Non ha attratto molta attenzione in Italia - ma dovrebbe - il fatto che il fondo Redbird Imi stia cercando di comprare Telegraph Media Group, il gruppo editoriale di Londra che controlla testate gloriose e influenti come il Telegraph stesso e lo Spectator. L’aspetto particolare è nella natura dell’offerente: Redbird Imi è una joint-venture fra il fondo americano Redbird (sì, quello che controlla il Milan) e il fondo Imi che possiede il Manchester City ed è guidato dallo sceicco Mansour bin Zayed Al-Nahyan, vicepresidente, primo ministro ed esponente della famiglia regnante di Abu Dhabi. Imi è un fondo sovrano degli Emirati Arabi Uniti e nella joint-venture con Redbird gli spetta l’ultima parola, perché detiene circa tre quarti delle quote. In sostanza un governo straniero – di uno stato di polizia – sta cercando di comprare due bandiere del giornalismo britannico. A che scopo?

Il piano di Redbird Imi

Redbird Imi sostiene che il suo sarebbe un investimento a fini puramente commerciali e non intenderebbe interferire con la linea editoriale del Telegraph o dello Spectator. Ma è interessante vedere come gli emiratini si siano avvicinati a questo affare. In primo luogo, lo fanno con notevole tempismo. La famiglia Barclay che controlla i due giornali aveva appena subìto il pignoramento dell’intero gruppo editoriale ad opera della banca Lloyd, a causa di un’insolvenza da un miliardo di sterline. Lloyd stava avviando un’asta per vendere il Telegraph Media Group a investitori molto più convenzionali, quando il fondo controllato da Abu Dhabi è intervenuto, prestando ai Barclay i fondi per riscattare il pegno. Adesso – debellati in anticipo altri possibili compratori – Redbird Imi chiede ai vecchi proprietari di convertire il prestito in azioni. In altri termini vuole farsi consegnare i giornali, implicitamente minacciando di far fallire i Barclay se questi non si piegassero.

di Francesco Bertolino

Il lobbismo di George Osborne

E’ interessante anche notare da chi si stia facendo aiutare Abu Dhabi: ha ingaggiato una piccola banca d’affari, la Robey Warshaw, che conta fra i partner George Osborne. Ricorderete Osborne: figlio di un baronetto, rampollo delle più esclusive scuole private inglesi e poi di Oxford, cancelliere dello Scacchiere, cioè ministro del Tesoro dei governi conservatori di David Cameron e poi direttore dell’Evening Standard di Londra, per citare solo alcune delle sue incarnazioni. Osborne oggi è un ex ministro del Tesoro del G7 che sta mettendo a disposizione – per soldi – la propria agenda di contatti a favore di un governo straniero, fra i più autoritari al mondo, che vuole annettersi due colonne della libertà di stampa nel Paese in cui questa è nata.

I Paesi arabi al World Economic Forum

Non è ancora detto che finisca così. La ministra della Cultura Lucy Frazer ha avviato una verifica dell’autorità indipendente delle comunicazioni, la Ofcom, quindi le aspirazioni dello sceicco Mansour potrebbero anche essere frustrate. Ma non ho potuto fare a meno di pensare a questa vicenda la settimana scorsa al World Economic Forum, dove i governi del Golfo sono discesi in massa dai loro velivoli sulla montagna incantata di Davos. Non solo gli Emirati Arabi Uniti, ma tutti i principali. L’Arabia Saudita è arrivata, praticamente, con mezzo governo e in un’unica sessione del Forum è riuscita a piazzare fra i conferenzieri i ministri dell’Economia, delle Finanze, degli esteri e l’ambasciatrice negli Stati Uniti (la principessa Reema Bandar Al-Saud, figlia dell’ex ambasciatore negli Stati Uniti Bandar bin Sultan Al-Saud, ovviamente della famiglia regnante). Sempre l’Arabia Saudita ha affittato a qualunque prezzo gran parte di un immobile a due passi dal Forum, senza lasciare nulla al caso. Da mesi i consulenti di una grande società di comunicazione internazionale erano a Riad per preparare i ministri sauditi agli incontri e al contatto con i media occidentali. I giornalisti accreditati al Forum sono stati chiamati uno ad uno con mesi di anticipo e invitati a scegliere chi volevano intervistare fra gli esponenti sauditi, con richiesta di invio delle domande oltre un mese prima dell’evento. Quanto agli Emirati, già dalla Davos di un anno fa avevano colonizzato decine di dibattiti pubblici e imposto i loro giornalisti – il Paese è 145esimo al mondo per libertà di stampa, secondo Reporter senza frontiere – come autorevoli moderatori di moltissimi eventi. Il Qatar poi a Davos ha avuto un trattamento quasi da grande potenza, benché sia in realtà un Paese di 300 mila autoctoni e due milioni e mezzo di stranieri, quasi tutti ammessi solo per svolgere lavori pesanti e tenuti in condizioni sostanzialmente schiavistiche nel timore che si ribellino, sopraffacciano i locali e prendano il controllo del Paese.

di Giuliana Ferraino, inviata a Davos

Le sei monarchie arabe

Il premier e sceicco di Doha Mohammed bin Abdulrahman Al-Thani, esponente della famiglia regnante, è stato intervistato dal presidente del World Economic Forum Børge Brende, quasi fosse un grande saggio (ma nessuna domanda sui finanziamenti garantiti da Doha in questi anni a Hamas, ai talebani, a Al Qaeda nel Mali e in Libia e persino ai ribelli Houthi dello Yemen). Un’altra sessione ha riunito i ministri economici dell’area e quello del Bahrain, Salman bin Khalifa al Khalifa, esponente anche lui della famiglia regnante del posto, ha ricordato che il prodotto interno lordo aggregato dei Paesi dell’accordo Cooperazione del Golfo (Arabia Saudita, Emirati Arabi, Oman, Qatar, Bahrein e Kuwait) ha un peso assoluto nell’economia mondiale. Ormai messe insieme le sei monarchie assolute fatturano oltre 4.000 miliardi di dollari e sembrano avviate a superare collettivamente la quarta e la terza economia più grandi al mondo, Germania e Giappone.

I Paesi arabi e i vantaggi usciti dalla guerra voluta da Putin

In quel momento, durante quella trionfalistica sessione di Davos sul successo economico del Golfo, finalmente ho capito: quei sei Paesi, ma soprattutto sauditi, qatarini ed emiratini, sono i veri grandi vincenti della guerra fra Russia e Ucraina. Quando ne parlano mostrano un’altera indifferenza, ma in realtà non riescono a credere al loro colpo di fortuna. L’aumento dei prezzi del petrolio e del gas innescato dall’aggressione da parte di Vladimir Putin ha generato per le economie del Golfo un colossale dividendo, che queste adesso stanno reinvestendo in influenza politica globale. Rispetto alla media dei prezzi del barile fra il 2006 e il 2021, il rialzo medio nel 2022 è stato del 34,5%, quello del 2023 del 10%; gli aumenti sono stati persino superiori se li si paragonano ai prezzi del solo 2021: un rincaro dovuto praticamente tutto alla guerra, dato che nel frattempo l’economia mondiale e la domanda di greggio sono rimaste deboli. Si può stimare che grazie al rincaro del petrolio nel biennio 2022-2023, solo Arabia Saudita, Emirati Arabi e Qatar abbiano avuto entrate in più per circa 300 miliardi di dollari nell’ultimo biennio (agli attuali livelli di produzione). Se si aggiungono il gas naturale e i prodotti petroliferi, almeno altre decine di miliardi in più. Oltre naturalmente alla rendita esorbitante di cui già godevano da prima. E quando avete un martello in mano tutto magari vi sembra un chiodo; ma quando avete denaro senza limiti in mano, tutto vi sembra in vendita.

di Redazione Economia

Come si compra reputazione e influenza

Le monarchie del Golfo stanno dunque diventando frenetiche, nel cercare di comprare reputazione e influenza con i loro miliardi. Ben oltre Davos. E, in verità, da ben prima della guerra in Ucraina; solo che adesso il loro attivismo sta diventando febbrile e sempre più a vasto raggio. Lo sport è stato solo il primo passo: il Manchester City in mano ad Abu Dhabi, il Paris Saint-Germain in mano al Qatar, il Newcastle in mano all’Arabia Saudita, l’inchiesta per corruzione in corso sull’assegnazione al Qatar dei mondiali del 2022 e – sul piano della perfetta legalità – i contratti irresistibili in Arabia Saudita offerti a icone come Cristiano Ronaldo, Roberto Mancini, ultimamente a Rafa Nadal e decine di altri campioni, anche nell’idea di attrarre i grandi eventi sportivi mondiali dei prossimi anni.

Da Jared Kushner a Matteo Renzi

Il passo successivo però è la politica, ed è più recente. L’operazione di Abu Dhabi sul Telegraph e lo Spectator mira a influenzare l’opinione pubblica e dunque il parlamento britannico. Anche l’aver assunto a questo scopo un insider del partito di governo come l’ex ministro Osborne non è un fenomeno isolato. Fondi di governo dell’Arabia Saudita hanno remunerato un ex premier e capo di un partito in Italia come Matteo Renzi, in modo legale e piuttosto trasparente. Un fondo sovrano di Riad ha versato due miliardi di dollari nel veicolo di private equity di Jared Kushner, genero di Donald Trump, il quale a sua volta è il candidato oggi favorito dai sondaggi per la Casa Bianca (i manager del fondo di Riad avevano fortemente sconsigliato l’investimento, definendolo nel merito “insoddisfacente”, ma bin Salman li ha sconfessati).

di Federico Fubini

Il caso Qatar

Poi c’è il Qatar, il caso più estremo. I suoi finanziamenti a varie organizzazioni terroristiche islamiche, documentati dal Middle East Media Research Institute di Yigal Carmon, mirano a garantire protezione a un Paese troppo piccolo per dotarsi di un esercito. Un’inchiesta avviata da Reuters e dal sito investigativo francese Blast.info, poi sviluppata dal Memri – basata su documenti, mai smentita – ha descritto come negli anni la monarchia di Doha avrebbe versato di nascosto molti milioni di dollari a leader politici e opinion maker quali Nicolas Sarkozy e Bernard-Henry Levy in Francia, Thabo Mbeki in Sudafrica, persino Benjamin Netanyahu in Israele. Fino al Qatargate dell’europarlamento.

Gli obiettivi arabi

L’ansiosa ricerca di “soft power” attraverso lo sport o le sontuose sedi a Riad, Doha o Dubai di celebri università occidentali sta lasciando il posto al tentativo di penetrazione politica. Il dividendo arabo della guerra russa viene speso ovunque in Europa, probabilmente anche dove non lo vediamo. Certo, queste monarchie del Golfo spesso fra loro sono rivali, a volte divise da antichi odi tribali (come fra gli Al-Thani di Doha e gli Al-Saud di Riad). Ma possono avere obiettivi politici convergenti: rallentare la transizione energetica dalle fonti fossili alle rinnovabili o al nucleare; infiltrare e indebolire le economie avanzate mentre si ridefinisce l’ordine internazionale, anche oltre il conflitto in Medio Oriente; contare di più, con interessi e valori lontani dai nostri. Di certo in comune hanno il loro essere fra i Paesi più autoritari e oppressivi al mondo, secondo Freedom House.
In fondo fanno solo quel che ha fatto Putin per anni: usare la rendita da petrolio e gas per comprare politici e figure influenti in Europa, allo scopo di indebolirla. E si direbbe che l’esperienza russa davvero non ci abbia insegnato nulla.

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22 gen 2024

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Un fondo arabo (anche) per i giornali inglesi: così i re del petrolio si comprano l’Europa

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22.01.2024

Non ha attratto molta attenzione in Italia - ma dovrebbe - il fatto che il fondo Redbird Imi stia cercando di comprare Telegraph Media Group, il gruppo editoriale di Londra che controlla testate gloriose e influenti come il Telegraph stesso e lo Spectator. L’aspetto particolare è nella natura dell’offerente: Redbird Imi è una joint-venture fra il fondo americano Redbird (sì, quello che controlla il Milan) e il fondo Imi che possiede il Manchester City ed è guidato dallo sceicco Mansour bin Zayed Al-Nahyan, vicepresidente, primo ministro ed esponente della famiglia regnante di Abu Dhabi. Imi è un fondo sovrano degli Emirati Arabi Uniti e nella joint-venture con Redbird gli spetta l’ultima parola, perché detiene circa tre quarti delle quote. In sostanza un governo straniero – di uno stato di polizia – sta cercando di comprare due bandiere del giornalismo britannico. A che scopo?

Il piano di Redbird Imi

Redbird Imi sostiene che il suo sarebbe un investimento a fini puramente commerciali e non intenderebbe interferire con la linea editoriale del Telegraph o dello Spectator. Ma è interessante vedere come gli emiratini si siano avvicinati a questo affare. In primo luogo, lo fanno con notevole tempismo. La famiglia Barclay che controlla i due giornali aveva appena subìto il pignoramento dell’intero gruppo editoriale ad opera della banca Lloyd, a causa di un’insolvenza da un miliardo di sterline. Lloyd stava avviando un’asta per vendere il Telegraph Media Group a investitori molto più convenzionali, quando il fondo controllato da Abu Dhabi è intervenuto, prestando ai Barclay i fondi per riscattare il pegno. Adesso – debellati in anticipo altri possibili compratori – Redbird Imi chiede ai vecchi proprietari di convertire il prestito in azioni. In altri termini vuole farsi consegnare i giornali, implicitamente minacciando di far fallire i Barclay se questi non si piegassero.

di Francesco Bertolino

Il lobbismo di George Osborne

E’ interessante anche notare da chi si stia facendo aiutare Abu Dhabi: ha ingaggiato una piccola banca d’affari, la Robey Warshaw, che conta fra i partner George Osborne. Ricorderete Osborne: figlio di un baronetto, rampollo delle più esclusive scuole private inglesi e poi di Oxford, cancelliere dello Scacchiere, cioè ministro del Tesoro dei governi conservatori di David Cameron e poi direttore dell’Evening Standard di Londra, per citare solo alcune delle sue incarnazioni. Osborne oggi è un ex ministro del Tesoro del G7 che sta mettendo a disposizione – per soldi – la propria agenda di contatti a favore di un governo straniero, fra i più autoritari al mondo, che vuole annettersi due colonne della libertà di stampa nel Paese in cui questa è nata.

I Paesi arabi al World Economic Forum

Non è ancora detto che finisca così. La ministra della Cultura Lucy Frazer ha avviato una verifica dell’autorità indipendente delle comunicazioni, la Ofcom, quindi le aspirazioni dello sceicco Mansour potrebbero anche essere frustrate. Ma non ho potuto fare a meno di pensare a questa vicenda la settimana scorsa al World Economic Forum, dove i governi del Golfo sono discesi in massa dai loro velivoli sulla montagna incantata di........

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