«Domandiamoci: l’Italia è un paese capitalistico? Vi siete mai posti questa domanda? Se per capitalismo si intende quell’insieme di usi, costumi, progressi tecnologici ormai comuni a tutti i Paesi, si può dire che anche l’Italia è capitalista. Ma se noi andiamo più addentro l’Italia non è un Paese capitalista nel senso ormai corrente di questa parola. Vedete subito come l’economia italiana sia varia, complessa, e non possa essere definita attraverso un solo tipo, anche perché gli industriali hanno quasi tutti aziende di piccola e media grandezza. La piccola azienda va da un minimo di 50 operai ad un massimo di 500. Dai 500 ai 5.000 o 6.000 vi è la media industria; al di sopra si va alla grande industria, e qualche volta sfocia nel supercapitalismo. L’Italia a mio avviso deve rimanere un paese ad economia mista…». Il passaggio che avete letto qui sopra è tratto da un discorso pronunciato da Benito Mussolini il 14 novembre 1933 al Consiglio delle Corporazioni, le rappresentanze ufficiali dei settori produttivi che ormai sono parte integrante dello Stato e dunque ai suoi ordini.

di Mario Sensini

Siamo nel palazzo di via Veneto, disegnato da Marcello Piacentini e Giuseppe Vaccaro, che tuttora ospita lo stesso ministero oggi chiamato «delle Imprese e del Made in Italy». In quel momento gli Stati Uniti e il mondo intero sono nel punto più duro della grande depressione, prima che il New Deal rooseveltiano inizi a dare i suoi frutti. Vorrei spiegare perché a me sembra che questo passaggio sia rilevante nell’Italia di oggi. Non c’entrano i grotteschi saluti romani di Acca Larenzia, né quella fiamma che ancora resiste nel simbolo nel partito di maggioranza relativa. C’entra, per motivi di tipo del tutto diverso, il «concordato biennale preventivo» previsto nella legge delega fiscale del governo e approvato in settimana, con alcune raccomandazioni, dalla commissione Finanze della Camera. Ma per arrivare al punto, ho bisogno di fare un passo indietro nella storia economica del Paese.

La dimensione delle aziende si è ristretta

Ciò che collega quel discorso di Mussolini di novant’anni fa e questo tassello della riforma fiscale è, paradossalmente, qualcosa che separa quell’Italia da questa. Parlo, in questo caso, il sistema produttivo. Mussolini dà il suo discorso alla vigilia della nazionalizzazione a tappeto attraverso l’Istituto per la ricostruzione industriale (Iri) delle principali banche e imprese. E traccia un quadro della dimensione media delle aziende in Italia molto diverso dall’attuale: «da 50 operai a un massimo di 500» è quella che lui definisce la «piccola azienda» (nell’Italia di oggi, sarebbe media o medio-grande); aggiunge che «dai 500 ai 5.000 o 6.000 vi è la media industria» (per noi sarebbe grande). In altre parole, dopo sessant’anni di dominio dell’Iri sull’economia italiana e di novanta di cultura dell’intervento pubblico sulle grandi imprese decotte o meno (una cultura che sopravvive e prospera, a destra come a sinistra), la dimensione media delle aziende private italiane sembra essersi drammaticamente ristretta. Siamo scivolati in un nanismo che resta una delle più spiazzanti anomalie nazionali. Nel 1933 un’impresa di 500 addetti poteva dirsi «piccola» senza tema del ridicolo (benché in un regime al quale il senso del ridicolo faceva palesemente difetto). Oggi invece la dimensione media d’impresa in Italia è di circa 4 addetti, di gran lunga la più bassa nel mondo avanzato.

Il grafico sopra – tratto dalla base dati dell’Ocse di Parigi – mostra come le micro-imprese da uno a nove addetti in Italia siano persino più numerose rispetto a Paesi emergenti ben più vasti come il Brasile; e se la giochino, testa a testa, con un’economia crivellata dal sommerso e dall’instabilità come la Turchia (che peraltro sul piano demografico è del 43% più grande dell’Italia). Servirebbe lo studio di una vita, non una newsletter del lunedì, a spiegare perché oltre mezzo secolo di invadenza dello Stato nei principali snodi produttivi – anche a tutela di inefficienze, perdite, corporativismi e reti clientelari – ha contribuito a spingere milioni di privati a rifugiarsi nel nanismo per presidiare le mini-nicchie di subfornitura che non erano occupate dal pubblico. Poiché sulla grande dimensione non si poteva competere con uno Stato che non si curava di operare in perdita – dunque era imbattibile, in quanto non seguiva criteri economici – ci si rifugiava nel piccolo e microscopico dove lo Stato non arrivava.

La produttività bloccata

Così decenni di interventismo pubblico hanno contribuito alla polverizzazione imprenditoriale degli animal spirits che oggi è il tallone d’Achille dell’Italia: una delle grandi cause dell’arretramento dell’Italia rispetto alla frontiera dell’economia globale. Guardate il grafico qui sopra, elaborato da Lorenzo Codogno della London School of Economics e Giampaolo Galli della Cattolica di Milano. Mostra nella linea nera continua che la cosiddetta TPF o «produttività totale dei fattori» – che riflette il progresso tecnologico, la capacità di innovare, la capacità di investire nei settori giusti e l’efficienza delle istituzioni – in Italia è bloccata da mezzo secolo. Dalla fine del boom. In altri termini, una volta importate le tecnologie estere all’avanguardia dell’epoca, una volta copiati i processi produttivi degli altri, esaurito un vantaggio di costo simile a quello di un Paese emergente, l’Italia si è fermata. Non ha più saputo innovare. Ora ne paga le conseguenze e il nanismo d’impresa ne è una delle ragioni di fondo.

Il lavoro povero

Uno degli ultimi rapporti annuali dell’Istat mostra come le imprese fino a 9 dipendenti rappresentino quasi metà degli addetti delle imprese italiane, ma un terzo degli investimenti e un quarto del valore aggiunto totale. Il valore aggiunto per addetto in queste imprese è il più basso: meno della metà di quello delle fra 50 e 250 dipendenti. È qui che nasce il fenomeno endemico del lavoro povero, perché i salari delle micro-imprese sono di gran lunga i più bassi. Tra l’altro uno studio della Banca d’Italia del 2018 mostra come queste imprese (per cui, chissà perché, è stato coniato il detto «piccolo è bello») sono molto meno produttive delle pari grado francesi o tedesche. Invece le imprese italiane medio-piccole, medie e grandi sono più produttive di quelle tedesche: il problema è solo che non ce ne sono abbastanza.

di Isidoro Trovato

I rischi del «concordato biennale preventivo»

Cosa c’entra tutto questo con il «concordato biennale preventivo» della delega fiscale? C’entra, eccome. Perché quel meccanismo rischia di spingere ancora di più le imprese a cronicizzare i mali di nanismo, crescita insufficiente, bassa produttività, incapacità di innovare, di integrare la tecnologia, e in sostanza creare valore e stare sui mercati. Intendiamoci, nella delega fiscale del governo ci sono anche idee utili: per esempio, quella che incoraggia le imprese a riportare o stabilire nuove sedi produttive dall’estero all’Italia. Ma il «concordato biennale preventivo» presenta oggettivamente alcuni punti sui quali occorre riflettere. Esso prevede che circa tre milioni di contribuenti di piccole imprese, dai lavoratori autonomi fino a imprese da 700 mila euro di fatturato e molto probabilmente oltre – possano stipulare con il fisco un patto a partire dall’imponibile dichiarato per il 2023. Su base volontaria, questi imprenditori e autonomi possono impegnarsi a versare una somma in più rispetto a quanto versato per il 2023, in quantità definita come «ragionevole», avendo in cambio la certezza praticamente totale che non dovranno subire contestazioni e accertamenti delle autorità sulla loro fedeltà tributaria.

Le proposte del Parlamento

Tale zona franca dai controlli dovrebbe durare per due anni a venire, poi eventualmente raddoppiabili in quattro. La Camera ha proposto che la possibilità di accedere a questo accordo non sia offerta solo alle imprese con punteggi elevati di fedeltà fiscale, ma a tutte. Cioè non solo a chi si sa che finora si è comportato passabilmente bene con il fisco, ma anche a chi si sospetta essersi comportato male. E – da quanto capisco – il governo intende recepire questa raccomandazione del Parlamento. Lo stesso governo sarebbe invece più freddo di fronte all’altra richiesta del Parlamento, quella di prevedere un aumento massimo del versamento dovuto di appena il 10% rispetto ai valori del 2023; appunto, nel governo si preferirebbe indicare nella legge solo un’imprecisata somma «ragionevole» in più rispetto all’imposta versata per l’anno scorso. Ora, va chiarito di cosa si parla.

Un meccanismo che favorisce l’evasione

In base all’ultimo rapporto dell’attuale governo sull’evasione, i lavoratori autonomi e le medio-piccole imprese occultano al fisco il 69,7% del loro imponibile Irpef (dati relativi al 2020, in netto aumento negli ultimi anni). In sostanza un micro-imprenditore che sia un evasore quasi totale potrebbe accettare di versare il 15% o 20% in più al fisco rispetto alle risibili somme abituali. E da quel momento non dover temere praticamente niente per tutto il resto del suo comportamento illegale nei prossimi due o quattro anni. Alcuni nel governo vivono – in buona fede – una misura del genere come un’ammissione di impotenza dello Stato a far pagare tutte le tasse a tutti: preferiscono la contropartita di un po’ di gettito in più del tipo «pochi, maledetti e subito». Altri, sempre nel governo e nella maggioranza, vi vedono un consapevole favore agli evasori in vista delle elezioni europee. Va detto che questa misura gode dell’appoggio anche di rispettabili esponenti dell’opposizione, come l’onorevole Luigi Marattin di Italia Viva. Di certo il «concordato biennale preventivo» incoraggerà autonomi e imprese medio-piccole a evadere anche in futuro, perché essi vedono che alla fine lo Stato offre loro un accomodamento comunque.

di Massimiliano Jattoni Dall’Asén

Un sistema che alimenta il lavoro povero

Ma a me interessa quel passaggio nel discorso di Mussolini di 90 anni fa, cioè il fatto che le imprese italiane in media non erano patologicamente nane; lo sono diventate nel corso del tempo, anche perché cercavano di evadere e dunque di viaggiare sotto ai radar. Per puro opportunismo fiscale, il «concordato biennale preventivo» permetterà a queste imprese «micro» o anche medio-piccole a mantenere bilanci non veritieri e anzi le incoraggerà a farlo. Esse avranno interesse a dichiarare meno di quanto dovrebbero, perché sanno che potranno concludere accordi con lo Stato sulla base di questi bilanci falsi. Ma un’impresa che vive con un bilancio falso – ancorché santificato da un patto con l’Agenzia delle Entrate – è un’impresa che non può aprire il capitale all’esterno, non può accadere a strumenti di finanza che la facciano crescere, non può investire in tecnologie perché occulta le proprie risorse interne, non può fondersi con una pari e faticherà anche molto ad attrarre manager professionali. In altri termini, un’azienda dal bilancio falso è un’azienda condannata a restare nana. Che come tale il più delle volte contribuisce all’inabissarsi della produttività italiana rispetto agli altri Paesi occidentali, dunque alimenta la bassa crescita del sistema e il lavoro povero.

Una clausola difficile da attuare

Codogno e Galli ricordano che il prodotto interno lordo italiano dal 1995 ha perso il 32% sulla Francia, il 30% sulla media dell’area euro e il 49 sulla Gran Bretagna. Intendiamoci, non tutte le piccole imprese evadono (anzi) e non tutte mancano di competenze e capacità di innovare. Sarebbe ingiusto affermarlo. Alcune sono veri e propri gioielli, ma neanch’esse spiegano perché in questo l’Italia abbia una struttura imprenditoriale simile a quella della Turchia. E so bene che il «concordato biennale preventivo», sulla carta, non tollererebbe evasioni superiori al 30%. Ma questa clausola nella realtà sarà difficile da attuare da parte di uno Stato che, in sostanza, ammette di non sapere o non volere far pagare le tasse a certe categorie di contribuenti. Così questo meccanismo rischia di imprigionarci nel sortilegio dell’eccessivo numero di piccole e insufficiente numero di medio-grandi imprese, lo stesso che paralizza l’Italia da decenni. Proposta al governo: lanciate una legge delega che offra incentivi fiscali alle imprese a praticare bilanci trasparenti, a fondersi e a crescere in modo sano. Milioni di italiani, anche fra autonomi e piccoli imprenditori, la accoglierebbero con entusiasmo.

Questo articolo è stato pubblicato originariamente sulla newsletter «Whatever it takes» di Federico Fubini, clicca qui per iscriverti.

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di Mario Sensini

Siamo nel palazzo di via Veneto, disegnato da Marcello Piacentini e Giuseppe Vaccaro, che tuttora ospita lo stesso ministero oggi chiamato «delle Imprese e del Made in Italy». In quel momento gli Stati Uniti e il mondo intero sono nel punto più duro della grande depressione, prima che il New Deal rooseveltiano inizi a dare i suoi frutti. Vorrei spiegare perché a me sembra che questo passaggio sia rilevante nell’Italia di oggi. Non c’entrano i grotteschi saluti romani di Acca Larenzia, né quella fiamma che ancora resiste nel simbolo nel partito di maggioranza relativa. C’entra, per motivi di tipo del tutto diverso, il «concordato biennale preventivo» previsto nella legge delega fiscale del governo e approvato in settimana, con alcune raccomandazioni, dalla commissione Finanze della Camera. Ma per arrivare al punto, ho bisogno di fare un passo indietro nella storia economica del Paese.

La dimensione delle aziende si è ristretta

Ciò che collega quel discorso di Mussolini di novant’anni fa e questo tassello della riforma fiscale è, paradossalmente, qualcosa che separa quell’Italia da questa. Parlo, in questo caso, il sistema produttivo. Mussolini dà il suo discorso alla vigilia della nazionalizzazione a tappeto attraverso l’Istituto per la ricostruzione industriale (Iri) delle principali banche e imprese. E traccia un quadro della dimensione media delle aziende in Italia molto diverso dall’attuale: «da 50 operai a un massimo di 500» è quella che lui definisce la «piccola azienda» (nell’Italia di oggi, sarebbe media o medio-grande); aggiunge che «dai 500 ai 5.000 o 6.000 vi è la media industria» (per noi sarebbe grande). In altre parole, dopo sessant’anni di dominio dell’Iri sull’economia italiana e di novanta di cultura dell’intervento pubblico sulle grandi imprese decotte o meno (una cultura che sopravvive e prospera, a destra come a sinistra), la dimensione media delle aziende private italiane sembra essersi drammaticamente ristretta. Siamo scivolati in un nanismo che resta una delle più spiazzanti anomalie nazionali. Nel 1933 un’impresa di 500 addetti poteva dirsi «piccola» senza tema del ridicolo (benché in un regime al quale il senso del ridicolo faceva palesemente difetto). Oggi invece la dimensione media d’impresa in Italia è di circa 4 addetti, di gran lunga la più bassa nel mondo avanzato.

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