Vedremo nelle prossime ore se e come giungerà l’attacco annunciato dall’Iran come ritorsione a quello israeliano di Damasco, in cui sono morti un alto ufficiale delle Guardie della rivoluzione e altri sei esponenti della stessa forza iraniana. Ma mentre l’imminente “minaccia” di Teheran si prende il primo posto nell’attenzione mediatica, è opportuno fare qualche passo indietro affinché la cronaca del presente non oscuri le sue cause nel passato.

Il temuto attacco dell’Iran, una reazione a un’altra azione di Israele. Innanzitutto, l’attacco che l’Iran starebbe preparando contro Israele sarebbe appunto una “ritorsione” contro un'altra azione militare che quest’ultimo non ha smentito di avere orchestrato. Un’azione che è solo il punto più alto di un’escalation di attacchi che Tel Aviv ha portato a termine contro le forze iraniane dislocate in Siria, a sostegno del presidente Bashar al Assad, non solo in questi ultimi sei mesi di guerra a Gaza, ma anche negli ultimi anni. E la gravità di quest’ultima azione, sia perché ha colpito quella che Teheran rivendica come una propria sede diplomatica sia per il grande prestigio del comandante Mohammad Reza Zahedi che vi ha perso la vita, sembra ormai costringere la leadership iraniana ad abbandonare quella “pazienza strategica” che l’ha sempre contraddistinta: ossia evitare di svolgere un ruolo diretto in relazione alla sanguinosa guerra in corso a Gaza e piuttosto affidarsi ai suoi proxy, i miliziani attori della sua strategia di “difesa avanzata” al di fuori del territorio iraniano. Anche se ognuno di questi attori - da Hezbollah in Libano alle milizie filoiraniane in Iraq fino agli Houthi in Yemen – ha una propria agenda e un più o meno accentuato margine di autonomia decisionale rispetto alla Repubblica Islamica, che pur li sostiene sul piano militare. Ma se appunto di ritorsione si tratterebbe, c’è da interrogarsi sul perché Israele abbia deciso di provocarla, creando così le condizioni per l’innescarsi di quella escalation militare su scala regionale che finora sia gli Usa che lo stesso Iran hanno voluto evitare: i primi per scongiurare un conflitto di dimensioni regionali in cui sarebbero costretti a impegnarsi militarmente in aiuto di Israele più di quanto già facciano, il secondo perché consapevole del fatto che la prima vittima di tale confronto diretto potrebbe essere proprio la Repubblica Islamica.

I tamburi di guerra e il lavoro in sordina della diplomazia. Ma i tamburi di guerra non ci devono assordare. Soprattutto se, nel sottofondo, sembra continuare a lavorare in sordina, benché freneticamente, la diplomazia. Ce lo raccontava un interessante servizio della Reuters basato su informazioni rivelate da alcune anonime fonti iraniane. Le quali evidentemente ci tenevano a far sapere al mondo che, mentre la Guida Ali Khamenei tornava ad annunciare vendetta, il ministro degli Esteri Amir Hossein Abdollahian dirigeva verso New York passando per l’Oman, per far arrivare a Washington un’ipotesi di soluzione: l’Iran era pronto a fare marcia indietro se fosse stata raggiunta una tregua permanente a Gaza. In questo modo, se le indiscrezioni sono fondate, l’Iran si mostrerebbe non solo capace di uscire dalla trappola tesa da Israele - o il rischio che l’inazione lasci il fianco scoperto ad altri affondi ostili o quello di una guerra totale - ma capace di ribaltare a suo vantaggio la situazione, facendosi artefice di quella tregua che gli Stati Uniti non sono riusciti a imporre all’alleato di Tel Aviv. Ma nella proposta di soluzione avanzata dietro alle quinte da Teheran vi sarebbe anche una ripresa di quei negoziati con gli Usa per il ritorno di Washington all’accordo sul nucleare unilateralmente abbandonato dall’amministrazione Trump. Un accordo ormai giustamente ritenuto morto e sepolto se considerato nella sua interezza (e nell’insieme dei vantaggi che avrebbe comportato, in termini di sicurezza regionale e di rafforzamento del dialogo diplomatico tra la Repubblica Islamica e l’Occidente), ma che ancora potrebbe partorire qualche frutto postumo. Così almeno potrebbe accadere se fosse guardato come occasione per la riapertura di nuovi canali negoziali, su obiettivi più circoscritti, con cui stemperare la massima tensione del presente. Vedremo se lo scenario più ottimista delineato da queste indiscrezioni reggerà la prova dei fatti nelle prossime ore. Ma certamente non nasce dal nulla, in quanto si inserisce in quel canale di dialogo informale che Teheran e Washington hanno sempre intrattenuto in questi sei mesi, trovando intese circoscritte ma efficaci proprio nella direzione del comune intento comune di scongiurare un incontrollabile conflitto regionale.

Incentivi e obiettivi mirati, una via pragmatica per l’Europa. Benché non collegata al possibile precipitare della crisi attuale, si muove in un’analoga direzione anche un’analisi di Riccardo Alcaro, coordinatore delle ricerche e responsabile del programma Attori globali dello IAI. L’articolo parte da un dato di fatto che anche in queste ultime ore, per quanto convulse possano essere, non ci possiamo dimenticare: ossia che la fine dell’accordo sul nucleare del 2015, con il ritiro unilaterale degli Usa del 2018, ha prodotto i frutti avvelenati che ci troviamo oggi tra le mani. L’Iran è ora più vicino che mai a una possibile arma nucleare; la fazione interna più moderata e pragmatica, sostenitrice dell’apertura all’Occidente, è fuori gioco; gli estremisti anti-occidentali, sia del Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica che del clero ultraconservatore, hanno preso il controllo di tutti i centri di potere; la Repubblica Islamica è diventata più repressiva in patria e più propensa a rafforzare i legami con i rivali occidentali, Cina e Russia, e a rafforzare la collaborazione militare con Mosca. Tuttavia l’Europa può ancora prendere la situazione in mano per evitare nuovi disastri e soprattutto riprendere il confronto con l’attore iraniano, con un ruolo finalmente da protagonista. La storia di questi ultimi anni ha dimostrato che le sanzioni e le fratture non sono bastate a ottenere cambiamenti di rotta delle politiche iraniane nella direzione auspicata e che il potere negoziale dell’Europa, la cui interazione economica con Teheran è ridotta al minimo, è ormai vicino allo zero. “La dura realtà è che gli europei possono sperare di ottenere qualcosa dall’Iran solo se sono disposti a mettere sul tavolo degli incentivi”, osserva Alcaro. Non si tratterebbe certo di darla vinta a Teheran sulle questioni che lo hanno allontanato dall’Europa, dalla repressione delle proteste e dalle tante violazioni dei diritti umani alla fornitura di armi a Mosca contro l’Ucraina. Ma si tratta, appunto, di approntare una strategia di incentivi limitati e calibrati, economici e non, per perseguire obiettivi altrettanto limitati. Gli obiettivi sarebbero quelli di favorire innanzitutto la popolazione iraniana, la prima a subire gli effetti delle tensioni di questi anni; sostenere il dialogo tra l’Iran e i vicini sauditi ed emiratini per la sicurezza regionale; influenzare i calcoli di Teheran sull’opportunità di inviare alla Russia sistemi d’arma più avanzati; incentivare l’Iran a non accelerare ulteriormente sul suo programma nucleare; aiutare i singoli Stati Ue nel liberare i propri cittadini eventualmente detenuti nelle carceri iraniane. Si tratterebbe dunque di una politica europea improntata a un pragmatico realismo, che punta sul confronto negoziale e non su quello delle armi. Le prossime ore decideranno anche se vi sarà margine anche per queste scelte nel prossimo futuro.

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Vedremo nelle prossime ore se e come giungerà l’attacco annunciato dall’Iran come ritorsione a quello israeliano di Damasco, in cui sono morti un alto ufficiale delle Guardie della rivoluzione e altri sei esponenti della stessa forza iraniana. Ma mentre l’imminente “minaccia” di Teheran si prende il primo posto nell’attenzione mediatica, è opportuno fare qualche passo indietro affinché la cronaca del presente non oscuri le sue cause nel passato.

Il temuto attacco dell’Iran, una reazione a un’altra azione di Israele. Innanzitutto, l’attacco che l’Iran starebbe preparando contro Israele sarebbe appunto una “ritorsione” contro un'altra azione militare che quest’ultimo non ha smentito di avere orchestrato. Un’azione che è solo il punto più alto di un’escalation di attacchi che Tel Aviv ha portato a termine contro le forze iraniane dislocate in Siria, a sostegno del presidente Bashar al Assad, non solo in questi ultimi sei mesi di guerra a Gaza, ma anche negli ultimi anni. E la gravità di quest’ultima azione, sia perché ha colpito quella che Teheran rivendica come una propria sede diplomatica sia per il grande prestigio del comandante Mohammad Reza Zahedi che vi ha perso la vita, sembra ormai costringere la leadership iraniana ad abbandonare quella “pazienza strategica” che l’ha sempre contraddistinta: ossia evitare di svolgere un ruolo diretto in relazione alla sanguinosa guerra in corso a Gaza e piuttosto affidarsi ai suoi proxy, i miliziani attori della sua strategia di “difesa avanzata” al di fuori del territorio iraniano. Anche se ognuno di questi attori - da Hezbollah in Libano alle milizie filoiraniane in Iraq fino agli Houthi in Yemen – ha una propria agenda e un più o meno accentuato margine di autonomia decisionale rispetto alla Repubblica Islamica, che pur li sostiene sul piano militare. Ma se appunto di ritorsione si tratterebbe, c’è da interrogarsi sul perché Israele abbia deciso di provocarla, creando così le condizioni per l’innescarsi di quella escalation militare su scala regionale che finora sia gli Usa che lo stesso Iran hanno voluto evitare: i primi per scongiurare un conflitto di dimensioni regionali in cui sarebbero costretti a impegnarsi militarmente in aiuto di Israele più di quanto già facciano, il secondo perché consapevole del fatto che la prima vittima di tale confronto diretto potrebbe essere proprio la Repubblica Islamica.

I tamburi di guerra e il lavoro in sordina della diplomazia. Ma i tamburi di guerra non ci devono assordare. Soprattutto se, nel sottofondo, sembra continuare a lavorare in sordina, benché freneticamente, la diplomazia. Ce lo raccontava un interessante servizio della Reuters basato su informazioni rivelate da alcune anonime fonti iraniane. Le quali evidentemente ci tenevano a far sapere al mondo che, mentre la Guida Ali Khamenei tornava ad annunciare vendetta, il ministro degli Esteri Amir Hossein Abdollahian dirigeva verso New York passando per l’Oman, per far arrivare a Washington un’ipotesi di soluzione: l’Iran era pronto a fare marcia indietro se fosse stata raggiunta una tregua permanente a Gaza. In questo modo, se le indiscrezioni sono fondate, l’Iran si mostrerebbe non solo capace di uscire dalla trappola tesa da Israele - o il rischio che l’inazione lasci il fianco scoperto ad altri affondi ostili o quello di una guerra totale - ma capace di ribaltare a suo vantaggio la situazione, facendosi artefice di quella tregua che gli Stati Uniti non sono riusciti a imporre all’alleato di Tel Aviv. Ma nella proposta di soluzione avanzata dietro alle quinte da Teheran vi sarebbe anche una ripresa di quei negoziati con gli Usa per il ritorno di Washington all’accordo sul nucleare unilateralmente abbandonato dall’amministrazione Trump. Un accordo ormai giustamente ritenuto morto e sepolto se considerato nella sua interezza (e nell’insieme dei vantaggi che avrebbe comportato, in termini di sicurezza regionale e di rafforzamento del dialogo diplomatico tra la Repubblica Islamica e l’Occidente), ma che ancora potrebbe partorire qualche frutto postumo. Così almeno potrebbe accadere se fosse guardato come occasione per la riapertura di nuovi canali negoziali, su obiettivi più circoscritti, con cui stemperare la massima tensione del presente. Vedremo se lo scenario più ottimista delineato da queste indiscrezioni reggerà la prova dei fatti nelle prossime ore. Ma certamente non nasce dal nulla, in quanto si inserisce in quel canale di dialogo informale che Teheran e Washington hanno sempre intrattenuto in questi sei mesi, trovando intese circoscritte ma efficaci proprio nella direzione del comune intento comune di scongiurare un incontrollabile conflitto regionale.

Incentivi e obiettivi mirati, una via pragmatica per l’Europa. Benché non collegata al possibile precipitare della crisi attuale, si muove in un’analoga direzione anche un’analisi di Riccardo Alcaro, coordinatore delle ricerche e responsabile del programma Attori globali dello IAI. L’articolo parte da un dato di fatto che anche in queste ultime ore, per quanto convulse possano essere, non ci possiamo dimenticare: ossia che la fine dell’accordo sul nucleare del 2015, con il ritiro unilaterale degli Usa del 2018, ha prodotto i frutti avvelenati che ci troviamo oggi tra le mani. L’Iran è ora più vicino che mai a una possibile arma nucleare; la fazione interna più moderata e pragmatica, sostenitrice dell’apertura all’Occidente, è fuori gioco; gli estremisti anti-occidentali, sia del Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica che del clero ultraconservatore, hanno preso il controllo di tutti i centri di potere; la Repubblica Islamica è diventata più repressiva in patria e più propensa a rafforzare i legami con i rivali occidentali, Cina e Russia, e a rafforzare la collaborazione militare con Mosca. Tuttavia l’Europa può ancora prendere la situazione in mano per evitare nuovi disastri e soprattutto riprendere il confronto con l’attore iraniano, con un ruolo finalmente da protagonista. La storia di questi ultimi anni ha dimostrato che le sanzioni e le fratture non sono bastate a ottenere cambiamenti di rotta delle politiche iraniane nella direzione auspicata e che il potere negoziale dell’Europa, la cui interazione economica con Teheran è ridotta al minimo, è ormai vicino allo zero. “La dura realtà è che gli europei possono sperare di ottenere qualcosa dall’Iran solo se sono disposti a mettere sul tavolo degli incentivi”, osserva Alcaro. Non si tratterebbe certo di darla vinta a Teheran sulle questioni che lo hanno allontanato dall’Europa, dalla repressione delle proteste e dalle tante violazioni dei diritti umani alla fornitura di armi a Mosca contro l’Ucraina. Ma si tratta, appunto, di approntare una strategia di incentivi limitati e calibrati, economici e non, per perseguire obiettivi altrettanto limitati. Gli obiettivi sarebbero quelli di favorire innanzitutto la popolazione iraniana, la prima a subire gli effetti delle tensioni di questi anni; sostenere il dialogo tra l’Iran e i vicini sauditi ed emiratini per la sicurezza regionale; influenzare i calcoli di Teheran sull’opportunità di inviare alla Russia sistemi d’arma più avanzati; incentivare l’Iran a non accelerare ulteriormente sul suo programma nucleare; aiutare i singoli Stati Ue nel liberare i propri cittadini eventualmente detenuti nelle carceri iraniane. Si tratterebbe dunque di una politica europea improntata a un pragmatico realismo, che punta sul confronto negoziale e non su quello delle armi. Le prossime ore decideranno anche se vi sarà margine anche per queste scelte nel prossimo futuro.

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Come si è arrivati all'attesa ritorsione dell'Iran

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12.04.2024

Vedremo nelle prossime ore se e come giungerà l’attacco annunciato dall’Iran come ritorsione a quello israeliano di Damasco, in cui sono morti un alto ufficiale delle Guardie della rivoluzione e altri sei esponenti della stessa forza iraniana. Ma mentre l’imminente “minaccia” di Teheran si prende il primo posto nell’attenzione mediatica, è opportuno fare qualche passo indietro affinché la cronaca del presente non oscuri le sue cause nel passato.

Il temuto attacco dell’Iran, una reazione a un’altra azione di Israele. Innanzitutto, l’attacco che l’Iran starebbe preparando contro Israele sarebbe appunto una “ritorsione” contro un'altra azione militare che quest’ultimo non ha smentito di avere orchestrato. Un’azione che è solo il punto più alto di un’escalation di attacchi che Tel Aviv ha portato a termine contro le forze iraniane dislocate in Siria, a sostegno del presidente Bashar al Assad, non solo in questi ultimi sei mesi di guerra a Gaza, ma anche negli ultimi anni. E la gravità di quest’ultima azione, sia perché ha colpito quella che Teheran rivendica come una propria sede diplomatica sia per il grande prestigio del comandante Mohammad Reza Zahedi che vi ha perso la vita, sembra ormai costringere la leadership iraniana ad abbandonare quella “pazienza strategica” che l’ha sempre contraddistinta: ossia evitare di svolgere un ruolo diretto in relazione alla sanguinosa guerra in corso a Gaza e piuttosto affidarsi ai suoi proxy, i miliziani attori della sua strategia di “difesa avanzata” al di fuori del territorio iraniano. Anche se ognuno di questi attori - da Hezbollah in Libano alle milizie filoiraniane in Iraq fino agli Houthi in Yemen – ha una propria agenda e un più o meno accentuato margine di autonomia decisionale rispetto alla Repubblica Islamica, che pur li sostiene sul piano militare. Ma se appunto di ritorsione si tratterebbe, c’è da interrogarsi sul perché Israele abbia deciso di provocarla, creando così le condizioni per l’innescarsi di quella escalation militare su scala regionale che finora sia gli Usa che lo stesso Iran hanno voluto evitare: i primi per scongiurare un conflitto di dimensioni regionali in cui sarebbero costretti a impegnarsi militarmente in aiuto di Israele più di quanto già facciano, il secondo perché consapevole del fatto che la prima vittima di tale confronto diretto potrebbe essere proprio la Repubblica Islamica.

I tamburi di guerra e il lavoro in sordina della diplomazia. Ma i tamburi di guerra non ci devono assordare. Soprattutto se, nel sottofondo, sembra continuare a lavorare in sordina, benché freneticamente, la diplomazia. Ce lo raccontava un interessante servizio della Reuters basato su informazioni rivelate da alcune anonime fonti iraniane. Le quali evidentemente ci tenevano a far sapere al mondo che, mentre la Guida Ali Khamenei tornava ad annunciare vendetta, il ministro degli Esteri Amir Hossein Abdollahian dirigeva verso New York passando per l’Oman, per far arrivare a Washington un’ipotesi di soluzione: l’Iran era pronto a fare marcia indietro se fosse stata raggiunta una tregua permanente a Gaza. In questo modo, se le indiscrezioni sono fondate, l’Iran si mostrerebbe non solo capace di uscire dalla trappola tesa da Israele - o il rischio che l’inazione lasci il fianco scoperto ad altri affondi ostili o quello di una guerra totale - ma capace di ribaltare a suo vantaggio la situazione, facendosi artefice di quella tregua che gli Stati Uniti non sono riusciti a imporre all’alleato di Tel Aviv. Ma nella proposta di soluzione avanzata dietro alle quinte da Teheran vi sarebbe anche una ripresa di quei negoziati con gli Usa per il ritorno di Washington all’accordo sul nucleare unilateralmente abbandonato dall’amministrazione Trump. Un accordo ormai giustamente ritenuto morto e sepolto se considerato nella sua interezza (e nell’insieme dei vantaggi che avrebbe comportato, in termini di........

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