Quello che si chiede alla 28esima Conferenza Onu sul clima (Cop28) di Dubai è un minimo senso del pudore. L'emergenza climatica è un problema globale che esige risposte comunitarie. Politiche che abbiano una quantificazione nel minor tempo possibile, nel rispetto delle scadenze che ci ha dato la scienza. Aspettare è inutile. Perdere tempo è un errore grave, illogico quanto immorale. Se da un lato c'è la consapevolezza che siamo difronte a un riconosciuto “saccheggio” del Pianeta, e di questo passo finiremo per distruggerlo, dall'altro cerchiamo di svilire e accantonare la questione ambientale, incolpata di essere un freno allo sviluppo economico. Per quanto i costi, diretti e indiretti, degli effetti climatici non siano stimabili a priori (ma sono sempre più gravosi e frequenti), le azioni specifiche di lotta al climate change sono arretrate e insufficienti. In un contesto che si dimostra sempre più insicuro dovremmo riconoscere di essere impreparati, e fare mea culpa. Per anni abbiamo discusso sull'opportunità di creare le condizioni di una transizione sostenibile che ponga fine all’era dei combustibili fossili, senza raggiungere un risultato condiviso, se non a parole. Oggi centrare quest’obiettivo è praticamente impossibile se non vengono incasellate diverse causali al loro posto.

La riduzione delle emissioni inquinanti è il primo punto da risolvere, di quale agenda? Quella delle Cop ma non quella dei singoli stati, tranne rari casi. L'approccio diffuso è frutto di una tendenza a pensare che sia maggiormente importante il consenso rispetto a mettere in sicurezza milioni di vite umane; che generare profitto ha un prezzo da pagare inferiore rispetto all'ambientalismo; che una “rivoluzione” del nostro sistema di vita non sia fattibile, e tantomeno urgente. Kate Soper, professoressa emerita di filosofia presso l'Institute for the Study of European Transformations (ISET) e Humanities Arts and Languages (HAL) della London Metropolitan University, in un articolo pubblicato dal Guardian scrive: “il consumismo è la strada per la rovina del Pianeta, ci sono altri modi di vivere”. La Soper in particolar modo si sofferma sulla soluzione di uno stile di vita più lento e sobrio, “meno incentrato sul lavoro e più disposto alla comunità”. Aggiungendo: “Una cultura del meno lavoro al posto di quella orientata dal dominio del profitto libererebbe tempo per altre attività. Modalità di lavoro più lente e ibride (che utilizzino, per esempio, metodi artigianali e tecnologie innovative) potrebbero migliorare la soddisfazione lavorativa e consentire una maggiore condivisione del lavoro. Metodi di produzione ecologici ridurrebbero radicalmente gli sprechi. Le persone avrebbero la gratificazione di non contribuire al degrado ambientale e minacciare la sopravvivenza dei propri figli e nipoti”.

In termini pratici i cambiamenti climatici rischiano di produrre a catena un aumento della disuguaglianza, geografica, nei prossimi anni. E di questo articolato effetto si dovrebbe occupare la Cop28. “Su questo palco attivisti e governi possono mettere alla gogna il vergognoso rifiuto dei paesi ricchi di cooperare alla creazione di un fondo per perdite e danni, che risarcisca i paesi più esposti al pericolo. La necessità di un tale fondo è stata riconosciuta in linea di principio alla Cop27 in Egitto. Ma da allora la resistenza dei negoziatori statunitensi ed europei si è indurita. Mentre ci avviciniamo alla Cop28, l'organizzazione e il finanziamento del fondo devono ancora essere definiti”. Ad accusare l'inadempienza e l'ottusità generale è lo storico Adam Tooze, docente della Columbia University, che pone l'accento sulla mancanza di responsabilità di una parte del mondo in questa delicata fase: “abbiamo bisogno di una transizione energetica globale e di nuovi modelli di sviluppo realmente inclusivi e sostenibili”.

Sappiamo che gli investimenti a lungo termine sono fondamentali, ma quando le nazioni tentano di riprendersi da disastri climatici di solito si concentrano sulla riparazione immediata, posticipando l'introduzione di programmi di prevenzione e resilienza. Un cambiamento di prospettiva richiede visione collettiva, leadership coraggiose e forza politica. Cose che difficilmente troveremo a Dubai.

Verso Cop28. Il futuro del clima in mano a 4 economie con il 62% del Pil globale e oltre metà delle emissioni

di Chiara Montanini

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Quello che si chiede alla 28esima Conferenza Onu sul clima (Cop28) di Dubai è un minimo senso del pudore. L'emergenza climatica è un problema globale che esige risposte comunitarie. Politiche che abbiano una quantificazione nel minor tempo possibile, nel rispetto delle scadenze che ci ha dato la scienza. Aspettare è inutile. Perdere tempo è un errore grave, illogico quanto immorale. Se da un lato c'è la consapevolezza che siamo difronte a un riconosciuto “saccheggio” del Pianeta, e di questo passo finiremo per distruggerlo, dall'altro cerchiamo di svilire e accantonare la questione ambientale, incolpata di essere un freno allo sviluppo economico. Per quanto i costi, diretti e indiretti, degli effetti climatici non siano stimabili a priori (ma sono sempre più gravosi e frequenti), le azioni specifiche di lotta al climate change sono arretrate e insufficienti. In un contesto che si dimostra sempre più insicuro dovremmo riconoscere di essere impreparati, e fare mea culpa. Per anni abbiamo discusso sull'opportunità di creare le condizioni di una transizione sostenibile che ponga fine all’era dei combustibili fossili, senza raggiungere un risultato condiviso, se non a parole. Oggi centrare quest’obiettivo è praticamente impossibile se non vengono incasellate diverse causali al loro posto.

La riduzione delle emissioni inquinanti è il primo punto da risolvere, di quale agenda? Quella delle Cop ma non quella dei singoli stati, tranne rari casi. L'approccio diffuso è frutto di una tendenza a pensare che sia maggiormente importante il consenso rispetto a mettere in sicurezza milioni di vite umane; che generare profitto ha un prezzo da pagare inferiore rispetto all'ambientalismo; che una “rivoluzione” del nostro sistema di vita non sia fattibile, e tantomeno urgente. Kate Soper, professoressa emerita di filosofia presso l'Institute for the Study of European Transformations (ISET) e Humanities Arts and Languages (HAL) della London Metropolitan University, in un articolo pubblicato dal Guardian scrive: “il consumismo è la strada per la rovina del Pianeta, ci sono altri modi di vivere”. La Soper in particolar modo si sofferma sulla soluzione di uno stile di vita più lento e sobrio, “meno incentrato sul lavoro e più disposto alla comunità”. Aggiungendo: “Una cultura del meno lavoro al posto di quella orientata dal dominio del profitto libererebbe tempo per altre attività. Modalità di lavoro più lente e ibride (che utilizzino, per esempio, metodi artigianali e tecnologie innovative) potrebbero migliorare la soddisfazione lavorativa e consentire una maggiore condivisione del lavoro. Metodi di produzione ecologici ridurrebbero radicalmente gli sprechi. Le persone avrebbero la gratificazione di non contribuire al degrado ambientale e minacciare la sopravvivenza dei propri figli e nipoti”.

In termini pratici i cambiamenti climatici rischiano di produrre a catena un aumento della disuguaglianza, geografica, nei prossimi anni. E di questo articolato effetto si dovrebbe occupare la Cop28. “Su questo palco attivisti e governi possono mettere alla gogna il vergognoso rifiuto dei paesi ricchi di cooperare alla creazione di un fondo per perdite e danni, che risarcisca i paesi più esposti al pericolo. La necessità di un tale fondo è stata riconosciuta in linea di principio alla Cop27 in Egitto. Ma da allora la resistenza dei negoziatori statunitensi ed europei si è indurita. Mentre ci avviciniamo alla Cop28, l'organizzazione e il finanziamento del fondo devono ancora essere definiti”. Ad accusare l'inadempienza e l'ottusità generale è lo storico Adam Tooze, docente della Columbia University, che pone l'accento sulla mancanza di responsabilità di una parte del mondo in questa delicata fase: “abbiamo bisogno di una transizione energetica globale e di nuovi modelli di sviluppo realmente inclusivi e sostenibili”.

Sappiamo che gli investimenti a lungo termine sono fondamentali, ma quando le nazioni tentano di riprendersi da disastri climatici di solito si concentrano sulla riparazione immediata, posticipando l'introduzione di programmi di prevenzione e resilienza. Un cambiamento di prospettiva richiede visione collettiva, leadership coraggiose e forza politica. Cose che difficilmente troveremo a Dubai.

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Cop28. L’emergenza climatica ha bisogno di scelte coraggiose

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27.11.2023

Quello che si chiede alla 28esima Conferenza Onu sul clima (Cop28) di Dubai è un minimo senso del pudore. L'emergenza climatica è un problema globale che esige risposte comunitarie. Politiche che abbiano una quantificazione nel minor tempo possibile, nel rispetto delle scadenze che ci ha dato la scienza. Aspettare è inutile. Perdere tempo è un errore grave, illogico quanto immorale. Se da un lato c'è la consapevolezza che siamo difronte a un riconosciuto “saccheggio” del Pianeta, e di questo passo finiremo per distruggerlo, dall'altro cerchiamo di svilire e accantonare la questione ambientale, incolpata di essere un freno allo sviluppo economico. Per quanto i costi, diretti e indiretti, degli effetti climatici non siano stimabili a priori (ma sono sempre più gravosi e frequenti), le azioni specifiche di lotta al climate change sono arretrate e insufficienti. In un contesto che si dimostra sempre più insicuro dovremmo riconoscere di essere impreparati, e fare mea culpa. Per anni abbiamo discusso sull'opportunità di creare le condizioni di una transizione sostenibile che ponga fine all’era dei combustibili fossili, senza raggiungere un risultato condiviso, se non a parole. Oggi centrare quest’obiettivo è praticamente impossibile se non vengono incasellate diverse causali al loro posto.

La riduzione delle emissioni inquinanti è il primo punto da risolvere, di quale agenda? Quella delle Cop ma non quella dei singoli stati, tranne rari casi. L'approccio diffuso è frutto di una tendenza a pensare che sia maggiormente importante il consenso rispetto a mettere in sicurezza milioni di vite umane; che generare profitto ha un prezzo da pagare inferiore rispetto all'ambientalismo; che una “rivoluzione” del nostro sistema di vita non sia fattibile, e tantomeno urgente. Kate Soper, professoressa emerita di filosofia presso l'Institute for the Study of European Transformations (ISET) e Humanities Arts and Languages (HAL) della London Metropolitan University, in un articolo pubblicato dal Guardian scrive: “il consumismo è la strada per la rovina del Pianeta, ci sono altri modi di vivere”. La Soper in particolar modo si sofferma sulla soluzione di uno stile di vita più lento e........

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