«Dobbiamo parlare di lombrichi. Ho un progetto». «Anch’io!», si dicono Arthur e Kevin, studenti appena arrivati nella università di élite AgroParisTech. È l’inizio di un’amicizia che - assieme all’ecologia e ai possibili modi per salvare la Terra - è il cuore di Humus , bellissimo romanzo del 41enne scrittore francese Gaspard Kœnig, appena pubblicato in Italia da Neri Pozza dopo essere arrivato tra i finalisti del Prix Goncourt dello scorso novembre. Humus come terreno fertile e come uomo, almeno etimologicamente.

Come mai il punto di partenza è la riscoperta dei lombrichi? In Italia se ne parlava molto negli anni Ottanta, l’allevamento di lombrichi era di moda tra chi sognava di improvvisarsi imprenditore agricolo.
«Io ne ho sentito parlare già dai miei genitori, che negli anni 70 lavoravano in un giornale ecologista un po’ alternativo, Le Sauvage . Ma ci sono molte pagine dedicate ai vermi e al compostaggio anche in un libro culto della letteratura di anticipazione del 1975, Ecotopia di Ernest Callenbach, che immagina la secessione dei tre Stati americani di Washington, Oregon e California, che realizzano una società totalmente ecologista. Sono temi non nuovi, ma tutto sommato poco conosciuti».

A lei come è venuto in mente di farne il centro del romanzo, assieme allo slogan di uno dei protagonisti, “i vermi salveranno il mondo?”
«In realtà, volevo innanzitutto scrivere un romanzo di formazione al XXI secolo, con due giovani eroi che sono costretti a mettere a confronto i loro ideali con la realtà. Quindi, in sostanza, la sensibilità ambientalista alle prese con l’economia, la società attuale e le sue leggi. A quel punto sono arrivati i vermi, perché io vivo metà del tempo a Parigi e l’altra metà in campagna, in Normandia. Sono un “neo-rurale”, come si dice. Il vantaggio di essere nuovi in campagna è che si ha uno sguardo relativamente candido, mi sono lasciato incuriosire nei tanti lombrichi che rendono fertile il mio orto. Ho capito che sono fondamentali».

La copertina di «Humus»,
il romanzo di
Gaspard Koenig
appena pubblicato
anche in Italia,
da Neri Pozza,
dopo essere arrivato
in Francia fra i finalisti
del prestigioso premio
letterario Goncourt,
lo scorso novembre

Perché i vermi sono così importanti?
«Perché sono essenziali per l’humus, trasformano la morte in vita. La funzione del terreno è soprattutto quella di trattare i cadaveri, in particolare vegetali, cioè foglie e erbe, trasformandoli in nutrimento per altre piante e così via. È affascinante. Darwin spiega che le rovine dell’antichità si trovano sotto terra non perché sono sprofondate, ma perché sono state inghiottite nel corso dei secoli dal lavoro dei vermi, che scavano gallerie e digeriscono la terra e milioni di micro-organismi rendendo il terreno vitale. Milioni e milioni di micro-movimenti di animali minuscoli come sono i lombrichi consentono alla natura di non fermarsi mai. Lo abbiamo visto anche durante il lockdown per il Covid, il terreno ha subito riconquistato spazio anche in città».

Questo è piuttosto consolante, dimostra la potenza vitale della natura.
«Certamente. Quali che siano le stupidaggini commesse da noi umani, sul lungo periodo, tra qualche milione di anni, tutto sarà superato, la biodiversità avrà ripreso il sopravvento, magari con altre specie. Lo diceva anche il fondatore della deep ecology, il filosofo norvegese Arne Naess negli anni 70. Lui era molto radicale, e diceva di essere ottimista, sì, per il XXII secolo. Io trovo invece che la potenza della natura possa infonderci coraggio per cercare soluzioni qui e ora».

Tra i meriti del suo romanzo c’è quello di raccontare molti tipi umani e molti approcci diversi alla questione dell’ambiente, con ironia ed empatia allo stesso tempo.
«In effetti, sono molto ironico nei confronti dei miei protagonisti, dei loro ideale e dei loro passi falsi. Ma allo stesso tempo sento di stare dalla loro parte. Certo di raccontare personaggi nel loro rapporto alla questione dell’ecologia: c’è il neo-rurale, come in parte sono io, il contadino che sta in campagna da generazioni, il rivoluzionario, l’imprenditore, il comunicatore... Persone lontane tra loro, ognuna con una parte di ragione. Non divido tra buoni e cattivi. Non descrivo i rurali come eroi e gli urbani come farabutti. Forse perché mi sento parte di entrambe le categorie. La natura umana ha gli stessi pregi e difetti, in un piccolo villaggio di campagna e in un gabinetto ministeriale».

Come sono oggi i paesi di campagna francesi?
«Restano molto popolati, secondo l’Insee ( Istituto francese di statistica, ndr) un terzo della popolazione in Francia è rurale. I paesi sono pieni, ma deserti allo stesso tempo. Deserti nel senso che non ci sono più i negozi e i punti di ritrovo di un tempo perché la sociologia è diventata molto eterogenea. Un tempo chi viveva nei paesi erano artigiani e contadini lì da generazioni, tutti si conoscevano. Oggi, per esempio nel mio paese in Normandia, Montilly, vivono operai che lavorano nella fabbrica vicina, impiegati che fanno mezz’ora d’auto per andare in ufficio in città, contadini che vivono lì da sempre come il signor Jobard del mio romanzo, neo-rurali che arrivano per lavorare la terra ma sono pieni di convinzioni ideologiche che qualche volta cozzano con la realtà, infine ci sono quelli che sono lì ma non si sa che cosa facciano esattamente. Tutte persone che si parlano con difficoltà, talvolta neanche si conoscono».

E i neo-rurali? Come vengono accolti?
«Suscitano reazioni ambivalenti, tra accoglienza e fastidio, ma molto dipende da loro. Ci sono quelli che arrivano in campagna dalla città con la pretesa di dare lezioni a tutti e sono quindi ostracizzati. Bisogna inserirsi in punta di piedi, cercando di rispettare il luogo che ci accoglie. Lo sforzo spetta a chi arriva per ultimo, è normale».

Il suo sguardo ironico non risparmia neanche AgroParisTech, la grande scuola di agronomia francese.
«Fino a qualche anno fa era ospitata nel castello di Grignon, in mezzo a trecento ettari di foreste, e poi è stata trasferita su un terreno che era uno dei più fertili della regione di Parigi, a Saclay, che è stato tutto cementificato per creare una sorta di Silicon Valley alla francese, un centro universitario freddo e anonimo. Credo che i luoghi dove si fa ricerca influenzino il modo in cui la si fa, tutto è inquadrato e funzionale, non c’è la possibilità di un vagabondaggio fisico e intellettuale».

Perché lei, in fondo, non prende parte per nessuno e non condanna nessuno?
«Perché mi piace entrare nella logica di ognuno, vagabondare appunto tra i diversi strati della società, e a quel punto la condanna è più difficile. Non scelgo tra Arthur, il puro, e Kevin, che si lascia tentare dl capitalismo».

Lei salva persino Philippine, la ragazza di buona famiglia, ottimi studi e rapporto disinvolto con la verità e la morale.
«Mi diverto a turbare il lettore proponendo un personaggio odioso e cinico che, però, rischia di avere sull’ambiente un impatto più positivo, forse risolutivo, dell’intransigente e inefficace Arthur».

Quando decidono di trasferirsi in campagna come primo passo personale per provare a salvare il modo, Arthur e la sua compagna Anne decidono di non usare il navigatore dell’auto e tornano alle vecchie care cartine geografiche, “per conoscere meglio il territorio”.
«È una scelta che in parte ho fatto anche io, quando ho fatto il mio viaggio a cavallo sulle tracce di Montaigne, attraversando le campagne di tutta Europa. Volevo essere capace di orientarmi, non solo di passare da un punto A a un punto B. Ma ho scelto una via di mezzo, perché non potevo portare con me chili di carta: quindi, cartine geografiche e stradali in formato digitale, caricate su un iPad scollegato dalla rete, senza notifiche. La tecnologia è neutra, sta a noi usarla nel modo che preferiamo, senza diventarne schiavi».

Il suo romanzo sul mondo rurale francese è uscito a settembre ‘23. Che cosa ha pensato quando in ottobre e novembre sono cominciate le prime manifestazioni degli agricoltori, fino alle rivolte delle ultime settimane?
«La protesta degli agricoltori mi ha molto interessato e non mi ha sorpreso, anche perché nel mio viaggio a cavallo sono stato spesso ospite nelle loro fattorie. La bellezza del vagabondare, ancora una volta. E siccome i contadini sapevano che il giorno dopo sarei ripartito, molti di loro si sono confidati con grande sincerità e apertura, sono stato per alcuni di loro come una specie di psicologo itinerante. Sono venuto a conoscenza delle loro difficoltà. La cosa della quale però si parla meno, e che invece mi è sembrata centrale, è il fardello delle troppe leggi che rendono impossibile la vita degli agricoltori. Crollano sotto il peso della burocrazia e delle vessazioni dell’amministrazione».

Come giudica la rivolta?
«La protesta è stata presto canalizzata in Francia dal sindacato agricolo maggioritario, la Fnsea, che ha spinto nella direzione sbagliata, a mio avviso: semplificazione intesa come minori regole ambientali e via libera ai pesticidi».

Invece quale sarebbe la strada da percorrere?
«Il governo dovrebbe indicare agli agricoltori una direzione e rivendicarla politicamente, come fece De Gaulle puntando sulla modernizzazione dell’agricoltura, con i trattori, le macchine, e così via. Oggi la strada è chiara, bisogna passare a un’agricoltura che non devasti il territorio, a coltivazioni meno intensive con minor uso di prodotti chimici. Ma a differenza dell’epoca De Gaulle, oggi alle parole non seguono le politiche adeguate. Così capisco la frustrazione degli agricoltori».

Nel 2022 lei, di formazione liberale, ha provato a candidarsi alle presidenziali con un programma di centro, ma non è riuscito a raccogliere le 500 firme di grandi elettori necessarie. Ci riproverà nel 2027?
«Non credo, ormai preferisco il romanzo all’impegno politico in prima persona. Parteciperò al dibattito pubblico attraverso i miei libri, attraverso i quali posso esprimermi con maggiore libertà intellettuale. Non sono un guru, il mio ruolo non è offrire soluzioni. Quel che posso fare di meglio, è raccontare i dettagli della realtà per mostrare le conseguenze dei vari modi di pensare e di agire. Poi, la scelta finale spetta al lettore-cittadino».

IL FILOSOFO ALLA CORSA PER L’ELISEO, CHI È GASPARD KOENIG

Lo scrittore Gaspard Koenig è laureato in Filosofia all’École Normale Supérieure e ha anche creato nel 2013 il think tank GenerationLibre, oggi considerato tra i migliori think tank europei. Autore di una dozzina di romanzi e saggi, cura una rubrica settimanale sul giornale Les Echos e insegna Filosofia all Università Sciences-Po. Negli ultimi quattro anni ha lavorato a una serie di reportage in collaborazione con la rivista Le Point. Nel 2022 ha provato anche a candidarsi alle elezioni presidenziali in Francia ma non è riuscito a raccogliere le firme necessarie

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Gaspard Kœnig: «Sono un neo-rurale, nella campagna francese ho capito il fardello degli agricoltori. E il valore dei vermi»

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23.03.2024

«Dobbiamo parlare di lombrichi. Ho un progetto». «Anch’io!», si dicono Arthur e Kevin, studenti appena arrivati nella università di élite AgroParisTech. È l’inizio di un’amicizia che - assieme all’ecologia e ai possibili modi per salvare la Terra - è il cuore di Humus , bellissimo romanzo del 41enne scrittore francese Gaspard Kœnig, appena pubblicato in Italia da Neri Pozza dopo essere arrivato tra i finalisti del Prix Goncourt dello scorso novembre. Humus come terreno fertile e come uomo, almeno etimologicamente.

Come mai il punto di partenza è la riscoperta dei lombrichi? In Italia se ne parlava molto negli anni Ottanta, l’allevamento di lombrichi era di moda tra chi sognava di improvvisarsi imprenditore agricolo.
«Io ne ho sentito parlare già dai miei genitori, che negli anni 70 lavoravano in un giornale ecologista un po’ alternativo, Le Sauvage . Ma ci sono molte pagine dedicate ai vermi e al compostaggio anche in un libro culto della letteratura di anticipazione del 1975, Ecotopia di Ernest Callenbach, che immagina la secessione dei tre Stati americani di Washington, Oregon e California, che realizzano una società totalmente ecologista. Sono temi non nuovi, ma tutto sommato poco conosciuti».

A lei come è venuto in mente di farne il centro del romanzo, assieme allo slogan di uno dei protagonisti, “i vermi salveranno il mondo?”
«In realtà, volevo innanzitutto scrivere un romanzo di formazione al XXI secolo, con due giovani eroi che sono costretti a mettere a confronto i loro ideali con la realtà. Quindi, in sostanza, la sensibilità ambientalista alle prese con l’economia, la società attuale e le sue leggi. A quel punto sono arrivati i vermi, perché io vivo metà del tempo a Parigi e l’altra metà in campagna, in Normandia. Sono un “neo-rurale”, come si dice. Il vantaggio di essere nuovi in campagna è che si ha uno sguardo relativamente candido, mi sono lasciato incuriosire nei tanti lombrichi che rendono fertile il mio orto. Ho capito che sono fondamentali».

La copertina di «Humus»,
il romanzo di
Gaspard Koenig
appena pubblicato
anche in Italia,
da Neri Pozza,
dopo essere arrivato
in Francia fra i finalisti
del prestigioso premio
letterario Goncourt,
lo scorso novembre

Perché i vermi sono così importanti?
«Perché sono essenziali per l’humus, trasformano la morte in vita. La funzione del terreno è soprattutto quella di trattare i cadaveri, in particolare vegetali, cioè foglie e erbe, trasformandoli in nutrimento per altre piante e così via. È affascinante. Darwin spiega che le rovine dell’antichità si trovano sotto terra non perché sono sprofondate, ma perché sono state inghiottite nel corso dei secoli dal lavoro dei vermi, che scavano gallerie e digeriscono la terra e milioni di micro-organismi rendendo il terreno vitale.........

© Corriere della Sera


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