In Israele corrono paralleli la campagna militare, in risposta all’attacco di Hamas del 7 ottobre, e la lotta sulla riforma della giustizia avanzata dall'esecutivo di destra. Se al fronte di Gaza i soldati dell'IDF combattono casa per casa, a Gerusalemme Netanyahu incrocia la spada con la Corte Suprema, in uno scontro che da un anno investe il futuro del sistema democratico del paese. Al centro del contendere la delicata sfida sull'assetto del bilanciamento dei poteri, una partita giocata sul filo di lana tra giudici e parlamento, piazza e premier. Bibi è l’immagine di un goffo picconatore e perdipiù entrato in una congiuntura astrale negativa. Di umore pessimo per la bocciatura delle politiche introdotte dalla sua maggioranza, che teoricamente avrebbero dovuto essere il suo paracadute, in caso di evenienza. Ed invece si sono dimostrate un infelice castello di carte.

“La sentenza della Corte Suprema prova che la fortezza democratica di Israele non è caduta”, titolava Haaretz dopo che la Corte Suprema ha annullato l'emendamento che gli aboliva il diritto ad applicare lo standard di ragionevolezza, a carico delle decisioni del governo. Norma grazie alla quale pochi mesi prima i giudici avevano stabilito che il leader del partito religioso Shas, ministro della Sanità e vice premier Arieh Deri, recidivo nel commettere reati, non era compatibile con la carica affidata da Netanyahu. La decisione di lasciare inalterato lo standard di ragionevolezza è un vero e proprio schiaffo, politicamente parlando, rifilato a Netanyahu. La notizia ha ovviamente animato il dibattito politico, “congelato” in tempo di guerra. Torna a farsi sentire la voce di Yair Lapid, ex premier e leader dell'opposizione: “Il pronunciamento dell'Alta Corte suggella un anno difficile di conflitto interno che ci ha dilaniati e ha portato al peggior disastro della nostra storia. La fonte della forza di Israele, la base dello stato, è il fatto che siamo un paese ebraico, democratico, liberale e rispettoso della legge. Oggi, la Corte Suprema ha adempiuto fedelmente al suo ruolo di protezione dei cittadini di Israele, e noi le diamo il nostro pieno appoggio. Se il governo israeliano rinnova la disputa alla Corte Suprema, allora non ha imparato proprio nulla”.

Di vittoria della democrazia parla anche la storica organizzazione HaTnu'a Lema'an Ekhut HaShilton BeYisrael (Movimento per la Qualità del Governo in Israele): “Questo è un verdetto storico. Il governo e i ministri che hanno cercato di escludersi dallo stato di diritto sono stati informati che a Gerusalemme ci sono i giudici. C'è la democrazia. C'è una separazione dei poteri. E la fortezza - come la definì Menachem Begin - è ancora in piedi”.

Nel campo degli alleati di Netanyahu non si sprecano le aspre critiche all'indirizzo delle toghe. Il primo a lanciarsi nella mischia, sentendosi direttamente chiamato in causa, è stato ovviamente il ministro della Giustizia Yariv Levin, che per nulla scoraggiato ha commentato: “La scelta dei giudici della Corte Suprema di pubblicare la sentenza in tempo di guerra è l'opposto dello spirito di unità richiesto in questi giorni. Con questo provvedimento i giudici stanno effettivamente prendendo nelle loro mani tutti i poteri”. All'architetto e promotore della contestata riforma ha fatto eco il collega e ministro delle Comunicazioni Shlomo Karai: “I giudici dell'Alta Corte insistono nel dimostrarci ancora una volta quanto siano disconnessi dal popolo e non rappresentino la sua maggioranza”. Sulla stessa linea il presidente della Knesset Amir Ohana: “Va da sé che la Corte Suprema non ha l'autorità di cancellare le leggi fondamentali. Ciò che è ancora più ovvio è che non possiamo impegnarci in questa discussione finché la guerra è in corso”.

Mentre l'alterco andava nel corso delle ore scemando, ecco i giudici tornare a pronunciarsi di nuovo, con il secondo affondo in meno di una settimana. Stabilendo che la legge di ricusazione, che prevede di eliminare un eventuale ordine del tribunale di dimissione del primo ministro, debba entrare in vigore nella prossima legislatura. L'obiezione presentata alla norma, ribattezzata non a caso salva Netanyahu, è per la natura “chiaramente personale” del decreto, e quindi costituiva un uso improprio del potere della Knesset di approvare e modificare le leggi fondamentali. Le motivazioni presentate dalla Corte al nuovo testo del codice giuridico, per quanto possano apparire inopportune nella tempistica, sono tuttavia determinate dalla scadenza del 12 gennaio, limite entro il quale due giudici in pensione si sarebbero dovuti esprimere. Tutto qui. Nulla di orchestrato ad orologeria dalle “toghe rosse” nei confronti di Benjamin Netanyahu.

Scrive il giornalista Amotz Asa-El, storica firma del Jerusalem Post: “Questa riforma ha diviso il popolo e ha lasciato che la maggioranza cancellasse la minoranza. Il principio costituzionale è sfuggito a Levin, il cui scopo non era quello di dare potere al popolo, come le costituzioni sono progettate per fare, ma di togliere potere ai tribunali”. Nella feroce battaglia al potere giudiziario Asa-El vede schierate tre “abominevoli” fazioni: “i monarchici, i separatisti e gli zeloti”. Coloro che nel Likud vorrebbero elevare re Bibi al di sopra della legge. Coloro che nei partiti religiosi vorrebbero violare il principio di uguaglianza davanti alla legge. E infine l'estrema destra che vorrebbe ignorare i diritti degli arabi. Fino ad oggi queste tre “divisioni” di armigeri si sono mosse compattamente verso il loro obiettivo. Che non è quello dei generali dell'IDF e tantomeno del ministro della Difesa Yoav Gallant. L'ottavo fronte di guerra, dopo Gaza, Cisgiordania, Libano, Siria, Iraq, Yemen e Iran, è quello destinato a spaccare definitivamente l'unità di Israele.

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In Israele corrono paralleli la campagna militare, in risposta all’attacco di Hamas del 7 ottobre, e la lotta sulla riforma della giustizia avanzata dall'esecutivo di destra. Se al fronte di Gaza i soldati dell'IDF combattono casa per casa, a Gerusalemme Netanyahu incrocia la spada con la Corte Suprema, in uno scontro che da un anno investe il futuro del sistema democratico del paese. Al centro del contendere la delicata sfida sull'assetto del bilanciamento dei poteri, una partita giocata sul filo di lana tra giudici e parlamento, piazza e premier. Bibi è l’immagine di un goffo picconatore e perdipiù entrato in una congiuntura astrale negativa. Di umore pessimo per la bocciatura delle politiche introdotte dalla sua maggioranza, che teoricamente avrebbero dovuto essere il suo paracadute, in caso di evenienza. Ed invece si sono dimostrate un infelice castello di carte.

“La sentenza della Corte Suprema prova che la fortezza democratica di Israele non è caduta”, titolava Haaretz dopo che la Corte Suprema ha annullato l'emendamento che gli aboliva il diritto ad applicare lo standard di ragionevolezza, a carico delle decisioni del governo. Norma grazie alla quale pochi mesi prima i giudici avevano stabilito che il leader del partito religioso Shas, ministro della Sanità e vice premier Arieh Deri, recidivo nel commettere reati, non era compatibile con la carica affidata da Netanyahu. La decisione di lasciare inalterato lo standard di ragionevolezza è un vero e proprio schiaffo, politicamente parlando, rifilato a Netanyahu. La notizia ha ovviamente animato il dibattito politico, “congelato” in tempo di guerra. Torna a farsi sentire la voce di Yair Lapid, ex premier e leader dell'opposizione: “Il pronunciamento dell'Alta Corte suggella un anno difficile di conflitto interno che ci ha dilaniati e ha portato al peggior disastro della nostra storia. La fonte della forza di Israele, la base dello stato, è il fatto che siamo un paese ebraico, democratico, liberale e rispettoso della legge. Oggi, la Corte Suprema ha adempiuto fedelmente al suo ruolo di protezione dei cittadini di Israele, e noi le diamo il nostro pieno appoggio. Se il governo israeliano rinnova la disputa alla Corte Suprema, allora non ha imparato proprio nulla”.

Di vittoria della democrazia parla anche la storica organizzazione HaTnu'a Lema'an Ekhut HaShilton BeYisrael (Movimento per la Qualità del Governo in Israele): “Questo è un verdetto storico. Il governo e i ministri che hanno cercato di escludersi dallo stato di diritto sono stati informati che a Gerusalemme ci sono i giudici. C'è la democrazia. C'è una separazione dei poteri. E la fortezza - come la definì Menachem Begin - è ancora in piedi”.

Nel campo degli alleati di Netanyahu non si sprecano le aspre critiche all'indirizzo delle toghe. Il primo a lanciarsi nella mischia, sentendosi direttamente chiamato in causa, è stato ovviamente il ministro della Giustizia Yariv Levin, che per nulla scoraggiato ha commentato: “La scelta dei giudici della Corte Suprema di pubblicare la sentenza in tempo di guerra è l'opposto dello spirito di unità richiesto in questi giorni. Con questo provvedimento i giudici stanno effettivamente prendendo nelle loro mani tutti i poteri”. All'architetto e promotore della contestata riforma ha fatto eco il collega e ministro delle Comunicazioni Shlomo Karai: “I giudici dell'Alta Corte insistono nel dimostrarci ancora una volta quanto siano disconnessi dal popolo e non rappresentino la sua maggioranza”. Sulla stessa linea il presidente della Knesset Amir Ohana: “Va da sé che la Corte Suprema non ha l'autorità di cancellare le leggi fondamentali. Ciò che è ancora più ovvio è che non possiamo impegnarci in questa discussione finché la guerra è in corso”.

Mentre l'alterco andava nel corso delle ore scemando, ecco i giudici tornare a pronunciarsi di nuovo, con il secondo affondo in meno di una settimana. Stabilendo che la legge di ricusazione, che prevede di eliminare un eventuale ordine del tribunale di dimissione del primo ministro, debba entrare in vigore nella prossima legislatura. L'obiezione presentata alla norma, ribattezzata non a caso salva Netanyahu, è per la natura “chiaramente personale” del decreto, e quindi costituiva un uso improprio del potere della Knesset di approvare e modificare le leggi fondamentali. Le motivazioni presentate dalla Corte al nuovo testo del codice giuridico, per quanto possano apparire inopportune nella tempistica, sono tuttavia determinate dalla scadenza del 12 gennaio, limite entro il quale due giudici in pensione si sarebbero dovuti esprimere. Tutto qui. Nulla di orchestrato ad orologeria dalle “toghe rosse” nei confronti di Benjamin Netanyahu.

Scrive il giornalista Amotz Asa-El, storica firma del Jerusalem Post: “Questa riforma ha diviso il popolo e ha lasciato che la maggioranza cancellasse la minoranza. Il principio costituzionale è sfuggito a Levin, il cui scopo non era quello di dare potere al popolo, come le costituzioni sono progettate per fare, ma di togliere potere ai tribunali”. Nella feroce battaglia al potere giudiziario Asa-El vede schierate tre “abominevoli” fazioni: “i monarchici, i separatisti e gli zeloti”. Coloro che nel Likud vorrebbero elevare re Bibi al di sopra della legge. Coloro che nei partiti religiosi vorrebbero violare il principio di uguaglianza davanti alla legge. E infine l'estrema destra che vorrebbe ignorare i diritti degli arabi. Fino ad oggi queste tre “divisioni” di armigeri si sono mosse compattamente verso il loro obiettivo. Che non è quello dei generali dell'IDF e tantomeno del ministro della Difesa Yoav Gallant. L'ottavo fronte di guerra, dopo Gaza, Cisgiordania, Libano, Siria, Iraq, Yemen e Iran, è quello destinato a spaccare definitivamente l'unità di Israele.

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L’ottavo fronte di guerra di Netanyahu

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06.01.2024

In Israele corrono paralleli la campagna militare, in risposta all’attacco di Hamas del 7 ottobre, e la lotta sulla riforma della giustizia avanzata dall'esecutivo di destra. Se al fronte di Gaza i soldati dell'IDF combattono casa per casa, a Gerusalemme Netanyahu incrocia la spada con la Corte Suprema, in uno scontro che da un anno investe il futuro del sistema democratico del paese. Al centro del contendere la delicata sfida sull'assetto del bilanciamento dei poteri, una partita giocata sul filo di lana tra giudici e parlamento, piazza e premier. Bibi è l’immagine di un goffo picconatore e perdipiù entrato in una congiuntura astrale negativa. Di umore pessimo per la bocciatura delle politiche introdotte dalla sua maggioranza, che teoricamente avrebbero dovuto essere il suo paracadute, in caso di evenienza. Ed invece si sono dimostrate un infelice castello di carte.

“La sentenza della Corte Suprema prova che la fortezza democratica di Israele non è caduta”, titolava Haaretz dopo che la Corte Suprema ha annullato l'emendamento che gli aboliva il diritto ad applicare lo standard di ragionevolezza, a carico delle decisioni del governo. Norma grazie alla quale pochi mesi prima i giudici avevano stabilito che il leader del partito religioso Shas, ministro della Sanità e vice premier Arieh Deri, recidivo nel commettere reati, non era compatibile con la carica affidata da Netanyahu. La decisione di lasciare inalterato lo standard di ragionevolezza è un vero e proprio schiaffo, politicamente parlando, rifilato a Netanyahu. La notizia ha ovviamente animato il dibattito politico, “congelato” in tempo di guerra. Torna a farsi sentire la voce di Yair Lapid, ex premier e leader dell'opposizione: “Il pronunciamento dell'Alta Corte suggella un anno difficile di conflitto interno che ci ha dilaniati e ha portato al peggior disastro della nostra storia. La fonte della forza di Israele, la base dello stato, è il fatto che siamo un paese ebraico, democratico, liberale e rispettoso della legge. Oggi, la Corte Suprema ha adempiuto fedelmente al suo ruolo di protezione dei cittadini di Israele, e noi le diamo il nostro pieno appoggio. Se il governo israeliano rinnova la disputa alla Corte Suprema, allora non ha imparato proprio nulla”.

Di vittoria della democrazia parla anche la storica organizzazione HaTnu'a Lema'an Ekhut HaShilton BeYisrael (Movimento per la Qualità del Governo in Israele): “Questo è un verdetto storico. Il governo e i ministri che hanno cercato di escludersi dallo stato di diritto sono stati informati che a Gerusalemme ci sono i giudici. C'è la democrazia. C'è una separazione dei poteri. E la fortezza - come la definì Menachem Begin - è ancora in piedi”.

Nel campo degli alleati di Netanyahu non si sprecano le aspre critiche all'indirizzo delle toghe. Il primo a lanciarsi nella mischia, sentendosi direttamente chiamato in causa, è stato ovviamente il ministro........

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