Lo scorso ottobre ho avuto la grande fortuna di intervistare Dilek Gürsoy, cardiochirurga tedesca, di origini turche, la prima ad aver impiantato un cuore artificiale in Europa. Gürsoy da oltre un decennio è in prima linea nella ricerca sul cuore artificiale, per sviluppare una reale alternativa al trapianto, ancor più necessaria visti i bassi tassi di donazione degli organi.

Proprio per questo ha immediatamente attirato la mia attenzione un articolo sul The New York Times che raccontava di un nuovo e controverso metodo per il prelievo del cuore da donatori di organi, sì proprio da chi si è dichiarato donatore. Questo metodo ha acceso un dibattito sul confine sorprendentemente labile tra la vita e la morte in ospedale e sulla possibilità che i donatori abbiano ancora qualche traccia di coscienza o provino dolore mentre i loro organi vengono prelevati. Una vera e propria querelle che ha visto coinvolti i più importanti ospedali di New York e non solo: a favore si è dichiarato il NYU Langone Health di Manhattan, il primo ospedale degli Stati Uniti nel 2020 a sperimentare il nuovo metodo, mentre il NewYork-Presbyterian Hospital, che ha il più grande programma di trapianti di organi della città, ha bocciato la tecnica dopo che un comitato etico ha esaminato la questione.

Eppur, come sostiene il suo inventore, il Dr. Nader Moazami, se adottato su larga scala, il metodo aumenterebbe significativamente il numero di cuori disponibili per i trapianti, salvando vite umane. Infatti, oggi, la maggior parte dei cuori da trapiantare, proviene da una piccola categoria di decessi: donatori che sono stati dichiarati cerebralmente morti, spesso dopo un incidente traumatico come un incidente stradale. Ma rimangono in vita - il loro cuore batte e il loro sangue circola, portando ossigeno ai loro organi - fino a quando un'équipe di trapianti non recupera i loro organi. Con questa nuova tecnica gli organi potrebbero essere prelevati da pazienti-donatori in coma ma non in morte cerebrale, le cui famiglie hanno deciso di spegnere il supporto vitale perché le possibilità di recupero sono, di fatto, nulle. Questi donatori vengono dichiarati morti dopo che il loro cuore smette di battere, ma i loro cuori non vengono quasi mai prelevati per il trapianto perché spesso sono stati danneggiati dalla mancanza di ossigeno.

Dal punto di vista legale, esistono due parametri diversi per stabilire se una persona è morta. Oltre alla morte circolatoria (il cuore smette di battere), c’è la morte cerebrale. Una persona il cui cervello non funziona più può essere dichiarata morta anche se il suo cuore batte ancora. I nuovi potenziali donatori, invece, appartengono alla prima categoria e non sono morti cerebralmente. La nuova tecnologia si basa sul fatto che i chirurghi hanno scoperto che il ritorno del flusso sanguigno al cuore, dopo che il donatore è stato dichiarato morto, rende il cuore adatto al trapianto. Ma due aspetti di questa procedura hanno messo a disagio alcuni chirurghi e bioeticisti. Il primo problema, secondo alcuni, deriva dal modo in cui la morte è stata definita: il cuore si è fermato e la circolazione del sangue è cessata in modo irreversibile. Poiché la nuova procedura comporta il riavvio del flusso sanguigno, i critici sostengono che in sostanza invalida la precedente dichiarazione di morte. Ma questo potrebbe essere un problema minore rispetto a un ulteriore passo che i chirurghi compiono: limitano l'afflusso di sangue al cervello per prevenire la possibilità che il ‘cuore che batte di nuovo’ ripristini anche una traccia di attività cerebrale. I contrari sostengono che si tratta di una tacita ammissione che il donatore potrebbe non essere legalmente morto. “È una cosa inquietante da fare”, ha detto il dr. V. Eric Thompson, chirurgo cardiaco di lunga data e specialista in trapianti, nel corso di una tavola rotonda sulla procedura presso la Yale School of Medicine.

Il dr. Moazami, il chirurgo del NYU Langone che utilizza questa procedura, ha dichiarato che gran parte delle critiche provengono da coloro che si occupano esclusivamente di bioetica, studiosi che passano poco tempo con i pazienti che si trovano nelle liste d'attesa per il trapianto di organi e aggiunge “voi potete permettervi il lusso di interrogarvi, comodamente seduti, sull'etica di qualche cosa, ma non siete mai entrati in una stanza e vi siete trovati di fronte a un paziente con una famiglia che sta morendo, che sta aspettando un organo, e che non lo otterrà, e quel paziente morirà. Se aveste vissuto questa esperienza, non mi avreste mai che quello che sto facendo non è etico”.

Il dilemma è evidente. Le situazioni complesse. Le scelte difficili. La posizione e l’incessante ricerca di Dilek mi appaiono oggi ancora più chiare. Il cuore artificiale potrebbe giocare un ruolo da salva ‘vita e coscienze’.

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Lo scorso ottobre ho avuto la grande fortuna di intervistare Dilek Gürsoy, cardiochirurga tedesca, di origini turche, la prima ad aver impiantato un cuore artificiale in Europa. Gürsoy da oltre un decennio è in prima linea nella ricerca sul cuore artificiale, per sviluppare una reale alternativa al trapianto, ancor più necessaria visti i bassi tassi di donazione degli organi.

Proprio per questo ha immediatamente attirato la mia attenzione un articolo sul The New York Times che raccontava di un nuovo e controverso metodo per il prelievo del cuore da donatori di organi, sì proprio da chi si è dichiarato donatore. Questo metodo ha acceso un dibattito sul confine sorprendentemente labile tra la vita e la morte in ospedale e sulla possibilità che i donatori abbiano ancora qualche traccia di coscienza o provino dolore mentre i loro organi vengono prelevati. Una vera e propria querelle che ha visto coinvolti i più importanti ospedali di New York e non solo: a favore si è dichiarato il NYU Langone Health di Manhattan, il primo ospedale degli Stati Uniti nel 2020 a sperimentare il nuovo metodo, mentre il NewYork-Presbyterian Hospital, che ha il più grande programma di trapianti di organi della città, ha bocciato la tecnica dopo che un comitato etico ha esaminato la questione.

Eppur, come sostiene il suo inventore, il Dr. Nader Moazami, se adottato su larga scala, il metodo aumenterebbe significativamente il numero di cuori disponibili per i trapianti, salvando vite umane. Infatti, oggi, la maggior parte dei cuori da trapiantare, proviene da una piccola categoria di decessi: donatori che sono stati dichiarati cerebralmente morti, spesso dopo un incidente traumatico come un incidente stradale. Ma rimangono in vita - il loro cuore batte e il loro sangue circola, portando ossigeno ai loro organi - fino a quando un'équipe di trapianti non recupera i loro organi. Con questa nuova tecnica gli organi potrebbero essere prelevati da pazienti-donatori in coma ma non in morte cerebrale, le cui famiglie hanno deciso di spegnere il supporto vitale perché le possibilità di recupero sono, di fatto, nulle. Questi donatori vengono dichiarati morti dopo che il loro cuore smette di battere, ma i loro cuori non vengono quasi mai prelevati per il trapianto perché spesso sono stati danneggiati dalla mancanza di ossigeno.

Dal punto di vista legale, esistono due parametri diversi per stabilire se una persona è morta. Oltre alla morte circolatoria (il cuore smette di battere), c’è la morte cerebrale. Una persona il cui cervello non funziona più può essere dichiarata morta anche se il suo cuore batte ancora. I nuovi potenziali donatori, invece, appartengono alla prima categoria e non sono morti cerebralmente. La nuova tecnologia si basa sul fatto che i chirurghi hanno scoperto che il ritorno del flusso sanguigno al cuore, dopo che il donatore è stato dichiarato morto, rende il cuore adatto al trapianto. Ma due aspetti di questa procedura hanno messo a disagio alcuni chirurghi e bioeticisti. Il primo problema, secondo alcuni, deriva dal modo in cui la morte è stata definita: il cuore si è fermato e la circolazione del sangue è cessata in modo irreversibile. Poiché la nuova procedura comporta il riavvio del flusso sanguigno, i critici sostengono che in sostanza invalida la precedente dichiarazione di morte. Ma questo potrebbe essere un problema minore rispetto a un ulteriore passo che i chirurghi compiono: limitano l'afflusso di sangue al cervello per prevenire la possibilità che il ‘cuore che batte di nuovo’ ripristini anche una traccia di attività cerebrale. I contrari sostengono che si tratta di una tacita ammissione che il donatore potrebbe non essere legalmente morto. “È una cosa inquietante da fare”, ha detto il dr. V. Eric Thompson, chirurgo cardiaco di lunga data e specialista in trapianti, nel corso di una tavola rotonda sulla procedura presso la Yale School of Medicine.

Il dr. Moazami, il chirurgo del NYU Langone che utilizza questa procedura, ha dichiarato che gran parte delle critiche provengono da coloro che si occupano esclusivamente di bioetica, studiosi che passano poco tempo con i pazienti che si trovano nelle liste d'attesa per il trapianto di organi e aggiunge “voi potete permettervi il lusso di interrogarvi, comodamente seduti, sull'etica di qualche cosa, ma non siete mai entrati in una stanza e vi siete trovati di fronte a un paziente con una famiglia che sta morendo, che sta aspettando un organo, e che non lo otterrà, e quel paziente morirà. Se aveste vissuto questa esperienza, non mi avreste mai che quello che sto facendo non è etico”.

Il dilemma è evidente. Le situazioni complesse. Le scelte difficili. La posizione e l’incessante ricerca di Dilek mi appaiono oggi ancora più chiare. Il cuore artificiale potrebbe giocare un ruolo da salva ‘vita e coscienze’.

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Il dilemma della donazione degli organi

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06.12.2023

Lo scorso ottobre ho avuto la grande fortuna di intervistare Dilek Gürsoy, cardiochirurga tedesca, di origini turche, la prima ad aver impiantato un cuore artificiale in Europa. Gürsoy da oltre un decennio è in prima linea nella ricerca sul cuore artificiale, per sviluppare una reale alternativa al trapianto, ancor più necessaria visti i bassi tassi di donazione degli organi.

Proprio per questo ha immediatamente attirato la mia attenzione un articolo sul The New York Times che raccontava di un nuovo e controverso metodo per il prelievo del cuore da donatori di organi, sì proprio da chi si è dichiarato donatore. Questo metodo ha acceso un dibattito sul confine sorprendentemente labile tra la vita e la morte in ospedale e sulla possibilità che i donatori abbiano ancora qualche traccia di coscienza o provino dolore mentre i loro organi vengono prelevati. Una vera e propria querelle che ha visto coinvolti i più importanti ospedali di New York e non solo: a favore si è dichiarato il NYU Langone Health di Manhattan, il primo ospedale degli Stati Uniti nel 2020 a sperimentare il nuovo metodo, mentre il NewYork-Presbyterian Hospital, che ha il più grande programma di trapianti di organi della città, ha bocciato la tecnica dopo che un comitato etico ha esaminato la questione.

Eppur, come sostiene il suo inventore, il Dr. Nader Moazami, se adottato su larga scala, il metodo aumenterebbe significativamente il numero di cuori disponibili per i trapianti, salvando vite umane. Infatti, oggi, la maggior parte dei cuori da trapiantare, proviene da una piccola categoria di decessi: donatori che sono stati dichiarati cerebralmente morti, spesso dopo un incidente traumatico come un incidente stradale. Ma rimangono in vita - il loro cuore batte e il loro sangue circola, portando ossigeno ai loro organi - fino a quando un'équipe di trapianti non recupera i loro organi. Con questa nuova tecnica gli organi potrebbero essere prelevati da pazienti-donatori in coma ma non in morte cerebrale, le cui famiglie hanno deciso di spegnere il supporto vitale perché le possibilità di recupero sono, di fatto, nulle. Questi donatori vengono dichiarati morti dopo che il loro cuore smette di battere, ma i loro cuori non vengono quasi mai prelevati per il trapianto perché spesso sono stati danneggiati dalla mancanza di ossigeno.

Dal punto di vista legale, esistono due parametri diversi per stabilire se una persona è morta. Oltre alla........

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