concentra il 41% delle imprese straniere, ma ci sono anche i flussi più consistenti di nuove attività (2,2% su base annua contro l’1% del Nord Est e lo 0,7% del Mezzogiorno). La provincia con la maggiore concentrazione di imprese straniere è Prato, grazie alla massiccia presenza dell’abbigliamento cinese, dove c’è un’incidenza del 33% seguita da Trieste con il 20% e Firenze con il 18%. All’estremo opposto con la minore incidenza c’è la provincia di Barletta-Andria-Trani con il 2,5 per cento.

Ma dove provengono i nuovi imprenditori? Restringendo l’analisi alle imprese individuali, Marocco, Romania e Cina sono i Paesi da cui provengono la maggior parte dei titolari d’azienda (il 34% del totale) seguita da Albania, Bangladesh e Pakistan (19%) e quindi da Egitto, Nigeria e Senegal (11%). I titolari marocchini hanno una forte focalizzazione territoriale nelle province dello Stretto (Catanzaro, Reggio Calabria e Messina), i rumeni non hanno una particolare concentrazione territoriale mentre, come già detto, i cinesi hanno la Toscana come terra d’elezione seguita dalle Marche (distretto di Fermo). Esaminando, infine, i settori di attività economica, i marocchini sono maggiormente presenti nel commercio, i rumeni nelle costruzioni. Entrambi sono presenti anche nelle attività di trasporto, magazzinaggio e noleggio. I cinesi operano prevalentemente nel manifatturiero e nelle attività di servizi ricreativi e di intrattenimento.

Spiega Antonio Ricci, vicepresidente del centro studi Idos: «L’imprenditoria straniera è un fenomeno endogeno, un migrante economico non arriva qui già con l’idea di creare un’attività. Avviene dopo alcuni anni di permanenza, quando si intravede una prospettiva che può essere anche determinata dalla mancanza di altri sbocchi». Si accumulano competenze, si capiscono i bisogni del mercato e nasce l’obiettivo di realizzare un progetto imprenditoriale.

«È una modalità che in qualche maniera ricorda molto la storia di tante Pmi italiane ed entrano in gioco anche le soggettività personali, non ultima l’ambizione». Il commercio, poi, è spesso un retaggio del Paese di partenza e l’edilizia è lo sbocco di una prima attività da muratore, magari condita da un titolo di architetto maturato in patria. Ma accanto a questi settori-chiave stanno crescendo la ristorazione e l’accoglienza dei turisti.

I legami

«La prima considerazione da cui partire — osserva però Francesco Maietta, ricercatore del Censis — è che parliamo di imprese fragili per le quali far quadrare il conto economico non può che essere il problema numero uno. La quotidianità prevale e non si è ancora strutturato un segmento di imprese che possano permettersi di programmare il loro sviluppo». Anche perché molto spesso il rapporto con i Paesi di provenienza non è del tutto rescisso: i titolari non hanno fatto in fondo una scelta di vita in Italia. «Durante il Covid molti rumeni sono tornati in patria, ad esempio».

Secondo Daniele Frigeri, direttore del Cespi, «la soggettività di questi imprenditori è legata alla posizione che hanno sul mercato le loro aziendine». Esiste una fascia sottile di imprese che è anche capace di investire, ma il grosso nei distretti industriali ricopre un ruolo di fornitura della prima lavorazione, come nel caso della conceria. Nelle costruzioni, aggiunge Frigeri, operano imprenditori che si sono messi in proprio, lavorano come subappaltatori e quasi sempre in un rapporto di esclusiva con un’impresa madre italiana. «Comunque stiamo parlando di un mondo così variegato che ogni generalizzazione è rischiosa. Una riflessione sull’imprenditoria migrante è necessaria, sarebbe opportuno affiancare ai processi reali una riflessione più lungimirante».

Ma che rapporto si stabilisce tra questi imprenditoria e l’arena economico-sociale italiana? Secondo Maietta resta decisivo il rapporto con la comunità nazionale. «L’identità di piccolo imprenditore rimane secondaria rispetto all’appartenenza. Se i commercianti del Bangladesh hanno un problema con l’amministrazione comunale si muove la comunità, lo stesso vale ovviamente per i cinesi. Di conseguenza è difficile che possano sentirsi un ceto perché non si mobilitano come tali e questo nonostante che i problemi o le occasioni non manchino. Penso al diritto di voto o alla scuola dei loro figli».

Più ottimista è invece Ricci: «L’avveramento di una cittadinanza economica li fa entrare in un’altra dimensione. Pagare le tasse li fa sentire più parte in causa e non a caso cresce l’iscrizione alle associazioni italiane di categoria». Commenta Frigeri: «Sì, ma le associazioni fanno poco per includere, e tutto resta episodico».

Iscriviti alle newsletter di L'Economia

Whatever it Takes di Federico Fubini
Le sfide per l’economia e i mercati in un mondo instabile

Europe Matters di Francesca Basso e Viviana Mazza
L’Europa, gli Stati Uniti e l’Italia che contano, con le innovazioni e le decisioni importanti, ma anche le piccole storie di rilievo

One More Thing di Massimo Sideri
Dal mondo della scienza e dell’innovazione tecnologica le notizie che ci cambiano la vita (più di quanto crediamo)

E non dimenticare le newsletter
L'Economia Opinioni e L'Economia Ore 18

31 ott 2023

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Leggi i contributi SCRIVI

di Federico Fubini

di Mario Sensini

di Andrea Rinaldi

di Redazione Economia

di Emily Capozucca

Le guide per approfondire i temi più discussi

di Leonard Berberi

di Valeriano Musiu

di Marco Gasperetti

di Gabriele Petrucciani

di Valentina Iorio

di Redazione Economia

di Antonio Macaluso

di Paolo Manazza e Luca Zuccala

di Chiara Severgnini

di Andrea Bonafede

di Andrea Bonafede

di Alessandra Puato

di Redazione Economia

di Leonard Berberi

di Emily Capozucca

QOSHE - Più imprenditori migranti: sono come le pmi ma non mettono radici - Dario Di Vico
menu_open
Columnists Actual . Favourites . Archive
We use cookies to provide some features and experiences in QOSHE

More information  .  Close
Aa Aa Aa
- A +

Più imprenditori migranti: sono come le pmi ma non mettono radici

6 1
01.11.2023

Quantitativamente non c’è dubbio: le imprese straniere fondate da marocchini, cinesi, albanesi, rumeni e via di seguito si sono radicate nel mercato italiano. E crescono di numero ad ogni rilevazione. Dal punto di vista soggettivo non è chiaro però il percorso di marcia di questi neo-imprenditori: sta nascendo un nuovo ceto? Si sta rafforzando una loro cultura d’impresa? Che rapporto c’è tra la loro identità sociale e l’appartenenza alla propria comunità nazionale? Che tipo di rivendicazioni producono e da chi vengono intermediate? Ma procediamo con ordine. Prima i dati: secondo un report appena prodotto da Unioncamere/Infocamere, il numero delle imprese straniere iscritte al registro delle Camere di commercio è di 657.565 unità di cui il 90% è attivo. Rispetto a giugno 2022 l’aumento è stato dell’1% consolidando così il trend dell’ultimo quinquennio ( 10% rispetto al 2018 e nonostante il Covid) che risulta opposto a quello delle imprese italiane in calo, nello stesso periodo, del 3 per cento.

Circoscrivendo la ricognizione all’anno in corso vediamo come tra gennaio e giugno le nuove iscrizioni siano state 35.500 ( 257 sul 2022) mentre le cessazioni si sono fermate a quota 20.923 ( 1.024 sul 2022) generando un saldo positivo di oltre 14.500 unità. Quest’incremento è totalmente dovuto a nuove società di capitali che nell’ultimo anno sono cresciute del 12% superando quota 90 mila unità, a fronte di una leggera flessione delle società individuali che rappresentano però quasi l’80% dello stock totale.

Lombardia & commercio

A trainare l’imprenditoria straniera nel primo semestre 2023 ( 3%) sono state costruzioni e servizi, che insieme rappresentano il 44% del totale, e l’agricoltura ( 5%). Il commercio che è il settore-principe con 261 mila imprese ha registrato una leggera frenata (-0,7%) così come l’industria manifatturiera (-0,3%) che complessivamente conta su 47 mila imprese.

Volendo costruire una mappa geografica della presenza straniera è la Lombardia con tutto il........

© Corriere della Sera


Get it on Google Play