Molto tempo fa c’era il milione del signor Bonaventura. Era un personaggio di un ormai archeologico giornalino dei bambini, che concludeva sempre le sue avventure vincendo una cifra considerata fantasmagorica, appunto un milione. Prima ancora quel numero indicava il mitologico racconto di un esploratore veneziano del 13° secolo, che per primo ci raccontò dettagliatamente cosa ci fosse in quel lontano pianeta che era il Catai, la Cina moderna.

Oggi annoveriamo fra le figure che si identificano con l’idea di milione di Chiara Ferragni. La nota influencer -ma ancora tale?- prima ha, per sua ammissione, guadagnato fraudolentemente quella cifra in euro, e ora la offre in beneficienza per fare ammenda.

Ma il punto da discutere riguarda il fatto che una nota azienda dolciaria avrebbe retribuito una influencer con un certo seguito digitale con quella rilevante cifra per la sua, evidentemente considerata determinante, prestazione reputazionale, potremmo dire.

In sostanza la Ferragni, ma siamo già in una dimensione imponderabile, avrebbe sancito con le sue affermazioni negli spazi digitali che gestisce, il fatto che acquistare un prodotto di quell’azienda dolciaria avrebbe, oltre che gratificato il gusto, contribuito anche a un’azione buona, visto che parte degli introiti commerciali sarebbero andati a un ospedale pediatrico, cosa risultata non vera.

La parte giudiziaria della vicenda sembra a questo punto indiscutibile, per ammissione della stessa protagonista. Resta il risvolto diciamo socio commerciale: una grande azienda che spende cifre considerevoli in pubblicità e promozione, e che ha una visibilità di per sé consistente sui grandi media, ritiene essenziale poter contare sulla testimonianza di una influencer generica, ossia che si occupa dei prodotti più diversi e come tale non è certo un titolo professionale per la produzione dell’azienda dolciaria, per avvalorare la propria reputazione e far crescere la diffusione dei suoi dolci.

Questo è il tema che non viene approfondito: la prestazione in rete della Ferragni quanto ha comportato per il fatturato dell’azienda dolciaria? Quanto ha prodotto in più rispetto alle tradizionali performance commerciali indotte dalle consuete campagne pubblicitarie, oltre che dall’accreditamento storico? Insomma quel milione versato alla signora quanto ha reso e come ha potuto incrementare un valore commerciale e reputazionale che vantava già una buona aura?

Ovviamente quando entriamo nei meandri del marketing è peggio che parlare della nazionale dei calcio: tutti hanno teorie e vantano esperienze, persino il sottoscritto. Certo che sarebbe un caso di scuola capire come sia stato pianificato un investimento di tale volume e con quali riscontri.

I numeri della signora Ferragni sono notoriamente spettacolari, e si basano su un capitale fiduciario che può essere distribuito su vari target e diversi utilizzi. Ma possibile che un dolce, per altro assolutamente tradizionale quale un panettone, possa essere sospinto sul mercato dalle comparsate di un personaggio, chiunque esso sia, che ne accredita il valore sociale?

Infatti qui sta forse la ragione dell’operazione: il prodotto diventa sostenibile e socialmente positivo proprio per le sue finalità di beneficienza. Finalità che dovevano essere garantite da chi poteva mettere in gioco la fiducia raccolta negli anni precedenti. Un tale impegno che, fatti i conti, e calcolate le percentuali, che credo fossero alla base del contratto, ha reso appunto un milione di euro.

Da qui ricaviamo due lezioni: la prima che ormai ogni prodotto, come sostiene un grande guru del marketing quale Mary Adams, non coincide con il suo contenuto quanto con il suo racconto: si vendono narrazioni più che materia di qualità. E in questa conclusione troviamo solo una conferma a quanto da tempo si è consolidato nella società dell’informazione. La seconda indicazione, che invece ci pare più traballante, riguarda a questo punto in quali condizioni si trovi il profilo della nota influencer dopo tale contestazione.

Infatti se tutta la strategia si basava sulla scintillante e confermata aura fiduciaria che circondava la nostra garante dei buoni propositi dell’azienda, oggi dopo il suo riconoscimento di avere palesemente sbagliato, un errore da un milione di euro certo non una sfumatura procedurale, quale possibilità ha di riaffacciarsi sul web e continuare ad accreditare prodotti e servizi?

Insomma il capitale reputazionale può essere rinnovato una volta che viene smentito? Tecnicamente pare di no: la trasparenza è tipica di uno specchio che una volta rotto comunque deforma l’immagine. A meno che, ed è qui tutto l’arcano da verificare a questo punto, non si tratti di trasparenza ma di feticismo, ossia il valore della nostra influencer, come quello di altre figure analoghe, non sia tanto nella capacità di assicurare una qualità dell’informazione, per quanto sia chiaramente a pagamento, ma sia invece un modo per dare a quello sciame di follower che segue il personaggio, pretesti e occasioni per immedesimarsi in un’altra storia. Diciamo che gli influencer sarebbero l’equivalente dei fotoromanzi di un tempo: per quanto poco palusibili, essenziali per evadere dalla quotidianità. Ma al meno che siano a buon mercato.

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Molto tempo fa c’era il milione del signor Bonaventura. Era un personaggio di un ormai archeologico giornalino dei bambini, che concludeva sempre le sue avventure vincendo una cifra considerata fantasmagorica, appunto un milione. Prima ancora quel numero indicava il mitologico racconto di un esploratore veneziano del 13° secolo, che per primo ci raccontò dettagliatamente cosa ci fosse in quel lontano pianeta che era il Catai, la Cina moderna.

Oggi annoveriamo fra le figure che si identificano con l’idea di milione di Chiara Ferragni. La nota influencer -ma ancora tale?- prima ha, per sua ammissione, guadagnato fraudolentemente quella cifra in euro, e ora la offre in beneficienza per fare ammenda.

Ma il punto da discutere riguarda il fatto che una nota azienda dolciaria avrebbe retribuito una influencer con un certo seguito digitale con quella rilevante cifra per la sua, evidentemente considerata determinante, prestazione reputazionale, potremmo dire.

In sostanza la Ferragni, ma siamo già in una dimensione imponderabile, avrebbe sancito con le sue affermazioni negli spazi digitali che gestisce, il fatto che acquistare un prodotto di quell’azienda dolciaria avrebbe, oltre che gratificato il gusto, contribuito anche a un’azione buona, visto che parte degli introiti commerciali sarebbero andati a un ospedale pediatrico, cosa risultata non vera.

La parte giudiziaria della vicenda sembra a questo punto indiscutibile, per ammissione della stessa protagonista. Resta il risvolto diciamo socio commerciale: una grande azienda che spende cifre considerevoli in pubblicità e promozione, e che ha una visibilità di per sé consistente sui grandi media, ritiene essenziale poter contare sulla testimonianza di una influencer generica, ossia che si occupa dei prodotti più diversi e come tale non è certo un titolo professionale per la produzione dell’azienda dolciaria, per avvalorare la propria reputazione e far crescere la diffusione dei suoi dolci.

Questo è il tema che non viene approfondito: la prestazione in rete della Ferragni quanto ha comportato per il fatturato dell’azienda dolciaria? Quanto ha prodotto in più rispetto alle tradizionali performance commerciali indotte dalle consuete campagne pubblicitarie, oltre che dall’accreditamento storico? Insomma quel milione versato alla signora quanto ha reso e come ha potuto incrementare un valore commerciale e reputazionale che vantava già una buona aura?

Ovviamente quando entriamo nei meandri del marketing è peggio che parlare della nazionale dei calcio: tutti hanno teorie e vantano esperienze, persino il sottoscritto. Certo che sarebbe un caso di scuola capire come sia stato pianificato un investimento di tale volume e con quali riscontri.

I numeri della signora Ferragni sono notoriamente spettacolari, e si basano su un capitale fiduciario che può essere distribuito su vari target e diversi utilizzi. Ma possibile che un dolce, per altro assolutamente tradizionale quale un panettone, possa essere sospinto sul mercato dalle comparsate di un personaggio, chiunque esso sia, che ne accredita il valore sociale?

Infatti qui sta forse la ragione dell’operazione: il prodotto diventa sostenibile e socialmente positivo proprio per le sue finalità di beneficienza. Finalità che dovevano essere garantite da chi poteva mettere in gioco la fiducia raccolta negli anni precedenti. Un tale impegno che, fatti i conti, e calcolate le percentuali, che credo fossero alla base del contratto, ha reso appunto un milione di euro.

Da qui ricaviamo due lezioni: la prima che ormai ogni prodotto, come sostiene un grande guru del marketing quale Mary Adams, non coincide con il suo contenuto quanto con il suo racconto: si vendono narrazioni più che materia di qualità. E in questa conclusione troviamo solo una conferma a quanto da tempo si è consolidato nella società dell’informazione. La seconda indicazione, che invece ci pare più traballante, riguarda a questo punto in quali condizioni si trovi il profilo della nota influencer dopo tale contestazione.

Infatti se tutta la strategia si basava sulla scintillante e confermata aura fiduciaria che circondava la nostra garante dei buoni propositi dell’azienda, oggi dopo il suo riconoscimento di avere palesemente sbagliato, un errore da un milione di euro certo non una sfumatura procedurale, quale possibilità ha di riaffacciarsi sul web e continuare ad accreditare prodotti e servizi?

Insomma il capitale reputazionale può essere rinnovato una volta che viene smentito? Tecnicamente pare di no: la trasparenza è tipica di uno specchio che una volta rotto comunque deforma l’immagine. A meno che, ed è qui tutto l’arcano da verificare a questo punto, non si tratti di trasparenza ma di feticismo, ossia il valore della nostra influencer, come quello di altre figure analoghe, non sia tanto nella capacità di assicurare una qualità dell’informazione, per quanto sia chiaramente a pagamento, ma sia invece un modo per dare a quello sciame di follower che segue il personaggio, pretesti e occasioni per immedesimarsi in un’altra storia. Diciamo che gli influencer sarebbero l’equivalente dei fotoromanzi di un tempo: per quanto poco palusibili, essenziali per evadere dalla quotidianità. Ma al meno che siano a buon mercato.

QOSHE - Il milione della Ferragni. Cosa rimane dopo le lacrime dell’influencer? - Michele Mezza
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Il milione della Ferragni. Cosa rimane dopo le lacrime dell’influencer?

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19.12.2023

Molto tempo fa c’era il milione del signor Bonaventura. Era un personaggio di un ormai archeologico giornalino dei bambini, che concludeva sempre le sue avventure vincendo una cifra considerata fantasmagorica, appunto un milione. Prima ancora quel numero indicava il mitologico racconto di un esploratore veneziano del 13° secolo, che per primo ci raccontò dettagliatamente cosa ci fosse in quel lontano pianeta che era il Catai, la Cina moderna.

Oggi annoveriamo fra le figure che si identificano con l’idea di milione di Chiara Ferragni. La nota influencer -ma ancora tale?- prima ha, per sua ammissione, guadagnato fraudolentemente quella cifra in euro, e ora la offre in beneficienza per fare ammenda.

Ma il punto da discutere riguarda il fatto che una nota azienda dolciaria avrebbe retribuito una influencer con un certo seguito digitale con quella rilevante cifra per la sua, evidentemente considerata determinante, prestazione reputazionale, potremmo dire.

In sostanza la Ferragni, ma siamo già in una dimensione imponderabile, avrebbe sancito con le sue affermazioni negli spazi digitali che gestisce, il fatto che acquistare un prodotto di quell’azienda dolciaria avrebbe, oltre che gratificato il gusto, contribuito anche a un’azione buona, visto che parte degli introiti commerciali sarebbero andati a un ospedale pediatrico, cosa risultata non vera.

La parte giudiziaria della vicenda sembra a questo punto indiscutibile, per ammissione della stessa protagonista. Resta il risvolto diciamo socio commerciale: una grande azienda che spende cifre considerevoli in pubblicità e promozione, e che ha una visibilità di per sé consistente sui grandi media, ritiene essenziale poter contare sulla testimonianza di una influencer generica, ossia che si occupa dei prodotti più diversi e come tale non è certo un titolo professionale per la produzione dell’azienda dolciaria, per avvalorare la propria reputazione e far crescere la diffusione dei suoi dolci.

Questo è il tema che non viene approfondito: la prestazione in rete della Ferragni quanto ha comportato per il fatturato dell’azienda dolciaria? Quanto ha prodotto in più rispetto alle tradizionali performance commerciali indotte dalle consuete campagne pubblicitarie, oltre che dall’accreditamento storico? Insomma quel milione versato alla signora quanto ha reso e come ha potuto incrementare un valore commerciale e reputazionale che vantava già una buona aura?

Ovviamente quando entriamo nei meandri del marketing è peggio che parlare della nazionale dei calcio: tutti hanno teorie e vantano esperienze, persino il sottoscritto. Certo che sarebbe un caso di........

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