Quando Giacomo Leopardi sedeva nel suo giardino di Recanati, si trovava di fronte la celeberrima siepe che “dell’ultimo orizzonte il guardo esclude”. Al senso di frustrazione del limite alla vista, il poeta “sedendo e mirando” rispondeva affidandosi all’immaginazione per percepire in modo diverso gli “interminati spazi” oltre quella. Un'esperienza della percezione attivata in modo sonoro, con il rumore delle piante causato dal vento. In Leopardi si intrecciano dunque la vista, strumento dominante della conoscenza (in Platone le “idee” erano “eidos”, in greco, traducibile come “ciò che si dà alla vista”, “ciò che si rende visibile”) e l’immaginazione che da sempre è una visione alternativa, capace di dare alla mente “visioni” indipendenti da ciò che è visibile, facoltà che si attiva magari proprio con un suono o con parole.

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Quando Giacomo Leopardi sedeva nel suo giardino di Recanati, si trovava di fronte la celeberrima siepe che “dell’ultimo orizzonte il guardo esclude”. Al senso di frustrazione del limite alla vista, il poeta “sedendo e mirando” rispondeva affidandosi all’immaginazione per percepire in modo diverso gli “interminati spazi” oltre quella. Un'esperienza della percezione attivata in modo sonoro, con il rumore delle piante causato dal vento. In Leopardi si intrecciano dunque la vista, strumento dominante della conoscenza (in Platone le “idee” erano “eidos”, in greco, traducibile come “ciò che si dà alla vista”, “ciò che si rende visibile”) e l’immaginazione che da sempre è una visione alternativa, capace di dare alla mente “visioni” indipendenti da ciò che è visibile, facoltà che si attiva magari proprio con un suono o con parole.

In questa radice culturale e soprattutto poetica, sta anche la ricerca che ha portato a “Le mie parole vedranno per me” uno spettacolo del regista Marco Corsucci e del drammaturgo Andrea Dante Benazzo, giovani e talentuose promesse del teatro italiano, con il quale si indaga l’universo percettivo e conoscitivo di chi è privo della vista messo in relazione con il ruolo dominante che ha per noi l’immagine, non solo per l’eredità televisiva, quella della “furia delle immagini” come la chiama Joan Fontcuberta che si traduce nella tempesta visiva dei social. Non solo, si è già compiuto un passo in più con i software della Intelligenza Artificiale capace di creare immagini del mai visto e per certi aspetti del mai immaginato.

Prodotto dal TPE teatro Astra, lo spettacolo (in scena a Torino all’interno dell’Area X, spazio polifunzionale in pieno centro, fino al 15 marzo) è nato dalla sollecitazione del direttore artistico Andrea Della Rosa che ha titolato “Cecità” la stagione 23/24. Corsucci aveva già lavorato sullo sguardo in precedenti lavori (Mine-Haha di Frank Wedekind, finalista bando College Biennale 2022 e Il Supermaschio di Alfred Jarry, premio Camilleri 2023) Per questo “Le mie parole vedranno per me” (frase chiave della tragedia di Edipo) ha deciso di partire da un lavoro documentario sulla condizione di non vedenti o ipovedenti. Ha così raccolto 70 interviste-racconto, testimonianze di un personale epos quotidiano della disabilità visiva. Nello spettacolo ne sono confluite solo alcune, quelle di Fabio Bizzotto, Marco Bongi (che è anche in scena) Angelita Cipriani, Dajana Gioffré, Eugenio Mattiazzi, Simona Tesio, Alessandra Zerbinati con i loro “aneddoti, eventi, vicende, sensazioni, percezioni, pensieri legati al proprio personale rapporto con la vista” come scrive Corsucci nelle istruzioni di drammaturgia a cui ha lavorato con Benazzo. Così Simona, guida escursionistica prima di perdere la vista, racconta di sé camminando per i boschi. Oppure Fabio, appassionato di tennis, si racconta durante un allenamento. Dajana che parla di come non concepisca la prospettiva.

Coprodotto anche con la A.P.R.I. Onlus e Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti è anche l’occasione per un’osmosi umana, solidale e conoscitiva in cui lo spettatore entra percettivamente nella dimensione di chi non vede. Seduti di fronte, al buio, gli spettatori - 20 per sera - disposti su due file ascoltano in cuffia i loro racconti (non si sa mai come maneggiare le analogie, ma innegabile la suggestione del mito omerico, dell’aedo cieco che attraversa la letteratura occidentale con Borges grande esponente del XX secolo). Le voci sono state registrate con la tecnica binaurale, ovvero con due microfoni ad alta sensibilità, posizionati in corrispondenza delle orecchie in modo da simulare l’ascolto umano, così che gli audio-spettatori possano avere una sensazione immersiva potente. Al centro siede Marco Bongi, che porta la sua esperienza di non vedente, oltre che con la sua registrazione tra le altre, anche come vera presenza: seduto a un piccolo tavolo, con un registratore con davanti un microfono e alcune cassette analogiche che in riproduzione sovrappongono altre tracce sonore a quelle dell’ambiente. Di fronte a lui una testa artificiale, sospesa dal soffitto (creata dal designer Andrea Belli e stampata in 3D dal service PolyD) usato per la registrazione ambientale.

Chi ascolta durate i 50 minuti, vive con il corpo l’esperienza del non vedere, ma più che con atti fisici, come accade a volte in altre performance o mostre dentro uno spazio di buio totale, qui è il sistema neuro-percettivo ad essere sollecitato. Il fascino sta nel fatto che per noi è anche un’esperienza similare a quella onirica, per come il suono, le parole sollecitano la memoria visiva della corteccia cerebrale). Nell’oscurità, anche se non totale, protagoniste sono le parole, primo viatico mentale per immaginare, vedere e riflettere: come si percepisce la realtà? Cosa accade a chi ha l’uso della vista e chi non ce l’ha? Che ruolo hanno per noi le immagini? Quanto sono totalizzanti (e dunque escludenti) per chi non può vederle ora e ancora di più per chi non ha mai visto dalla nascita? Corsucci sceglie di far “accedere” lo spettatore a questa dimensione, in una posizione “leopardiana” di impedimento, che nel limite apre anche le diverse possibilità di formare, nella mente di chi è in cuffia, una visione alternativa. Una sorta di distopia neurale della nostra coscienza unita a empatia verso chi vive la disabilità. Per esempio ascoltando la voce dello stesso Marco Bongi che racconta della Torino che lui ha conosciuto da vedente e di come quella memoria lo aiuti ad orientarsi bene in città, sorprendendo i suoi amici, ma di come non riesca ad avere nella mente la Torino degli ultimi anni, dopo aver perso la vista. Accade lo stesso quando ancora Simona racconta di come si percepisca ancora “giovane” nella memoria di quando si guardava allo specchio. Oggi che sono passati gli anni, vive lo slittamento dentro il piano della coscienza di sé mentre con le dita accarezza le sue rughe.

Noi li immaginiamo cercare di inventarla o in qualche modo formarla dentro la sua coscienza, magari proprio a partire dalle tracce di memoria tutta interiore precedente, per cui si viene a contatto con una forma di choc. Certo sempre considerando che chi la vive è anche in condizione di sofferenza, per lo spettatore questa povertà di esperienza costringe tuttavia a un’immersione in nuovi spazi-tempi e nuovi modi di immaginare, grazie proprio al tracciato dell’invisibilità che apprendiamo, sebbene per noi la cecità sia un’esperienza di impossibile immedesimazione, in una forma che si potrebbe definire “tell, don’t show” (col principio dello storytelling capovolto). Ascoltiamo le parole e le sollecitazioni neurali dei racconti dei non vedenti e ipovedenti, ed esse vedono per noi. Corsucci indica tre libri come punti di riferimento: Cataratta di John Berger, Blue di Derek Jarman, Citomegalovirus di Hervé Guibert, tutti diari e racconti di perdita o recupero della vista. Insomma, lo spettatore è posto nella posizione di Edipo a Colono, e nella sua e nostra cecità, passa dal racconto una più chiara visione del senso dell’ esistere, stando inclusi in una diversa abilità e trovando un punto comune attraverso l’arte. Non c’è solo però questa già importante alleanza tra corpi diversi, c’è un’espansione di significati, nelle parole, che si fanno così anche per noi “immagini fantasma”.

QOSHE - Come un’immagine fantasma. Il teatro, oltre il visibile - Mario De Santis
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Come un’immagine fantasma. Il teatro, oltre il visibile

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22.02.2024

Quando Giacomo Leopardi sedeva nel suo giardino di Recanati, si trovava di fronte la celeberrima siepe che “dell’ultimo orizzonte il guardo esclude”. Al senso di frustrazione del limite alla vista, il poeta “sedendo e mirando” rispondeva affidandosi all’immaginazione per percepire in modo diverso gli “interminati spazi” oltre quella. Un'esperienza della percezione attivata in modo sonoro, con il rumore delle piante causato dal vento. In Leopardi si intrecciano dunque la vista, strumento dominante della conoscenza (in Platone le “idee” erano “eidos”, in greco, traducibile come “ciò che si dà alla vista”, “ciò che si rende visibile”) e l’immaginazione che da sempre è una visione alternativa, capace di dare alla mente “visioni” indipendenti da ciò che è visibile, facoltà che si attiva magari proprio con un suono o con parole.

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Quando Giacomo Leopardi sedeva nel suo giardino di Recanati, si trovava di fronte la celeberrima siepe che “dell’ultimo orizzonte il guardo esclude”. Al senso di frustrazione del limite alla vista, il poeta “sedendo e mirando” rispondeva affidandosi all’immaginazione per percepire in modo diverso gli “interminati spazi” oltre quella. Un'esperienza della percezione attivata in modo sonoro, con il rumore delle piante causato dal vento. In Leopardi si intrecciano dunque la vista, strumento dominante della conoscenza (in Platone le “idee” erano “eidos”, in greco, traducibile come “ciò che si dà alla vista”, “ciò che si rende visibile”) e l’immaginazione che da sempre è una visione alternativa, capace di dare alla mente “visioni” indipendenti da ciò che è visibile, facoltà che si attiva magari proprio con un suono o con parole.

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