Dopo una influenza di otto giorni durante la quale mi ha fatto male ogni distretto corporeo (anche quelli di cui avevo dimenticato l’esistenza), due viaggi di lavoro e pochi giorni dopo un piccolo intervento chirurgico, ho lo spazio mentale e il tempo per pensare a come dare il tempo al mio corpo di recuperare le forze.

Con circa 1 milione di persone a letto con vari virus influenzali e circa 3 milioni che circolano con qualche sintomo, sembra di vivere in un reparto ospedaliero a cielo aperto. Va paradossalmente meglio a quelli che hanno la febbre, dolori articoli o gastroenterici perché costretti a fermarsi. ‘Big ben ha detto stop’, tutti sotto le coperte al grido del motto delle nostre nonne: ‘letto, lana e latte’, ma appena la febbre scende, la tosse diminuisce e il naso smette di colare come un rubinetto rotto, le persone tornano in pista, a correre la propria personale maratona di produttività.

Eppure, nei giorni in cui mi sono dovuta fermare per forza, mi sono ricordata di quando, da piccola, i medici ti caldeggiavano un periodo di ‘convalescenza’. Scommetto che i lettori più giovani non avranno dimestichezza con questo termine, roba da boomer, insomma di noi nati nel 1900. Eppure, trenta, quaranta anni fa la convalescenza, il recupero, la ripresa, erano una cosa seria. Lo spauracchio sventolato di fronte al paziente smanioso di tornare alla vita sociale era la ‘ricaduta’ che poteva essere peggiore della malattia. Roba di quando la maggior parte degli italiani aveva il posto fisso che non riesco ad immaginare possibile nell’epoca delle partite iva. Al tempo, mandavi il certificato medico al datore di lavoro e stavi a casa a bere brodini e attendere la visita di controllo. Cambiato il mondo del lavoro e la società, la convalescenza è diventato un termine desueto, antico, dal profumo stantìo.

Quando finiscono i sintomi più acuti e fastidiosi stiamo ‘meglio ma non benissimo’ e serve ancora un po’ di una medicina antica: il riposo, che è una vera e propria terapia, da affiancare ad una alimentazione leggera e ad una abbondante idratazione.

Malattie infettive, batteriche o virali, quelle che prevedono una imponente reazione infiammatoria dell’organismo, interventi chirurgici e traumi sono le condizioni che si sposano meglio con il concetto di convalescenza, facendo affidamento sulla saggezza del corpo e sulla necessità che recuperi il suo equilibrio. Durante la malattia infatti cellule, organi, ormoni e sostanze di ogni tipo sono scese a combattere consumando energia e producendo radicali liberi. La guarigione non è allora una soglia definita dal termometro, ma è un processo graduale. Il medico scozzese David Frances ha sfidato i trend editoriali con un testo tutt’altro che hype sulla convalescenza definendola ‘l’arte dimenticata’.

Come mai la convalescenza è scomparsa dai consigli medici: “Le ricadute possono essere indipendenti dal periodo di convalescenza, ma talvolta sono legate ad una mala gestione della convalescenza. Due importanti studi europei su grandi numeri condotti ai primi del Duemila (Eurocare ed Euroaspire) attuarono un monitoraggio accurato dello stile di vita di pazienti dopo dimissione ospedaliera a causa di un infarto miocardico acuto. Entrambi gli studi dimostrarono che entro i primi tre mesi dalla dimissione, la grande maggioranza dei pazienti riprendevano le proprie vecchie abitudini, compreso il fumo di tabacco che era stato loro assolutamente vietato” spiega il dottor Dottor Giacomo Mangiaracina, medico di base e membro del board scientifico dell’Osservatorio MOHRE.

Non aiuta nemmeno la carenza di letteratura scientifica sull’argomento: “Oggi prevale il termine di reinserimento del paziente nella vita quotidiana” prosegue il medico “tenendo conto di vari fattori: se può vivere in autosufficienza, se necessita di assistenza periodica o continuativa, se deve continuare ad assumere farmaci, se potrà tornare a lavorare come prima, se le condizioni finanziarie saranno ancora soddisfacenti e se dovesse avere bisogno di mezzi ausiliari. In alcuni casi il consiglio di prolungare il riposo non è applicabile a causa delle nuove forme di lavoro non tutelato”.

I medici quindi non la consigliano più, è una questione culturale: una volta il medico consigliava gli alimenti che si consideravano più appropriati, il riposo e l’aria migliore delle località climatiche. Tuttavia, molti consigli venivano dati su basi culturali e non scientifiche, come le diete 'in bianco' e il brodo di pollo, magari accompagnate da un bicchiere di vino rosso 'che fa buon sangue'. Insomma, riposare e recuperare le forze e la salute non solo è un diritto ma è un giano bifronte che contiene un dovere, verso sé stessi.

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Dopo una influenza di otto giorni durante la quale mi ha fatto male ogni distretto corporeo (anche quelli di cui avevo dimenticato l’esistenza), due viaggi di lavoro e pochi giorni dopo un piccolo intervento chirurgico, ho lo spazio mentale e il tempo per pensare a come dare il tempo al mio corpo di recuperare le forze.

Con circa 1 milione di persone a letto con vari virus influenzali e circa 3 milioni che circolano con qualche sintomo, sembra di vivere in un reparto ospedaliero a cielo aperto. Va paradossalmente meglio a quelli che hanno la febbre, dolori articoli o gastroenterici perché costretti a fermarsi. ‘Big ben ha detto stop’, tutti sotto le coperte al grido del motto delle nostre nonne: ‘letto, lana e latte’, ma appena la febbre scende, la tosse diminuisce e il naso smette di colare come un rubinetto rotto, le persone tornano in pista, a correre la propria personale maratona di produttività.

Eppure, nei giorni in cui mi sono dovuta fermare per forza, mi sono ricordata di quando, da piccola, i medici ti caldeggiavano un periodo di ‘convalescenza’. Scommetto che i lettori più giovani non avranno dimestichezza con questo termine, roba da boomer, insomma di noi nati nel 1900. Eppure, trenta, quaranta anni fa la convalescenza, il recupero, la ripresa, erano una cosa seria. Lo spauracchio sventolato di fronte al paziente smanioso di tornare alla vita sociale era la ‘ricaduta’ che poteva essere peggiore della malattia. Roba di quando la maggior parte degli italiani aveva il posto fisso che non riesco ad immaginare possibile nell’epoca delle partite iva. Al tempo, mandavi il certificato medico al datore di lavoro e stavi a casa a bere brodini e attendere la visita di controllo. Cambiato il mondo del lavoro e la società, la convalescenza è diventato un termine desueto, antico, dal profumo stantìo.

Quando finiscono i sintomi più acuti e fastidiosi stiamo ‘meglio ma non benissimo’ e serve ancora un po’ di una medicina antica: il riposo, che è una vera e propria terapia, da affiancare ad una alimentazione leggera e ad una abbondante idratazione.

Malattie infettive, batteriche o virali, quelle che prevedono una imponente reazione infiammatoria dell’organismo, interventi chirurgici e traumi sono le condizioni che si sposano meglio con il concetto di convalescenza, facendo affidamento sulla saggezza del corpo e sulla necessità che recuperi il suo equilibrio. Durante la malattia infatti cellule, organi, ormoni e sostanze di ogni tipo sono scese a combattere consumando energia e producendo radicali liberi. La guarigione non è allora una soglia definita dal termometro, ma è un processo graduale. Il medico scozzese David Frances ha sfidato i trend editoriali con un testo tutt’altro che hype sulla convalescenza definendola ‘l’arte dimenticata’.

Come mai la convalescenza è scomparsa dai consigli medici: “Le ricadute possono essere indipendenti dal periodo di convalescenza, ma talvolta sono legate ad una mala gestione della convalescenza. Due importanti studi europei su grandi numeri condotti ai primi del Duemila (Eurocare ed Euroaspire) attuarono un monitoraggio accurato dello stile di vita di pazienti dopo dimissione ospedaliera a causa di un infarto miocardico acuto. Entrambi gli studi dimostrarono che entro i primi tre mesi dalla dimissione, la grande maggioranza dei pazienti riprendevano le proprie vecchie abitudini, compreso il fumo di tabacco che era stato loro assolutamente vietato” spiega il dottor Dottor Giacomo Mangiaracina, medico di base e membro del board scientifico dell’Osservatorio MOHRE.

Non aiuta nemmeno la carenza di letteratura scientifica sull’argomento: “Oggi prevale il termine di reinserimento del paziente nella vita quotidiana” prosegue il medico “tenendo conto di vari fattori: se può vivere in autosufficienza, se necessita di assistenza periodica o continuativa, se deve continuare ad assumere farmaci, se potrà tornare a lavorare come prima, se le condizioni finanziarie saranno ancora soddisfacenti e se dovesse avere bisogno di mezzi ausiliari. In alcuni casi il consiglio di prolungare il riposo non è applicabile a causa delle nuove forme di lavoro non tutelato”.

I medici quindi non la consigliano più, è una questione culturale: una volta il medico consigliava gli alimenti che si consideravano più appropriati, il riposo e l’aria migliore delle località climatiche. Tuttavia, molti consigli venivano dati su basi culturali e non scientifiche, come le diete 'in bianco' e il brodo di pollo, magari accompagnate da un bicchiere di vino rosso 'che fa buon sangue'. Insomma, riposare e recuperare le forze e la salute non solo è un diritto ma è un giano bifronte che contiene un dovere, verso sé stessi.

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L’arte perduta della convalescenza

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24.01.2024

Dopo una influenza di otto giorni durante la quale mi ha fatto male ogni distretto corporeo (anche quelli di cui avevo dimenticato l’esistenza), due viaggi di lavoro e pochi giorni dopo un piccolo intervento chirurgico, ho lo spazio mentale e il tempo per pensare a come dare il tempo al mio corpo di recuperare le forze.

Con circa 1 milione di persone a letto con vari virus influenzali e circa 3 milioni che circolano con qualche sintomo, sembra di vivere in un reparto ospedaliero a cielo aperto. Va paradossalmente meglio a quelli che hanno la febbre, dolori articoli o gastroenterici perché costretti a fermarsi. ‘Big ben ha detto stop’, tutti sotto le coperte al grido del motto delle nostre nonne: ‘letto, lana e latte’, ma appena la febbre scende, la tosse diminuisce e il naso smette di colare come un rubinetto rotto, le persone tornano in pista, a correre la propria personale maratona di produttività.

Eppure, nei giorni in cui mi sono dovuta fermare per forza, mi sono ricordata di quando, da piccola, i medici ti caldeggiavano un periodo di ‘convalescenza’. Scommetto che i lettori più giovani non avranno dimestichezza con questo termine, roba da boomer, insomma di noi nati nel 1900. Eppure, trenta, quaranta anni fa la convalescenza, il recupero, la ripresa, erano una cosa seria. Lo spauracchio sventolato di fronte al paziente smanioso di tornare alla vita sociale era la ‘ricaduta’ che poteva essere peggiore della malattia. Roba di quando la maggior parte degli italiani aveva il posto fisso che non riesco ad immaginare possibile nell’epoca delle partite iva. Al tempo, mandavi il certificato medico al datore di lavoro e stavi a casa a bere brodini e attendere la visita di controllo. Cambiato il mondo del lavoro e la società, la convalescenza è diventato un termine desueto, antico, dal profumo stantìo.

Quando finiscono i sintomi più acuti e fastidiosi stiamo ‘meglio ma non benissimo’ e serve ancora un po’ di una medicina antica: il riposo, che è una vera e propria terapia, da affiancare ad una alimentazione leggera e ad una abbondante idratazione.

Malattie infettive, batteriche o virali, quelle che prevedono una imponente reazione infiammatoria dell’organismo, interventi chirurgici e traumi sono le condizioni che si sposano meglio con il concetto di convalescenza, facendo affidamento sulla saggezza del corpo e sulla necessità che........

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