Mentre scriviamo tiene la tregua a Gaza, esplode la violenza a Jenin, in Cisgiordania. USA, Egitto e Qatar lavorano a estendere ancora il cessate il fuoco. Intanto, Israele si interroga sul dilemma se continuare a trattare la liberazione degli ostaggi a oltranza o completare la guerra ad Hamas. Nella teoria, enunciata da Netanyahu, il conflitto deve essere portato avanti fino al raggiungimento della vittoria. Invece, la pratica a cui lo stesso Netanyahu si piega, è che farlo adesso significherebbe non adempiere al dovere di uno stato di riportare a casa gli ostaggi, “altrimenti quella casa non ha nessun valore” (Ayelet Goldin). Sentimento diffuso è che abbandonare gli ostaggi al loro fato sarebbe il secondo fallimento dopo quello degli eventi tragici dello scorso mese. Il trauma per la feroce barbarie subita si porta dietro l'angoscia per gli ostaggi. Lo shock durerà a lungo ma l'attesa per il ritorno dei rapiti è snervante.

David Horovitz, direttore di The Times of Israel e notoriamente critico verso Netanyahu, commenta: “I leader politici israeliani hanno gradualmente interiorizzato che fare tutto il possibile per ottenere il ritorno del maggior numero di ostaggi era la priorità più urgente della loro controffensiva contro Hamas dopo il 7 ottobre. Si sono resi conto che non ci poteva essere vittoria, non importa quanto fosse riuscito l'assalto dell'IDF (le forze di difesa israeliane ndr) contro Hamas, senza il ritorno di tutti gli ostaggi o almeno senza che il governo non avrà fatto tutto il possibile agli occhi della nazione. Altrimenti, anche demolire Hamas e dissuadere gli altri nemici di Israele non sarebbero sufficienti a ripristinare la fiducia dell'opinione pubblica nella leadership politica e militare che ha deluso il 7 ottobre”. Quando uno stato viene meno al patto fondativo crolla la fiducia. Nascono dubbi e incertezze sull'adesione ad un progetto comune e sul perchè si va a combattere.

Yaakov Katz dalle colonne del Jerusalem Post scrive: “Da un lato, gli israeliani hanno la forza perché antepongono il destino di pochi – gli ostaggi – alla missione finale che è quella di eliminare Hamas. D'altra parte, è impossibile ignorare che accordi di questo tipo sono il punto vulnerabile e debole di Israele, qualcosa che i nostri nemici possono (e continueranno) a sfruttare. Questo accordo è una disputa tra la mente e il cuore israeliano”.

Secondo l'ultimo sondaggio dell'Israel Democracy Institute quasi l'80% della popolazione considera prioritario il rilascio degli ostaggi (percentuale che sale al 97% tra la maggioranza ebraica e al 66% in quella araba). Discrepanza di opinione è rilevata invece sull'atteggiamento da tenere con Hamas, il 94% degli intervistati ebrei israeliani è per rovesciare l'organizzazione palestinese al potere a Gaza, mentre nella comunità araba israeliana solo il 29% si dice a favore di tale obiettivo.

Una terza soluzione la propone Michael Oren, diplomatico, politico e blogger israeliano: “Alla fine, Hamas non rilascerà tutti gli ostaggi, sapendo benissimo cosa gli farebbe l'IDF una volta che l'ultimo di loro verrà liberato. Comunque, Israele dovrà quasi certamente decidere se distruggere completamente i terroristi o salvare gli ostaggi rimasti, per scegliere, ancora una volta, tra il nostro corpo e la nostra anima nazionale. Eppure esiste una terza opzione. C'è ancora tempo per riformulare l'obiettivo della guerra dall'annientamento di Hamas alla garanzia della loro resa incondizionata. C'è ancora tempo per offrire ad Hamas il libero passaggio fuori da Gaza – ricordiamo l'evacuazione dell'OLP da Beirut nel 1982 – in cambio del rilascio degli ostaggi. I terroristi possono salpare verso l'Algeria, la Libia o l'Iran. E i rapiti saranno riuniti alle loro famiglie”.

Voce contro ogni iniziativa di negoziati è quella del ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir. “Fermare la guerra = rompere il governo”. Non è la prima volta che il falco dell'ultra destra nazionalista avvisa di essere pronto a uscire dalla maggioranza. Nonostante le ripetute minacce anche se la compagine di Otzma Yehudi, che conta 6 seggi nella Knesset, dovesse disertare la coalizione il governo Netanyahu non cadrebbe, per l'appoggio che Benny Gantz e il partito di Unità Nazionale continuerebbero a garantire in questa fase.

Gantz, che oggi di mestiere fa il politico e parla da futuro leader, ha trascorso gran parte della sua vita indossando la divisa. L'ex generale con il grado di Rav Aluf, il più alto, ha dichiarato che pagare il prezzo della trattativa con Hamas è l'unica scelta giusta: “Il ritorno degli ostaggi è un imperativo morale e fa parte della resilienza che ci consente di vincere le guerre”. Ein Safek. Non c'è dubbio.

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Mentre scriviamo tiene la tregua a Gaza, esplode la violenza a Jenin, in Cisgiordania. USA, Egitto e Qatar lavorano a estendere ancora il cessate il fuoco. Intanto, Israele si interroga sul dilemma se continuare a trattare la liberazione degli ostaggi a oltranza o completare la guerra ad Hamas. Nella teoria, enunciata da Netanyahu, il conflitto deve essere portato avanti fino al raggiungimento della vittoria. Invece, la pratica a cui lo stesso Netanyahu si piega, è che farlo adesso significherebbe non adempiere al dovere di uno stato di riportare a casa gli ostaggi, “altrimenti quella casa non ha nessun valore” (Ayelet Goldin). Sentimento diffuso è che abbandonare gli ostaggi al loro fato sarebbe il secondo fallimento dopo quello degli eventi tragici dello scorso mese. Il trauma per la feroce barbarie subita si porta dietro l'angoscia per gli ostaggi. Lo shock durerà a lungo ma l'attesa per il ritorno dei rapiti è snervante.

David Horovitz, direttore di The Times of Israel e notoriamente critico verso Netanyahu, commenta: “I leader politici israeliani hanno gradualmente interiorizzato che fare tutto il possibile per ottenere il ritorno del maggior numero di ostaggi era la priorità più urgente della loro controffensiva contro Hamas dopo il 7 ottobre. Si sono resi conto che non ci poteva essere vittoria, non importa quanto fosse riuscito l'assalto dell'IDF (le forze di difesa israeliane ndr) contro Hamas, senza il ritorno di tutti gli ostaggi o almeno senza che il governo non avrà fatto tutto il possibile agli occhi della nazione. Altrimenti, anche demolire Hamas e dissuadere gli altri nemici di Israele non sarebbero sufficienti a ripristinare la fiducia dell'opinione pubblica nella leadership politica e militare che ha deluso il 7 ottobre”. Quando uno stato viene meno al patto fondativo crolla la fiducia. Nascono dubbi e incertezze sull'adesione ad un progetto comune e sul perchè si va a combattere.

Yaakov Katz dalle colonne del Jerusalem Post scrive: “Da un lato, gli israeliani hanno la forza perché antepongono il destino di pochi – gli ostaggi – alla missione finale che è quella di eliminare Hamas. D'altra parte, è impossibile ignorare che accordi di questo tipo sono il punto vulnerabile e debole di Israele, qualcosa che i nostri nemici possono (e continueranno) a sfruttare. Questo accordo è una disputa tra la mente e il cuore israeliano”.

Secondo l'ultimo sondaggio dell'Israel Democracy Institute quasi l'80% della popolazione considera prioritario il rilascio degli ostaggi (percentuale che sale al 97% tra la maggioranza ebraica e al 66% in quella araba). Discrepanza di opinione è rilevata invece sull'atteggiamento da tenere con Hamas, il 94% degli intervistati ebrei israeliani è per rovesciare l'organizzazione palestinese al potere a Gaza, mentre nella comunità araba israeliana solo il 29% si dice a favore di tale obiettivo.

Una terza soluzione la propone Michael Oren, diplomatico, politico e blogger israeliano: “Alla fine, Hamas non rilascerà tutti gli ostaggi, sapendo benissimo cosa gli farebbe l'IDF una volta che l'ultimo di loro verrà liberato. Comunque, Israele dovrà quasi certamente decidere se distruggere completamente i terroristi o salvare gli ostaggi rimasti, per scegliere, ancora una volta, tra il nostro corpo e la nostra anima nazionale. Eppure esiste una terza opzione. C'è ancora tempo per riformulare l'obiettivo della guerra dall'annientamento di Hamas alla garanzia della loro resa incondizionata. C'è ancora tempo per offrire ad Hamas il libero passaggio fuori da Gaza – ricordiamo l'evacuazione dell'OLP da Beirut nel 1982 – in cambio del rilascio degli ostaggi. I terroristi possono salpare verso l'Algeria, la Libia o l'Iran. E i rapiti saranno riuniti alle loro famiglie”.

Voce contro ogni iniziativa di negoziati è quella del ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir. “Fermare la guerra = rompere il governo”. Non è la prima volta che il falco dell'ultra destra nazionalista avvisa di essere pronto a uscire dalla maggioranza. Nonostante le ripetute minacce anche se la compagine di Otzma Yehudi, che conta 6 seggi nella Knesset, dovesse disertare la coalizione il governo Netanyahu non cadrebbe, per l'appoggio che Benny Gantz e il partito di Unità Nazionale continuerebbero a garantire in questa fase.

Gantz, che oggi di mestiere fa il politico e parla da futuro leader, ha trascorso gran parte della sua vita indossando la divisa. L'ex generale con il grado di Rav Aluf, il più alto, ha dichiarato che pagare il prezzo della trattativa con Hamas è l'unica scelta giusta: “Il ritorno degli ostaggi è un imperativo morale e fa parte della resilienza che ci consente di vincere le guerre”. Ein Safek. Non c'è dubbio.

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Ein Safek. Nessun dubbio

3 0
29.11.2023

Mentre scriviamo tiene la tregua a Gaza, esplode la violenza a Jenin, in Cisgiordania. USA, Egitto e Qatar lavorano a estendere ancora il cessate il fuoco. Intanto, Israele si interroga sul dilemma se continuare a trattare la liberazione degli ostaggi a oltranza o completare la guerra ad Hamas. Nella teoria, enunciata da Netanyahu, il conflitto deve essere portato avanti fino al raggiungimento della vittoria. Invece, la pratica a cui lo stesso Netanyahu si piega, è che farlo adesso significherebbe non adempiere al dovere di uno stato di riportare a casa gli ostaggi, “altrimenti quella casa non ha nessun valore” (Ayelet Goldin). Sentimento diffuso è che abbandonare gli ostaggi al loro fato sarebbe il secondo fallimento dopo quello degli eventi tragici dello scorso mese. Il trauma per la feroce barbarie subita si porta dietro l'angoscia per gli ostaggi. Lo shock durerà a lungo ma l'attesa per il ritorno dei rapiti è snervante.

David Horovitz, direttore di The Times of Israel e notoriamente critico verso Netanyahu, commenta: “I leader politici israeliani hanno gradualmente interiorizzato che fare tutto il possibile per ottenere il ritorno del maggior numero di ostaggi era la priorità più urgente della loro controffensiva contro Hamas dopo il 7 ottobre. Si sono resi conto che non ci poteva essere vittoria, non importa quanto fosse riuscito l'assalto dell'IDF (le forze di difesa israeliane ndr) contro Hamas, senza il ritorno di tutti gli ostaggi o almeno senza che il governo non avrà fatto tutto il possibile agli occhi della nazione. Altrimenti, anche demolire Hamas e dissuadere gli altri nemici di Israele non sarebbero sufficienti a ripristinare la fiducia dell'opinione pubblica nella leadership politica e militare che ha deluso il 7 ottobre”. Quando uno stato viene meno al patto fondativo crolla la fiducia. Nascono dubbi e incertezze sull'adesione ad un progetto comune e sul perchè si va a combattere.

Yaakov Katz dalle colonne del Jerusalem Post scrive: “Da un lato, gli israeliani hanno la forza perché antepongono il destino di pochi – gli ostaggi – alla missione finale che è quella di eliminare Hamas. D'altra parte, è impossibile ignorare che accordi di questo tipo sono il punto vulnerabile e debole di Israele, qualcosa che i nostri nemici possono (e continueranno) a sfruttare. Questo accordo è una disputa tra la mente e il cuore israeliano”.

Secondo l'ultimo sondaggio........

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