In un fortunatissimo libro di venti anni fa, Non pensare all’elefante. Come riprendersi il discorso politico, il linguista e cognitivista statunitense George Lakoff mostrava come l’egemonia culturale della destra negli ultimi decenni si sia fondata sull’acquisizione e l’affermazione di un impianto metaforico che non è più di una parte, ma diviene universalmente condiviso.

A partire da questo presupposto mi sono soffermato venerdì 26 gennaio, in un convegno al CNR dal titolo Fine dell’austerità e nuovo intervento pubblico: un’ipotesi di governo, sulle radici di questa egemonia, che è lessicale oltre che politica. Espressioni come ‘sgravi fiscali’ (io aggiungerei per converso ‘paradiso fiscale’), ‘ondata migratoria’, ‘padroni a casa nostra’, sono entrate nel linguaggio e nel senso comune, configurando una visione del mondo che dice che le tasse sono un peso, che le migrazioni sono una minaccia che incombe come un mare in tempesta e che gli schizzi di quell’onda pretendono di travolgere leggi dove non è previsto, di imporre abitudini, modi di fare e di dire dove ne vigono altri ben più radicati e autentici.

L’idea che le tasse siano la possibilità dell’appartenenza riconosciuta al consorzio umano, che la migrazione sia una delle forme più antiche dell’essere umano e che la padronanza non discenda dall’identità etnica è un’idea perdente, disconosciuta quasi universalmente, votata all’insuccesso culturale oltre che elettorale. Questo impianto metaforico non esiste da sempre e si è consolidato grazie a concentrazioni editoriali monopolistiche, che hanno diffuso la paura e la chiusura come l’unica forma della convivenza, ribadendo a ogni piè sospinto che è meglio non pagare tasse, non farsi invadere da chi vede e parla il mondo in modi irriducibili al nostro, che la diffidenza è la misura di tutte le relazioni e di conseguenza è meglio la sicurezza nel privato che l’inefficienza del pubblico, in tutti gli ambiti dell’esistente.

L’istruzione e la sanità, declinate nel senso universalistico, sono diventate sinonimo di inerzia, cancrena, quando non malaffare. Ancora peggio con tutto ciò che ha a che fare con l’ambito della cultura: perché ‘con la cultura non si mangia’ (metafora triviale ma che solletica la ripugnanza piccolo-borghese contro tutto ciò che sa di intellettuale), le forme della cultura attengono al piano del superfluo, del voluttuario, dell’improduttivo – secondo il principio che le politiche culturali non hanno niente da spartire con quelle sociali e che non è vero che cultura significa prevenzione, inclusione, cura. Lakoff sostiene che bisogna riappropriarsi del discorso politico coniugando in accezione alternativa parole e metafore contaminate da una semantica deteriore e regressiva.

Veniamo da decenni di 'guerre umanitarie’, di ‘fuoco amico’, di ‘omicidi mirati’, di ‘pallottole vaganti’ che hanno ridefinito, con successo, la violenza inaccettabile della guerra, riuscendo paradossalmente a umanizzare la brutalità sistematica e a stemperarne l’orrore ingiustificabile. Ma se è vero quanto diceva Franco Fortini in Verifica dei poteri e cioè che ‘rinominare le cose significa ridefinire i rapporti di proprietà’, allora il compito di un nuovo discorso politico passa per la riaffermazione della necessità di essere buonisti, se buonista è colui che riconosce l’humanitas nell’altro da sé, e simultaneamente che siamo tutti clandestini, se etimologicamente la parola ‘clandestino’ viene dal latino clam (nascosto) e destinus (destinazione) ovvero che il clandestino non è un criminale che ha la sola colpa di essere sopravvissuto al Canale di Sicilia, ma uno la cui destinazione è nascosta, il cui futuro è ignoto come lo è per tutti, nessuno escluso.

Capovolgendo dunque il paradigma che vuole socialmente approvata la scommessa di chi investe in borsa, in positivo o in negativo, sul destino di un’azienda o di uno stato e quasi universalmente stigmatizzata la scommessa di chi investe la sua vita sulla possibilità di sopravvivere dopo il deserto, le torture, il Mediterraneo per arrivare dalle nostre parti non per rubare ma dopo essere stati depredati. Nella consapevolezza, come diceva William Shakespeare nell’Amleto, che ‘Niente è bene o male, ma è il pensiero che lo rende tale’ (Nothing is good or evil but thinking makes it so).

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In un fortunatissimo libro di venti anni fa, Non pensare all’elefante. Come riprendersi il discorso politico, il linguista e cognitivista statunitense George Lakoff mostrava come l’egemonia culturale della destra negli ultimi decenni si sia fondata sull’acquisizione e l’affermazione di un impianto metaforico che non è più di una parte, ma diviene universalmente condiviso.

A partire da questo presupposto mi sono soffermato venerdì 26 gennaio, in un convegno al CNR dal titolo Fine dell’austerità e nuovo intervento pubblico: un’ipotesi di governo, sulle radici di questa egemonia, che è lessicale oltre che politica. Espressioni come ‘sgravi fiscali’ (io aggiungerei per converso ‘paradiso fiscale’), ‘ondata migratoria’, ‘padroni a casa nostra’, sono entrate nel linguaggio e nel senso comune, configurando una visione del mondo che dice che le tasse sono un peso, che le migrazioni sono una minaccia che incombe come un mare in tempesta e che gli schizzi di quell’onda pretendono di travolgere leggi dove non è previsto, di imporre abitudini, modi di fare e di dire dove ne vigono altri ben più radicati e autentici.

L’idea che le tasse siano la possibilità dell’appartenenza riconosciuta al consorzio umano, che la migrazione sia una delle forme più antiche dell’essere umano e che la padronanza non discenda dall’identità etnica è un’idea perdente, disconosciuta quasi universalmente, votata all’insuccesso culturale oltre che elettorale. Questo impianto metaforico non esiste da sempre e si è consolidato grazie a concentrazioni editoriali monopolistiche, che hanno diffuso la paura e la chiusura come l’unica forma della convivenza, ribadendo a ogni piè sospinto che è meglio non pagare tasse, non farsi invadere da chi vede e parla il mondo in modi irriducibili al nostro, che la diffidenza è la misura di tutte le relazioni e di conseguenza è meglio la sicurezza nel privato che l’inefficienza del pubblico, in tutti gli ambiti dell’esistente.

L’istruzione e la sanità, declinate nel senso universalistico, sono diventate sinonimo di inerzia, cancrena, quando non malaffare. Ancora peggio con tutto ciò che ha a che fare con l’ambito della cultura: perché ‘con la cultura non si mangia’ (metafora triviale ma che solletica la ripugnanza piccolo-borghese contro tutto ciò che sa di intellettuale), le forme della cultura attengono al piano del superfluo, del voluttuario, dell’improduttivo – secondo il principio che le politiche culturali non hanno niente da spartire con quelle sociali e che non è vero che cultura significa prevenzione, inclusione, cura. Lakoff sostiene che bisogna riappropriarsi del discorso politico coniugando in accezione alternativa parole e metafore contaminate da una semantica deteriore e regressiva.

Veniamo da decenni di 'guerre umanitarie’, di ‘fuoco amico’, di ‘omicidi mirati’, di ‘pallottole vaganti’ che hanno ridefinito, con successo, la violenza inaccettabile della guerra, riuscendo paradossalmente a umanizzare la brutalità sistematica e a stemperarne l’orrore ingiustificabile. Ma se è vero quanto diceva Franco Fortini in Verifica dei poteri e cioè che ‘rinominare le cose significa ridefinire i rapporti di proprietà’, allora il compito di un nuovo discorso politico passa per la riaffermazione della necessità di essere buonisti, se buonista è colui che riconosce l’humanitas nell’altro da sé, e simultaneamente che siamo tutti clandestini, se etimologicamente la parola ‘clandestino’ viene dal latino clam (nascosto) e destinus (destinazione) ovvero che il clandestino non è un criminale che ha la sola colpa di essere sopravvissuto al Canale di Sicilia, ma uno la cui destinazione è nascosta, il cui futuro è ignoto come lo è per tutti, nessuno escluso.

Capovolgendo dunque il paradigma che vuole socialmente approvata la scommessa di chi investe in borsa, in positivo o in negativo, sul destino di un’azienda o di uno stato e quasi universalmente stigmatizzata la scommessa di chi investe la sua vita sulla possibilità di sopravvivere dopo il deserto, le torture, il Mediterraneo per arrivare dalle nostre parti non per rubare ma dopo essere stati depredati. Nella consapevolezza, come diceva William Shakespeare nell’Amleto, che ‘Niente è bene o male, ma è il pensiero che lo rende tale’ (Nothing is good or evil but thinking makes it so).

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L’egemonia lessicale della destra

19 7
30.01.2024

In un fortunatissimo libro di venti anni fa, Non pensare all’elefante. Come riprendersi il discorso politico, il linguista e cognitivista statunitense George Lakoff mostrava come l’egemonia culturale della destra negli ultimi decenni si sia fondata sull’acquisizione e l’affermazione di un impianto metaforico che non è più di una parte, ma diviene universalmente condiviso.

A partire da questo presupposto mi sono soffermato venerdì 26 gennaio, in un convegno al CNR dal titolo Fine dell’austerità e nuovo intervento pubblico: un’ipotesi di governo, sulle radici di questa egemonia, che è lessicale oltre che politica. Espressioni come ‘sgravi fiscali’ (io aggiungerei per converso ‘paradiso fiscale’), ‘ondata migratoria’, ‘padroni a casa nostra’, sono entrate nel linguaggio e nel senso comune, configurando una visione del mondo che dice che le tasse sono un peso, che le migrazioni sono una minaccia che incombe come un mare in tempesta e che gli schizzi di quell’onda pretendono di travolgere leggi dove non è previsto, di imporre abitudini, modi di fare e di dire dove ne vigono altri ben più radicati e autentici.

L’idea che le tasse siano la possibilità dell’appartenenza riconosciuta al consorzio umano, che la migrazione sia una delle forme più antiche dell’essere umano e che la padronanza non discenda dall’identità etnica è un’idea perdente, disconosciuta quasi universalmente, votata all’insuccesso culturale oltre che elettorale. Questo impianto metaforico non esiste da sempre e si è consolidato grazie a concentrazioni editoriali monopolistiche, che hanno diffuso la paura e la chiusura come l’unica forma della convivenza, ribadendo a ogni piè sospinto che è meglio non pagare tasse, non farsi invadere da chi vede e parla il mondo in modi irriducibili al nostro, che la diffidenza è la misura di tutte le relazioni e di conseguenza è meglio la sicurezza nel privato che l’inefficienza del pubblico, in tutti gli ambiti dell’esistente.

L’istruzione e la sanità, declinate nel senso universalistico, sono diventate sinonimo di inerzia, cancrena, quando non malaffare. Ancora peggio con tutto ciò che ha a che fare con l’ambito della cultura: perché ‘con la cultura non si mangia’........

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