Per un bel numero di anni José Mário dos Santos Mourinho Félix, meglio noto come Mourinho, è stato un mago del calcio, ma a Roma era diventato un formidabile interprete dell’anima di una tifoseria e, tutto sommato, anche dell’umore profondo di una parte della città. Interprete e alla fine anche maieuta, capace cioè di estrarre dalla curva romanista gli istinti più sinceri, più repressi e anche più aggressivi.

Certamente, Mourinho ha saputo risvegliare e tener vivo il vittimismo, quell’idea per cui il mondo è contro di noi, il potere ci combatte. Ma anche l’eterna idea che quando le cose ci vanno storte, la colpa è immancabilmente degli altri. E dunque, restando al calcio, riecco ogni domenica le colpe delle giacchette nere, un vecchio refrain: a seconda delle epoche, gli arbitri sono stati “cornuti”, “venduti”, succubi del potere. Puntualmente colpevoli sono le società, che ovviamente non spendono quel che dovrebbero o spendono male. Colpevoli sono i giocatori, che quando perdono, sono sempre delle “pippe”. Non c’è stata domenica, o sabato, o lunedì, o giovedì, che da Mourinho non sia uscita una parola vittimista o colpevolista. Mai una volta che sia stato sfiorato dal dubbio, forse ho sbagliato. E i tifosi, non tutti, ben interpretati dal loro mister, sempre pronti a capire le ragioni del mister.

Si potrebbe obiettare: ma è “solo” calcio, non facciamo di Mourinho un personaggio più grande e più influente del giusto. E tuttavia lo spazio dedicato da giornali, telegiornali e Social al divorzio improvviso deciso dalla Roma dicono il contrario. Ed è naturale che sia così. Un personaggio di grande carattere si prende i riflettori, ovviamente divide, crea fazioni. E alla lunga personaggi come Mou finiscono per condizionare milioni di persone, danno un esempio. Possono estrarre istinti repressi e aggressivi, ma anche il loro contrario. Le due squadre di Roma, nel secondo dopoguerra, hanno vinto il loro primo scudetto (la Lazio) e il primo in tempo di pace (la Roma) guidate da personaggi agli antipodi di Mourinho. Tommaso Maestrelli – che guidò alla vittoria la Lazietta di Chinaglia, Wilson e Re Cecconi – era un uomo mite, esattamente come lo straordinario, ironico Nils Liedholm, che trascinò verso lo scudetto una elegantissima Roma che aveva tra i suoi leader campioni dell’anti-retorica come Agostino Di Bartolomei, Paulo Roberto Falcao e Bruno Conti.

Eppure, in questi giorni ci si è soffermati sul rapporto speciale tra Mourinho e i fan della Roma ma assai meno su quel fenomeno così originale: allenatori e tifosi si specchiavano l’uno con gli altri. Con effetti palpabili: lo scomodo Stadio Olimpico faceva registrare il tutto esaurito, o almeno “pienoni”, anche per partite con squadre di seconda schiera. Certo, quasi ogni tifoseria ha un’indole tutta sua, una psicologia nutrita da tante radici emotive: a volte capricciose, a volte casuali, tutte umanissime.

Per esempio le stratificazioni sociali: a Torino, gli immigrati, dagli anni Cinquanta in poi, simpatizzavano in prevalenza per la Juventus e non certo per la squadra col nome della città, il Torino, che invece era preferito dai “nativi” e d’altra parte proprio i tifosi granata, in un modo o nell’altro, si portano dietro il ricordo della tragedia di Superga, lo stigma di un destino avverso da ricordare e riscattare. Anche a Milano, c’era una squadra fondata dagli inglesi, il Milan, che per qualche anno è stata nel cuore dei “casciavit”, gli operai e un’altra, l’Ambrosiana, la squadra dei “bauscia”. Certo, poi le tifoserie si sono mischiate, ma la storia cominciò così. Quasi ogni tifoseria ha un grumo tutto sua che nel corso degli anni ha seminato stati d’animo, azioni e reazioni. Un’identità ce l’hanno i tifosi dell’Atalanta e della Lazio, quelli del Bologna e quelli della Fiorentina, quelli del Bari e quelli del Palermo. E ovviamente quelli del Napoli, artefici di interminabili feste per gli scudetti che raccontano di una città assetata di simboli immateriali capaci di riscattare tante immeritate frustrazioni materiali. E ovviamente i tifosi del Cagliari: oltre all’imprinting sardo, così diverso da quello degli italiani del continente, si portano dietro il ricordo di quell’unico scudetto, conquistato con la forza introversa di Gigi Riva, forse il più grande attaccante della storia del calcio italiano, il lombardo di Leggiuno che vive e adora Cagliari e che nella sua vita non ha mai parlato bene di sé stesso. Interpretando l’animo sardo, ma senza rincorrerlo.

José Mourinho, da quando sbarcò a Roma, ha sapientemente rincorso l’animo dei tifosi della “Maggica”. Certo, un po’ bullo Mou lo è sempre stato, ma anche uomo di notevole intelligenza: la sua definizione di “prostituzione intellettuale” è roba da Treccani. Uomo di notevole acume ha subito capito di che pasta fossero i sostenitori della Roma. I romani si sentono sempre sfottuti dal potere. Secoli di convivenza con la Curia e col potere in tutte le sue incarnazioni, il fascista, il Re, il Presidente, hanno insegnato a diffidare dei potenti. Anche quando il potere non c’entra. Hanno incontrato un mister demagogo al punto giusto, che li ha subito assecondati. E loro oggi, con sacrosante ragioni, possono ripetere: “Mourinho, uno di noi”.

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Per un bel numero di anni José Mário dos Santos Mourinho Félix, meglio noto come Mourinho, è stato un mago del calcio, ma a Roma era diventato un formidabile interprete dell’anima di una tifoseria e, tutto sommato, anche dell’umore profondo di una parte della città. Interprete e alla fine anche maieuta, capace cioè di estrarre dalla curva romanista gli istinti più sinceri, più repressi e anche più aggressivi.

Certamente, Mourinho ha saputo risvegliare e tener vivo il vittimismo, quell’idea per cui il mondo è contro di noi, il potere ci combatte. Ma anche l’eterna idea che quando le cose ci vanno storte, la colpa è immancabilmente degli altri. E dunque, restando al calcio, riecco ogni domenica le colpe delle giacchette nere, un vecchio refrain: a seconda delle epoche, gli arbitri sono stati “cornuti”, “venduti”, succubi del potere. Puntualmente colpevoli sono le società, che ovviamente non spendono quel che dovrebbero o spendono male. Colpevoli sono i giocatori, che quando perdono, sono sempre delle “pippe”. Non c’è stata domenica, o sabato, o lunedì, o giovedì, che da Mourinho non sia uscita una parola vittimista o colpevolista. Mai una volta che sia stato sfiorato dal dubbio, forse ho sbagliato. E i tifosi, non tutti, ben interpretati dal loro mister, sempre pronti a capire le ragioni del mister.

Si potrebbe obiettare: ma è “solo” calcio, non facciamo di Mourinho un personaggio più grande e più influente del giusto. E tuttavia lo spazio dedicato da giornali, telegiornali e Social al divorzio improvviso deciso dalla Roma dicono il contrario. Ed è naturale che sia così. Un personaggio di grande carattere si prende i riflettori, ovviamente divide, crea fazioni. E alla lunga personaggi come Mou finiscono per condizionare milioni di persone, danno un esempio. Possono estrarre istinti repressi e aggressivi, ma anche il loro contrario. Le due squadre di Roma, nel secondo dopoguerra, hanno vinto il loro primo scudetto (la Lazio) e il primo in tempo di pace (la Roma) guidate da personaggi agli antipodi di Mourinho. Tommaso Maestrelli – che guidò alla vittoria la Lazietta di Chinaglia, Wilson e Re Cecconi – era un uomo mite, esattamente come lo straordinario, ironico Nils Liedholm, che trascinò verso lo scudetto una elegantissima Roma che aveva tra i suoi leader campioni dell’anti-retorica come Agostino Di Bartolomei, Paulo Roberto Falcao e Bruno Conti.

Eppure, in questi giorni ci si è soffermati sul rapporto speciale tra Mourinho e i fan della Roma ma assai meno su quel fenomeno così originale: allenatori e tifosi si specchiavano l’uno con gli altri. Con effetti palpabili: lo scomodo Stadio Olimpico faceva registrare il tutto esaurito, o almeno “pienoni”, anche per partite con squadre di seconda schiera. Certo, quasi ogni tifoseria ha un’indole tutta sua, una psicologia nutrita da tante radici emotive: a volte capricciose, a volte casuali, tutte umanissime.

Per esempio le stratificazioni sociali: a Torino, gli immigrati, dagli anni Cinquanta in poi, simpatizzavano in prevalenza per la Juventus e non certo per la squadra col nome della città, il Torino, che invece era preferito dai “nativi” e d’altra parte proprio i tifosi granata, in un modo o nell’altro, si portano dietro il ricordo della tragedia di Superga, lo stigma di un destino avverso da ricordare e riscattare. Anche a Milano, c’era una squadra fondata dagli inglesi, il Milan, che per qualche anno è stata nel cuore dei “casciavit”, gli operai e un’altra, l’Ambrosiana, la squadra dei “bauscia”. Certo, poi le tifoserie si sono mischiate, ma la storia cominciò così. Quasi ogni tifoseria ha un grumo tutto sua che nel corso degli anni ha seminato stati d’animo, azioni e reazioni. Un’identità ce l’hanno i tifosi dell’Atalanta e della Lazio, quelli del Bologna e quelli della Fiorentina, quelli del Bari e quelli del Palermo. E ovviamente quelli del Napoli, artefici di interminabili feste per gli scudetti che raccontano di una città assetata di simboli immateriali capaci di riscattare tante immeritate frustrazioni materiali. E ovviamente i tifosi del Cagliari: oltre all’imprinting sardo, così diverso da quello degli italiani del continente, si portano dietro il ricordo di quell’unico scudetto, conquistato con la forza introversa di Gigi Riva, forse il più grande attaccante della storia del calcio italiano, il lombardo di Leggiuno che vive e adora Cagliari e che nella sua vita non ha mai parlato bene di sé stesso. Interpretando l’animo sardo, ma senza rincorrerlo.

José Mourinho, da quando sbarcò a Roma, ha sapientemente rincorso l’animo dei tifosi della “Maggica”. Certo, un po’ bullo Mou lo è sempre stato, ma anche uomo di notevole intelligenza: la sua definizione di “prostituzione intellettuale” è roba da Treccani. Uomo di notevole acume ha subito capito di che pasta fossero i sostenitori della Roma. I romani si sentono sempre sfottuti dal potere. Secoli di convivenza con la Curia e col potere in tutte le sue incarnazioni, il fascista, il Re, il Presidente, hanno insegnato a diffidare dei potenti. Anche quando il potere non c’entra. Hanno incontrato un mister demagogo al punto giusto, che li ha subito assecondati. E loro oggi, con sacrosante ragioni, possono ripetere: “Mourinho, uno di noi”.

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“Il mondo è contro di noi”. Nessuno come Mourinho ha interpretato l’animo dei romanisti

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17.01.2024

Per un bel numero di anni José Mário dos Santos Mourinho Félix, meglio noto come Mourinho, è stato un mago del calcio, ma a Roma era diventato un formidabile interprete dell’anima di una tifoseria e, tutto sommato, anche dell’umore profondo di una parte della città. Interprete e alla fine anche maieuta, capace cioè di estrarre dalla curva romanista gli istinti più sinceri, più repressi e anche più aggressivi.

Certamente, Mourinho ha saputo risvegliare e tener vivo il vittimismo, quell’idea per cui il mondo è contro di noi, il potere ci combatte. Ma anche l’eterna idea che quando le cose ci vanno storte, la colpa è immancabilmente degli altri. E dunque, restando al calcio, riecco ogni domenica le colpe delle giacchette nere, un vecchio refrain: a seconda delle epoche, gli arbitri sono stati “cornuti”, “venduti”, succubi del potere. Puntualmente colpevoli sono le società, che ovviamente non spendono quel che dovrebbero o spendono male. Colpevoli sono i giocatori, che quando perdono, sono sempre delle “pippe”. Non c’è stata domenica, o sabato, o lunedì, o giovedì, che da Mourinho non sia uscita una parola vittimista o colpevolista. Mai una volta che sia stato sfiorato dal dubbio, forse ho sbagliato. E i tifosi, non tutti, ben interpretati dal loro mister, sempre pronti a capire le ragioni del mister.

Si potrebbe obiettare: ma è “solo” calcio, non facciamo di Mourinho un personaggio più grande e più influente del giusto. E tuttavia lo spazio dedicato da giornali, telegiornali e Social al divorzio improvviso deciso dalla Roma dicono il contrario. Ed è naturale che sia così. Un personaggio di grande carattere si prende i riflettori, ovviamente divide, crea fazioni. E alla lunga personaggi come Mou finiscono per condizionare milioni di persone, danno un esempio. Possono estrarre istinti repressi e aggressivi, ma anche il loro contrario. Le due squadre di Roma, nel secondo dopoguerra, hanno vinto il loro primo scudetto (la Lazio) e il primo in tempo di pace (la Roma) guidate da personaggi agli antipodi di Mourinho. Tommaso Maestrelli – che guidò alla vittoria la Lazietta di Chinaglia, Wilson e Re Cecconi – era un uomo mite, esattamente come lo straordinario, ironico Nils Liedholm, che trascinò verso lo scudetto una elegantissima Roma che aveva tra i suoi leader campioni dell’anti-retorica come Agostino Di Bartolomei, Paulo Roberto Falcao e Bruno Conti.

Eppure, in questi giorni ci si è soffermati sul rapporto speciale tra Mourinho e i fan della Roma ma assai meno su quel fenomeno così originale: allenatori e tifosi si specchiavano l’uno con gli altri. Con effetti palpabili: lo scomodo Stadio Olimpico faceva........

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