Dalla Great resignation al nomadismo digitale. Fino allo Smart working che, sebbene debba essere archiviato a partire dal 2 aprile, si segnala come una delle più importanti e gradite novità introdotte con la pandemia. Varie rilevazioni hanno infatti dimostrato che i giovani lo preferiscono, nonostante influisca negativamente sulle loro possibilità di carriera.

D’altronde, proprio la Great resignation dimostra che i giovani sono addirittura propensi a dimettersi, per meglio conciliare tempi di vita e di lavoro. Insomma, dall’investimento sul lavoro degli anni ‘70 a quello sulla vita di oggigiorno. Come dimostra l’altro caso - tutto italiano - del South worker, il nomade digitale che abbandona la frenetica e cara Milano per andare a vivere in un borgo al Sud, sul mare, spendere di meno e vivere slow. Ma cosa sta succedendo al lavoro?

Consideriamo che, fino a poco tempo fa, la litania era quella dei giovani che non riuscivano a trovarne. Mentre oggi, addirittura, vi rinunciano. Sicuramente, abbiamo un problema economico. La sfida della nostra industria è stata per gli ultimi trent’anni quella di aumentare la produttività. Non che meno tempo dedicato al lavoro significhi sempre meno produttività, ma è chiaro che il sentiment va ora in una direzione diversa. Non necessariamente antieconomica, se è vero che i lavoratori abbisognano di una organizzazione ben diversa da quella fordista. Eppure, sarebbe ingenuo non vedere in questi trend l’effetto perverso di sussidi, sovvenzioni, Pnrr ed helicopter moneyvari, attivati all’epoca della pandemia.

Probabilmente c’è dell’altro. I salari bassi non sono incentivanti, quando gli attuali young adult - facendo pochi figli -, mettono su un bel patrimonio immobiliare di case di nonni e parenti che passano a miglior vita, e conviene più campare con le rendite da B&B che lavorare. Insomma, quella che era l’analisi che solo 5 anni fa il sociologo Luca Ricolfi preconizzava, parlando dell’Italia come di una “società signorile di massa”, dove sono più numerosi i cittadini che accedono al surplus senza lavorare di quelli che lavorano, è assolutamente confermata dall’attuale tendenza alla ultra valorizzazione della rendita immobiliare, legata alle platformization dell’offerta turistica, in un contesto di natalità zero.

Tanto vale goderci la bella vita, allora? Un corno. Le società forti sono quelle che producono, investono sul futuro, mica vivono di rendita. È necessario, allora, investire sulla cultura d’impresa e del lavoro. Ricordare ai più giovani che ci si realizza anche così, e non esclusivamente frequentando aperitivi.

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Dalla Great resignation al nomadismo digitale. Fino allo Smart working che, sebbene debba essere archiviato a partire dal 2 aprile, si segnala come una delle più importanti e gradite novità introdotte con la pandemia. Varie rilevazioni hanno infatti dimostrato che i giovani lo preferiscono, nonostante influisca negativamente sulle loro possibilità di carriera.

D’altronde, proprio la Great resignation dimostra che i giovani sono addirittura propensi a dimettersi, per meglio conciliare tempi di vita e di lavoro. Insomma, dall’investimento sul lavoro degli anni ‘70 a quello sulla vita di oggigiorno. Come dimostra l’altro caso - tutto italiano - del South worker, il nomade digitale che abbandona la frenetica e cara Milano per andare a vivere in un borgo al Sud, sul mare, spendere di meno e vivere slow. Ma cosa sta succedendo al lavoro?

Consideriamo che, fino a poco tempo fa, la litania era quella dei giovani che non riuscivano a trovarne. Mentre oggi, addirittura, vi rinunciano. Sicuramente, abbiamo un problema economico. La sfida della nostra industria è stata per gli ultimi trent’anni quella di aumentare la produttività. Non che meno tempo dedicato al lavoro significhi sempre meno produttività, ma è chiaro che il sentiment va ora in una direzione diversa. Non necessariamente antieconomica, se è vero che i lavoratori abbisognano di una organizzazione ben diversa da quella fordista. Eppure, sarebbe ingenuo non vedere in questi trend l’effetto perverso di sussidi, sovvenzioni, Pnrr ed helicopter moneyvari, attivati all’epoca della pandemia.

Probabilmente c’è dell’altro. I salari bassi non sono incentivanti, quando gli attuali young adult - facendo pochi figli -, mettono su un bel patrimonio immobiliare di case di nonni e parenti che passano a miglior vita, e conviene più campare con le rendite da B&B che lavorare. Insomma, quella che era l’analisi che solo 5 anni fa il sociologo Luca Ricolfi preconizzava, parlando dell’Italia come di una “società signorile di massa”, dove sono più numerosi i cittadini che accedono al surplus senza lavorare di quelli che lavorano, è assolutamente confermata dall’attuale tendenza alla ultra valorizzazione della rendita immobiliare, legata alle platformization dell’offerta turistica, in un contesto di natalità zero.

Tanto vale goderci la bella vita, allora? Un corno. Le società forti sono quelle che producono, investono sul futuro, mica vivono di rendita. È necessario, allora, investire sulla cultura d’impresa e del lavoro. Ricordare ai più giovani che ci si realizza anche così, e non esclusivamente frequentando aperitivi.

QOSHE - Dalla società della produttività a quella della rendita - Angelo Bruscino
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Dalla società della produttività a quella della rendita

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03.04.2024

Dalla Great resignation al nomadismo digitale. Fino allo Smart working che, sebbene debba essere archiviato a partire dal 2 aprile, si segnala come una delle più importanti e gradite novità introdotte con la pandemia. Varie rilevazioni hanno infatti dimostrato che i giovani lo preferiscono, nonostante influisca negativamente sulle loro possibilità di carriera.

D’altronde, proprio la Great resignation dimostra che i giovani sono addirittura propensi a dimettersi, per meglio conciliare tempi di vita e di lavoro. Insomma, dall’investimento sul lavoro degli anni ‘70 a quello sulla vita di oggigiorno. Come dimostra l’altro caso - tutto italiano - del South worker, il nomade digitale che abbandona la frenetica e cara Milano per andare a vivere in un borgo al Sud, sul mare, spendere di meno e vivere slow. Ma cosa sta succedendo al lavoro?

Consideriamo che, fino a poco tempo fa, la litania era quella dei giovani che non riuscivano a trovarne. Mentre oggi, addirittura, vi rinunciano. Sicuramente, abbiamo un problema economico. La sfida della nostra industria è stata per gli ultimi trent’anni quella di aumentare la produttività. Non che meno tempo dedicato al lavoro significhi sempre meno produttività, ma è chiaro che il sentiment va ora in una direzione diversa. Non necessariamente antieconomica, se è vero che i lavoratori........

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