Sì, l'ho fatto anche io. Dopo averne letto per giorni ci sono andata. Ho visto "La zona d'interesse", il film di Jonathan Glazer di cui ho sentito dire tutto e il contrario di tutto, e adesso so perché. Perché nel film interagiscono di continuo, dentro e fuori (di te), tutto e il contrario di tutto.

Per ogni luce, parola, silenzio, gesto, pane e burro, porta chiusa, cane che cammina tra le persone, sedia sul patio, corridoio (ce ne sono tantissimi, in una sola villetta monofamiliare) (ce ne sono tantissimi, in una sola storia monotona che vive tutta appoggiata su un contesto invisibile), esiste il contrario, la negazione o il rovesciamento di quello che vediamo. Solo, non lo vediamo. Lo sentiamo e lo pensiamo, ci passa dentro, con il peso aereo e persistente di tutte le centinaia di narrazioni e pellicole e scritture che, negli anni, ci hanno narrato l'inenarrabile.

Glazer chiama a raccolta tutto l'immaginario precedente, semplicemente negandolo, annullandolo, confinandolo. Dietro il muro. Così una deliziosa villetta con giardino, piscinetta e persino serra per un'armoniosa famigliola non può che essere il contrario esatto di quello che c'è appena accanto, oltre il muro: Auschwitz, che è (ancora) uno dei più potenti nomi del Male.

A cominciare dal titolo, il film è tutto giocato sulla negazione: "zona d'interesse" è lessico burocratico tedesco, e indicava, fin dal 1941, tutta l'area del campo di concentramento di Auschwitz e l’intera regione attorno. E in tutto il film, in cui non si vede un solo pigiama a righe, un solo canelupo, un solo internato coi segni della morte addosso, il cuore nero della narrazione - quello che ci portiamo tutti dentro la sala - è presente unicamente come problema burocratico e manageriale. Se non sapessimo che il protagonista Rudolf Hoss (ma non lo è davvero: nessun primo piano lo designa come tale, nessuno snodo narrativo lo mette davvero al centro) è il comandante di Auschwitz, grandemente lodato e ammirato non per la sua crudeltà ma per la sua efficienza, e la modalità industriale con cui affronta e risolve quello che è, anzitutto, un problema di logistica e di "produzione": lo sterminio di massa degli ebrei, penseremmo che è un industriale, un manager, uno che si occupa di stoccaggio merci e smaltimento scorie.

Anche in questo film (è un topos della narrazione del nazismo) c'è una seduta plenaria di alti ufficiali nazisti, con grande sfoggio di gradi e croci, che discutono della "liquidazione" dell'intera popolazione ebraica ungherese, eppure, ad ascoltarli, potrebbero essere tutti gestori di fabbriche o capannoni. La distanza è nelle parole, prima che nelle cose. La rimozione comincia da lì (e non a caso la burocrazia è un'arma di guerra: come chiamare una guerra d'aggressione "operazione speciale", come chiamare "ricerca dei terroristi" uno sterminio).

E ormai lo sanno tutti che il film (e questo, alla fine, è quasi l'unico legame col romanzo omonimo di Martin Amis da cui prende ispirazione) è interamente giocato sulla rimozione. Quello che capiamo guardandolo è la qualità attiva della rimozione, che non è assenza o passività, ma al contrario collaborazione costante, impegnativa e persino faticosa. La suocera di Hoss, nonché madre dell’orribile moglie Hedwig (Sandra Huller, che ha la giusta atonia sentimentale), per esempio non ce la fa, e a un certo punto se ne va, insalutata ospite. Ma non perché sia più umana della figlia, o colpita da quel vivere quieto e familiare, persino lieto (e profondamente noioso: la noia è una delle spiacevolezze calcolate del film, che non vuole essere compiacente in alcun modo con lo spettatore, e lo porta quasi al rifiuto, tanto è spiacevole e ostico e ineludibile), a un passo dall'inferno: solo perché non riesce a sopportarlo, quell'inferno che non resta oltre il muro. Auschwitz è un luogo anche fisicamente velenoso, con camini di rara potenza che bruciano corpi a getto continuo, pieno di fumi, ceneri, ossa e acidi che finiscono nel fiume e, sappiamo dalle cronache del tempo, odori pestilenziali per chilometri.

La forza della rimozione non è girare lo sguardo o fingere di non sentire la colonna sonora perenne - frutto di una vera e propria ricerca d'ingegneria sonora che ha richiesto molto tempo ed energie creative - che è una specie di rombo senza fine su cui ogni tanto si sollevano urla inarticolate, spari, lamenti, ma operare attivamente per negarla alla percezione, alla consapevolezza. È quello, il senso del film, e va tranquillamente anche oltre il nazismo e l'Olocausto. A me ha fatto venire in mente - tra l'altro - una spiaggia di bagnanti che prendono il sole o giocano a palla, con accanto corpi di migranti annegati coperti malamente da un telo. E ci sono almeno due guerre, in questo momento, che richiedono precise quantità di rimozione.

Nel mondo rovesciato, dove l'idillio campestre è il controcanto esatto, nello stesso luogo e tempo, della scena d'orrore, e tutto quello che avviene è nel mondo del buio (ce lo dice subito, il regista: per "entrare" nel film ci sottopone a lunghi minuti di buio assoluto - che è il contrario del cinema - e soli suoni che ci collocano, ci dicono, fanno da narrazione e guida sensoriale emozionale e concettuale, da lì in poi), c'è una sola, piccola luce (ha detto il regista che non poteva rinunciarvi, e gliene siamo grati), un gesto di umanità - l'unico che vedremo - ed è girato "al contrario", con la telecamera termica che gli conferisce un aspetto di sogno, di straniamento.

Così come, con una incursione nel presente (in realtà poco giustificata concettualmente ed esteticamente: per me è uno dei punti deboli del film), vediamo le donne delle pulizie nel "museo" del lager, dove le migliaia di scarpe, e divise, e oggetti degli ebrei sterminati sono lì, sineddoche del male, chiusi nelle vetrine, esposti a diverso genere di distanza, oggi.

Una visione fugace prima di riconsegnare quel mondo, quell'uomo non-protagonista, al buio della Storia, una scala sontuosa in discesa, dove i corpi fanno cose da corpi, si contorcono, vomitano, reagiscono, e le menti e le anime a volte non li seguono.

Usciamo dal cinema straniati, variamente feriti, con un gusto di confusa spiacevolezza in bocca. Nemmeno avessimo respirato anche noi l'aria velenosa della "zona d'interesse".

La zona d'interesse. Il tempo in cui la memoria della Shoah diventa immaginazione

di Wlodek Goldkorn

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Sì, l'ho fatto anche io. Dopo averne letto per giorni ci sono andata. Ho visto "La zona d'interesse", il film di Jonathan Glazer di cui ho sentito dire tutto e il contrario di tutto, e adesso so perché. Perché nel film interagiscono di continuo, dentro e fuori (di te), tutto e il contrario di tutto.

Per ogni luce, parola, silenzio, gesto, pane e burro, porta chiusa, cane che cammina tra le persone, sedia sul patio, corridoio (ce ne sono tantissimi, in una sola villetta monofamiliare) (ce ne sono tantissimi, in una sola storia monotona che vive tutta appoggiata su un contesto invisibile), esiste il contrario, la negazione o il rovesciamento di quello che vediamo. Solo, non lo vediamo. Lo sentiamo e lo pensiamo, ci passa dentro, con il peso aereo e persistente di tutte le centinaia di narrazioni e pellicole e scritture che, negli anni, ci hanno narrato l'inenarrabile.

Glazer chiama a raccolta tutto l'immaginario precedente, semplicemente negandolo, annullandolo, confinandolo. Dietro il muro. Così una deliziosa villetta con giardino, piscinetta e persino serra per un'armoniosa famigliola non può che essere il contrario esatto di quello che c'è appena accanto, oltre il muro: Auschwitz, che è (ancora) uno dei più potenti nomi del Male.

A cominciare dal titolo, il film è tutto giocato sulla negazione: "zona d'interesse" è lessico burocratico tedesco, e indicava, fin dal 1941, tutta l'area del campo di concentramento di Auschwitz e l’intera regione attorno. E in tutto il film, in cui non si vede un solo pigiama a righe, un solo canelupo, un solo internato coi segni della morte addosso, il cuore nero della narrazione - quello che ci portiamo tutti dentro la sala - è presente unicamente come problema burocratico e manageriale. Se non sapessimo che il protagonista Rudolf Hoss (ma non lo è davvero: nessun primo piano lo designa come tale, nessuno snodo narrativo lo mette davvero al centro) è il comandante di Auschwitz, grandemente lodato e ammirato non per la sua crudeltà ma per la sua efficienza, e la modalità industriale con cui affronta e risolve quello che è, anzitutto, un problema di logistica e di "produzione": lo sterminio di massa degli ebrei, penseremmo che è un industriale, un manager, uno che si occupa di stoccaggio merci e smaltimento scorie.

Anche in questo film (è un topos della narrazione del nazismo) c'è una seduta plenaria di alti ufficiali nazisti, con grande sfoggio di gradi e croci, che discutono della "liquidazione" dell'intera popolazione ebraica ungherese, eppure, ad ascoltarli, potrebbero essere tutti gestori di fabbriche o capannoni. La distanza è nelle parole, prima che nelle cose. La rimozione comincia da lì (e non a caso la burocrazia è un'arma di guerra: come chiamare una guerra d'aggressione "operazione speciale", come chiamare "ricerca dei terroristi" uno sterminio).

E ormai lo sanno tutti che il film (e questo, alla fine, è quasi l'unico legame col romanzo omonimo di Martin Amis da cui prende ispirazione) è interamente giocato sulla rimozione. Quello che capiamo guardandolo è la qualità attiva della rimozione, che non è assenza o passività, ma al contrario collaborazione costante, impegnativa e persino faticosa. La suocera di Hoss, nonché madre dell’orribile moglie Hedwig (Sandra Huller, che ha la giusta atonia sentimentale), per esempio non ce la fa, e a un certo punto se ne va, insalutata ospite. Ma non perché sia più umana della figlia, o colpita da quel vivere quieto e familiare, persino lieto (e profondamente noioso: la noia è una delle spiacevolezze calcolate del film, che non vuole essere compiacente in alcun modo con lo spettatore, e lo porta quasi al rifiuto, tanto è spiacevole e ostico e ineludibile), a un passo dall'inferno: solo perché non riesce a sopportarlo, quell'inferno che non resta oltre il muro. Auschwitz è un luogo anche fisicamente velenoso, con camini di rara potenza che bruciano corpi a getto continuo, pieno di fumi, ceneri, ossa e acidi che finiscono nel fiume e, sappiamo dalle cronache del tempo, odori pestilenziali per chilometri.

La forza della rimozione non è girare lo sguardo o fingere di non sentire la colonna sonora perenne - frutto di una vera e propria ricerca d'ingegneria sonora che ha richiesto molto tempo ed energie creative - che è una specie di rombo senza fine su cui ogni tanto si sollevano urla inarticolate, spari, lamenti, ma operare attivamente per negarla alla percezione, alla consapevolezza. È quello, il senso del film, e va tranquillamente anche oltre il nazismo e l'Olocausto. A me ha fatto venire in mente - tra l'altro - una spiaggia di bagnanti che prendono il sole o giocano a palla, con accanto corpi di migranti annegati coperti malamente da un telo. E ci sono almeno due guerre, in questo momento, che richiedono precise quantità di rimozione.

Nel mondo rovesciato, dove l'idillio campestre è il controcanto esatto, nello stesso luogo e tempo, della scena d'orrore, e tutto quello che avviene è nel mondo del buio (ce lo dice subito, il regista: per "entrare" nel film ci sottopone a lunghi minuti di buio assoluto - che è il contrario del cinema - e soli suoni che ci collocano, ci dicono, fanno da narrazione e guida sensoriale emozionale e concettuale, da lì in poi), c'è una sola, piccola luce (ha detto il regista che non poteva rinunciarvi, e gliene siamo grati), un gesto di umanità - l'unico che vedremo - ed è girato "al contrario", con la telecamera termica che gli conferisce un aspetto di sogno, di straniamento.

Così come, con una incursione nel presente (in realtà poco giustificata concettualmente ed esteticamente: per me è uno dei punti deboli del film), vediamo le donne delle pulizie nel "museo" del lager, dove le migliaia di scarpe, e divise, e oggetti degli ebrei sterminati sono lì, sineddoche del male, chiusi nelle vetrine, esposti a diverso genere di distanza, oggi.

Una visione fugace prima di riconsegnare quel mondo, quell'uomo non-protagonista, al buio della Storia, una scala sontuosa in discesa, dove i corpi fanno cose da corpi, si contorcono, vomitano, reagiscono, e le menti e le anime a volte non li seguono.

Usciamo dal cinema straniati, variamente feriti, con un gusto di confusa spiacevolezza in bocca. Nemmeno avessimo respirato anche noi l'aria velenosa della "zona d'interesse".

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01.03.2024

Sì, l'ho fatto anche io. Dopo averne letto per giorni ci sono andata. Ho visto "La zona d'interesse", il film di Jonathan Glazer di cui ho sentito dire tutto e il contrario di tutto, e adesso so perché. Perché nel film interagiscono di continuo, dentro e fuori (di te), tutto e il contrario di tutto.

Per ogni luce, parola, silenzio, gesto, pane e burro, porta chiusa, cane che cammina tra le persone, sedia sul patio, corridoio (ce ne sono tantissimi, in una sola villetta monofamiliare) (ce ne sono tantissimi, in una sola storia monotona che vive tutta appoggiata su un contesto invisibile), esiste il contrario, la negazione o il rovesciamento di quello che vediamo. Solo, non lo vediamo. Lo sentiamo e lo pensiamo, ci passa dentro, con il peso aereo e persistente di tutte le centinaia di narrazioni e pellicole e scritture che, negli anni, ci hanno narrato l'inenarrabile.

Glazer chiama a raccolta tutto l'immaginario precedente, semplicemente negandolo, annullandolo, confinandolo. Dietro il muro. Così una deliziosa villetta con giardino, piscinetta e persino serra per un'armoniosa famigliola non può che essere il contrario esatto di quello che c'è appena accanto, oltre il muro: Auschwitz, che è (ancora) uno dei più potenti nomi del Male.

A cominciare dal titolo, il film è tutto giocato sulla negazione: "zona d'interesse" è lessico burocratico tedesco, e indicava, fin dal 1941, tutta l'area del campo di concentramento di Auschwitz e l’intera regione attorno. E in tutto il film, in cui non si vede un solo pigiama a righe, un solo canelupo, un solo internato coi segni della morte addosso, il cuore nero della narrazione - quello che ci portiamo tutti dentro la sala - è presente unicamente come problema burocratico e manageriale. Se non sapessimo che il protagonista Rudolf Hoss (ma non lo è davvero: nessun primo piano lo designa come tale, nessuno snodo narrativo lo mette davvero al centro) è il comandante di Auschwitz, grandemente lodato e ammirato non per la sua crudeltà ma per la sua efficienza, e la modalità industriale con cui affronta e risolve quello che è, anzitutto, un problema di logistica e di "produzione": lo sterminio di massa degli ebrei, penseremmo che è un industriale, un manager, uno che si occupa di stoccaggio merci e smaltimento scorie.

Anche in questo film (è un topos della narrazione del nazismo) c'è una seduta plenaria di alti ufficiali nazisti, con grande sfoggio di gradi e croci, che discutono della "liquidazione" dell'intera popolazione ebraica ungherese, eppure, ad ascoltarli, potrebbero essere tutti gestori di fabbriche o capannoni. La distanza è nelle parole, prima che nelle cose. La rimozione comincia da lì (e non a caso la burocrazia è un'arma di guerra: come chiamare una guerra d'aggressione "operazione speciale", come chiamare "ricerca dei terroristi" uno sterminio).

E ormai lo sanno tutti che il film (e questo, alla fine, è quasi l'unico legame col romanzo omonimo di Martin Amis da cui prende ispirazione) è interamente giocato sulla rimozione. Quello che capiamo guardandolo è la qualità attiva della rimozione, che non è assenza o passività, ma al contrario collaborazione costante, impegnativa e persino faticosa. La suocera di........

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