Dopo due anni di guerra in Ucraina e cinque mesi di massacri in Palestina, lavorare per la pace è una necessità impellente per tutti, per le vittime e per noi. Il 26 Febbraio 2022 sono scesa in piazza assieme a tantissime altre persone, per chiedere di cessare il fuoco in Ucraina, avevo con me un cartello con scritto a caratteri cubitali: “La vita è troppo breve per fare la guerra”. In media un uomo vive per ventinovemila giorni, due anni di guerra corrispondono a settecentotrenta giorni, cinque mesi di guerra a centocinquanta giorni: questi sono giorni rubati, che non torneranno mai più indietro.

Giorni che erano fatti di gioco, lavoro, studio, e di quotidianità, o forse più correttamente, di normalità. Quest’ultima, la normalità, si è persa. Ogni giorno ci vengono restituite immagini agghiaccianti, e viene subito in mente, senza volerlo, “Se questo è un uomo” di Primo Levi, e si fa sempre più presente, il pensiero che in fondo, la storia non ci abbia insegnato nulla. Scorrono di fronte ai nostri occhi immagini di bambini denutriti, madri affossate sotto le macerie, scuole distrutte, ospedali fatiscenti. Tutto questo per il potere, per la fame di controllo, di denaro e grandezza - e tutto sulla pelle di persone che hanno l’unica colpa di essere nate - perché di questo si tratta. Persone che volevano solo vivere, andare a lavoro, crescere i loro figli, persone “normali”, ma ormai la normalità è una colpa, una condanna a morte non scritta.

Non è più consentito essere normali, desiderare una vita fatta di quotidianità e affetti, la nuova concezione di normalità, voluta da chi concepisce la vita come una corsa alle conquiste territoriali, oggi condanna milioni di persone al buio e al freddo. La risposta a tutto questo dovrebbe essere un impegno serio e concreto verso dei tavoli negoziali, invece ciò che vediamo è l’uso sconsiderato e continuo di un registro bellicista, di provocazioni e uso della forza. Chiunque osi parlare di pace, viene subito etichettato come colui che vuole svendere delle nazioni, o vuole piegarsi a terroristi e dittatori, non sia mai, che chi spinge per la pace, semplicemente, voglia preservare delle vite. Quando si prova ad argomentare, rispondono che non c’è spazio per la commozione o per l’umanità, che bisogna risolvere i problemi, che la politica è una cosa seria, e altolà al populismo.

Come se battersi per la libertà dei bambini e delle loro famiglie, fosse una cosa populista e propendere per un approccio umano, fosse una cosa poco seria e della quale vergognarsi. Ancora una volta, il pensiero va subito lì, “Se questo è un uomo”. Mi viene naturale scusarmi, eppure io non ho fatto niente, noi non abbiamo fatto niente, ma chi è sopra di me e di noi non ha fatto e non sta facendo abbastanza. Mi sento complice, la verità, è che anche senza volerlo, siamo tutti complici, e una guerra sarà sempre e per sempre, un fallimento per tutti.

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Dopo due anni di guerra in Ucraina e cinque mesi di massacri in Palestina, lavorare per la pace è una necessità impellente per tutti, per le vittime e per noi. Il 26 Febbraio 2022 sono scesa in piazza assieme a tantissime altre persone, per chiedere di cessare il fuoco in Ucraina, avevo con me un cartello con scritto a caratteri cubitali: “La vita è troppo breve per fare la guerra”. In media un uomo vive per ventinovemila giorni, due anni di guerra corrispondono a settecentotrenta giorni, cinque mesi di guerra a centocinquanta giorni: questi sono giorni rubati, che non torneranno mai più indietro.

Giorni che erano fatti di gioco, lavoro, studio, e di quotidianità, o forse più correttamente, di normalità. Quest’ultima, la normalità, si è persa. Ogni giorno ci vengono restituite immagini agghiaccianti, e viene subito in mente, senza volerlo, “Se questo è un uomo” di Primo Levi, e si fa sempre più presente, il pensiero che in fondo, la storia non ci abbia insegnato nulla. Scorrono di fronte ai nostri occhi immagini di bambini denutriti, madri affossate sotto le macerie, scuole distrutte, ospedali fatiscenti. Tutto questo per il potere, per la fame di controllo, di denaro e grandezza - e tutto sulla pelle di persone che hanno l’unica colpa di essere nate - perché di questo si tratta. Persone che volevano solo vivere, andare a lavoro, crescere i loro figli, persone “normali”, ma ormai la normalità è una colpa, una condanna a morte non scritta.

Non è più consentito essere normali, desiderare una vita fatta di quotidianità e affetti, la nuova concezione di normalità, voluta da chi concepisce la vita come una corsa alle conquiste territoriali, oggi condanna milioni di persone al buio e al freddo. La risposta a tutto questo dovrebbe essere un impegno serio e concreto verso dei tavoli negoziali, invece ciò che vediamo è l’uso sconsiderato e continuo di un registro bellicista, di provocazioni e uso della forza. Chiunque osi parlare di pace, viene subito etichettato come colui che vuole svendere delle nazioni, o vuole piegarsi a terroristi e dittatori, non sia mai, che chi spinge per la pace, semplicemente, voglia preservare delle vite. Quando si prova ad argomentare, rispondono che non c’è spazio per la commozione o per l’umanità, che bisogna risolvere i problemi, che la politica è una cosa seria, e altolà al populismo.

Come se battersi per la libertà dei bambini e delle loro famiglie, fosse una cosa populista e propendere per un approccio umano, fosse una cosa poco seria e della quale vergognarsi. Ancora una volta, il pensiero va subito lì, “Se questo è un uomo”. Mi viene naturale scusarmi, eppure io non ho fatto niente, noi non abbiamo fatto niente, ma chi è sopra di me e di noi non ha fatto e non sta facendo abbastanza. Mi sento complice, la verità, è che anche senza volerlo, siamo tutti complici, e una guerra sarà sempre e per sempre, un fallimento per tutti.

QOSHE - Siamo tutti complici, e una guerra sarà sempre e per sempre, un fallimento per tutti - Marta De Vivo
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Siamo tutti complici, e una guerra sarà sempre e per sempre, un fallimento per tutti

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08.03.2024

Dopo due anni di guerra in Ucraina e cinque mesi di massacri in Palestina, lavorare per la pace è una necessità impellente per tutti, per le vittime e per noi. Il 26 Febbraio 2022 sono scesa in piazza assieme a tantissime altre persone, per chiedere di cessare il fuoco in Ucraina, avevo con me un cartello con scritto a caratteri cubitali: “La vita è troppo breve per fare la guerra”. In media un uomo vive per ventinovemila giorni, due anni di guerra corrispondono a settecentotrenta giorni, cinque mesi di guerra a centocinquanta giorni: questi sono giorni rubati, che non torneranno mai più indietro.

Giorni che erano fatti di gioco, lavoro, studio, e di quotidianità, o forse più correttamente, di normalità. Quest’ultima, la normalità, si è persa. Ogni giorno ci vengono restituite immagini agghiaccianti, e viene subito in mente, senza volerlo, “Se questo è un uomo” di Primo Levi, e si fa sempre più presente, il pensiero che in fondo, la storia non ci abbia insegnato nulla. Scorrono di fronte ai nostri occhi immagini di bambini denutriti, madri affossate sotto le macerie, scuole distrutte, ospedali fatiscenti. Tutto questo per il potere, per la fame di controllo, di denaro e grandezza - e tutto sulla pelle di persone che hanno l’unica colpa di essere nate - perché di questo si tratta. Persone che volevano solo vivere, andare a lavoro, crescere i loro figli, persone “normali”, ma ormai la normalità è una colpa, una condanna a morte non scritta.

Non è più consentito essere........

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