Dalle finestre di casa mia si vede Place Luxembourg a Bruxelles e mercoledì scorso 31 gennaio decine di trattori hanno parcheggiato intorno e dentro il piccolo parco di fronte. I miei vicini belgi (io non c’ero), tutti ferventi europeisti e tendenzialmente ecologisti sono scesi in serata armati di birre, frutta e salsicce a discutere con loro in un’atmosfera animata ma piuttosto tranquilla e alcuni agricoltori hanno anche trovato ospitalità.

Era difficile prevedere che il giorno dopo la zona, e in particolare la Place Luxembourg adiacente alla grande spianata del Parlamento, sarebbe stata il centro di azioni violente culminate con la demolizione di una delle statue rappresentante un operaio siderurgico, che si trovano sul piedistallo della statua di John Cockerill, industriale dell’acciaio celebrato per i suoi successi; successi che sono anche quelli del Belgio, che nel XIX° secolo era una delle primissime potenze economiche e industriali d’Europa. Ovviamente, dubito fortemente che qualcuno venga ritenuto responsabile dei danni; a differenza di ciò che succede con i giovani manifestanti ecologisti, gli agricoltori/trici in quanto tali godono di una notevole indulgenza da parte dei poteri pubblici, al di là dei loro metodi.

Comunque, la situazione si è tranquillizzata e i trattori sono tornati a casa, come anche in Germania e in Francia, mentre in Italia la protesta continua e pare essere stata presa in mano dal settore più radicale, capeggiato dall’ex leader dei forconi.

Possiamo in ogni caso già fare un primissimo bilancio dei risultati ottenuti dalle proteste degli agricoltori/trici che ci hanno accompagnato in questi ultimi giorni.

Le rivendicazioni dei manifestanti hanno caratteristiche diverse e punti in comune nei vari paesi.

I punti in comune sono numerosi e quasi nessuno ha davvero a che vedere con il Green deal, il grande piano della UE finalizzato a rendere l’economia e la società europee a prova di clima e individuato dalla propaganda della destra e dei settori dell’agroindustria e delle multinazionali della distribuzione come il responsabile delle difficoltà del settore agricolo. Queste hanno invece molto a che vedere con il sistema che la Politica Agricola Comune ha costruito dagli anni ’60 a oggi con regole che, dopo le riforme (o presunte tali) del novembre del 2021, erano riuscite a evitare gran parte delle disposizioni del Green Deal e che stanno sempre più nazionalizzando la gestione dei fondi.

La Politica Agricola Comune assorbe il 30% del bilancio della UE; è bene sottolineare che chi decide sui prezzi agricoli, sui prelievi, sugli aiuti e sui limiti quantitativi è il Consiglio (secondo l’art. 43 del Trattato sul funzionamento dell’Unione) e quindi dei ministri dell’Agricoltura, che agiscono da tempo in strettissima collaborazione con le potenti lobby agricole, in particolare Copa-Cogeca, dominate dall’agroindustria e dai grandi produttori e che hanno un’influenza enorme sulla Commissione e sul parlamento. In altre parole, quando si dice che a Bruxelles non si ascoltano gli operatori si dice una totale falsità. Il problema è che se ne ascoltano solo alcuni; è assolutamente vero che ci sono norme assurde (tipo quella che in tempi di siccità vieta di commercializzare frutta al di sotto di una certa misura e che determina sprechi sempre più ingenti e conseguenti riduzioni della produzione e dei profitti, vedasi il caso delle arance in Sicilia o delle pere nel ferrarese); ma il fatto che l’80% dei sussidi vada al 20% dei produttori crea degli squilibri non più sostenibili in particolare in tempi di costi crescenti per il produttore: inoltre da sempre il criterio per ottenere sussidi della PAC non è stata quella della qualità, ma la quantità, con l’indispensabile aiuto di pesticidi e fertilizzanti, spesso derivati dal petrolio, cosa che ancora oggi il settore fortemente dipendente dai combustibili fossili e dai sussidi che sono oggi sempre più un controsenso. È questo il sistema che schiaccia sempre di più i piccoli produttori e che non premia per nulla chi vorrebbe fare una scelta di sostenibilità; è questo il sistema che sta arrivando ad esaurimento e resiste furiosamente al cambiamento invece che pretendere di essere aiutato a realizzarlo.

Colpiti dalla crisi energetica e climatica e dall’aumento dei costi di produzione che non riescono a riflettere sui prezzi fatti alla grande distribuzione che li schiaccia, molti piccoli produttori si trovano a lavorare in perdita e a non vedere alcuna prospettiva di futuro. Tutto questo non c’entra assolutamente nulla con il Green Deal, come vedremo più oltre. È la PAC come ha funzionato finora, dando sussidi a chi produce di più e non puntando sulla qualità del prodotto, a non fare gli interessi degli agricoltori e le regole ambientali sono poche e piuttosto deboli. Tutti sono complici in questa situazione: tutte le forze di maggioranza, e anche il PD, hanno sempre sostenuto le decisioni e le riforme della PAC, a differenza dei Verdi, che si sono sempre battuti per una PAC che sapesse remunerare adeguatamente la qualità della produzione e dei redditi degli agricoltori/trici e il rispetto per la biodiversità e per gli animali. Perché come si sa su una terra arida non cresce nulla.

Ma torniamo alle rivendicazioni degli agricoltori e ai risultati raggiunti finora. Tra le rivendicazioni la più rilevante per la vita degli agricoltori e soprattutto i più piccoli è la questione del divario tra i prezzi che ottengono e i prezzi praticati al consumatore dalla grande distribuzione, che da qualche anno può addirittura contare su delle centrali di acquisto sovranazionali. È questo l’elemento che li mobilita praticamente tutti e che ovviamente c’entra poco con il Green Deal. La Francia ha cercato di affrontare la questione con una norma, EgaLim che ha proprio l’obiettivo di migliorare questa relazione e le remunerazioni degli agricoltori, impedisce speculazioni e vendite sottocosto. Ma le multinazionali non rispettano queste regole e fino ad ora il governo non ha reagito. Ora ha promesso di migliorare il sistema e aumentare le ispezioni, ma è chiaro che il tema non è di facile soluzione. Secondo lo scrittore ed esperto Fabio Ciconte, peraltro, alcune regole ci sono, come una direttiva del 2005 contro le pratiche sleali basterebbe applicarle, cosa che l’Italia non fa anche perché l’ha approvata in deroga.

Altro tema ricorrente, è quello del grano ucraino, soprattutto per i paesi dell’Est e in generale degli accordi di libero scambio con paesi terzi. A parte il fatto che l’agricoltura europea è la più sussidiata al mondo, con effetti distorsivi sui prezzi in particolare per i paesi in via di sviluppo, e quello europeo è quello dove è più difficile entrare, qui si vedono con chiarezza le differenze di interesse tra i vari produttori. La bilancia fra esportazioni e importazioni è eccedentaria: l'avanzo commerciale agroalimentare dell'UE ha raggiunto i 6,7 miliardi di euro nel settembre 2023, con un aumento del 18% rispetto al mese precedente. Il saldo commerciale cumulativo (da gennaio a settembre 2023) ha raggiunto i 51 miliardi di euro ed è superiore di 8,5 miliardi di euro rispetto allo stesso periodo del 2022; e i prodotti “faro” sono cereali, latticini, vino. È evidente, perciò, che il problema non è l’apertura delle frontiere in generale, che invece serve eccome in agricoltura, ma la redistribuzione dei profitti fra le filiere. Insomma, bloccare il commercio danneggerebbe soprattutto gli agricoltori/trici europei, ma i termini definiti nei trattati devono tenere conto non solo dei grandi interessi dell’agroindustria e non solo per gli europei ma anche per i paesi o regioni (tipo Mercosur) con i quali si negozia.

Altra lamentela che ritorna sempre riguarda l’obbligo di tenere il 4% della superficie non coltivato introdotta con la riforma del 2021 per ottenere i contributi: qui non si tratta di “set-aside”: si tratta di mantenere una piccola parte della superficie coltivabile per favorire la biodiversità, come si sa duramente minacciata, con siepi o altri elementi, che peraltro possono aiutare anche a gestire i rischi di erosione e a rendere il suolo più resiliente rispetto ai fenomeni estremi, dalla siccità alle inondazioni.

Di fronte alle crescenti proteste, la Commissione europea ha proposto mercoledì 31 gennaio di introdurre misure di salvaguardia per limitare le importazioni di alcuni prodotti ucraini, pur mantenendo aperto il mercato per sostenere il paese aggredito, e ha accettato la proposta della Francia di una deroga parziale agli obblighi di messa a riposo dei terreni per gli agricoltori. Infine, i pesticidi: proprio oggi la presidente della Commissione Von der Leyen ha annunciato il ritiro del regolamento sui pesticidi. Una mossa con pochi effetti concreti, dato che il regolamento era stato già respinto dal Parlamento Europeo ed era in stallo al Consiglio, ma, nonostante le parole di avvertimento che l’agricoltura dovrà comunque diventare più sostenibile, questa decisione annunciata ora è un punto a favore di chi lavora a mantenere un sistema agricolo fortemente dipendente dalla chimica e dal petrolio. Questo dei pesticidi, peraltro è un tema che va al di là del solo settore agricolo ed è stato capace di mobilitare milioni di persone in tutta Europa perché riguarda la salute di tutti e tutte, la qualità dell’aria e del suolo; la proposta di regolamento della Commissione sui pesticidi si basava su una iniziativa legislativa popolare per la riduzione della metà dell’uso dei pesticidi che era stata sostenuta da più di un milione di cittadine/i europee/i, ma era appunto già stata tolta di mezzo dalle lobby agricole e dalla destra che era riuscita a ottenere la maggioranza per respingerlo nel novembre scorso in Parlamento. Su questo come su altri temi, è chiaro che l’unica risposta è una nuova larga mobilitazione popolare e del settore più green dell’agricoltura, che ha già dimostrato che si può anche produrre in un altro modo.

Nonostante la fase più virulenta delle proteste si stia spegnendo in molti paesi– anche se vedremo che succederà in Italia, e alcuni risultati siano stati ottenuti dai manifestanti, come menzionato più sopra c’è un chiaro nemico che è stato individuato un po’ da tutti, ed è il Green deal europeo. Grazie a una propaganda disinformata e colpevole finanziata profumatamente da lobby fossili, sta insomma passando l’idea che la responsabilità del malessere agricolo riviene alle politiche introdotte per la transizione verde. Ma questa è una bufala di dimensioni ciclopiche.

Il Green deal è solo un comodo capro espiatorio e peraltro praticamente non esiste per il settore dell’Agricoltura. Vediamo perché.

Il Green Deal in agricoltura, annunciato con il simpatico nome di “dalla Fattoria alla forchetta” (From Farm to Fork) nel maggio del 2020, aveva l’obiettivo di rendere sistemi alimentari e produttivi europei più sostenibili di quanto lo siano oggi coinvolgendo l’intera filiera alimentare, dalla produzione al consumo, passando naturalmente per la distribuzione.

Purtroppo, la maggior parte del vasto programma europeo di riforma verde in agricoltura è semplicemente rimasto lettera morta, demolito con il contributo delle stesse organizzazioni e lobby che oggi guidano in molti paesi la rivolta e abilmente recuperate in chiave antieuropea dalla destra. E con sistematico impegno, le proposte della Commissione non solo sui pesticidi, ma anche sull’aumento delle coltivazioni biologiche, sul ripristino della natura, sulle emissioni industriali, sugli imballaggi, sono tutte state di molto ridimensionate e il grande problema delle emissioni agricole rimane praticamente non toccato, caso pressoché unico tra i settori produttivi. È importante precisare che tutte le norme proposte non erano basate su un’astratta ideologia, ma su accurati studi e compromessi raggiunti in lunghe consultazioni soprattutto con le categorie interessate; e tenevano conto del fatto che dall’agricoltura derivano più del 30% delle emissioni, la maggior parte dell’inquinamento da ammoniaca e che pesticidi, allevamenti e culture intensive hanno effetti gravi sulla salute, sulla qualità del cibo, sulla biodiversità. L’agricoltura insomma non è un affare di una corporazione agguerrita ma ci riguarda tutti e tutte.

Come sostengono molti agricoltori e agricoltrici che si battono da anni per una riforma della PAC, rendere l’agricoltura europea meno basata su pratiche intensive in energia, acqua, pesticidi in una parola più sostenibile, meno dipendente dalla grande distribuzione, e quindi meno industriale e più vicina al consumatore/trice è l’unico modo per salvarne la qualità e la sostenibilità economica. Ed è paradossale che quelle stesse forze che hanno contribuito a portare il sistema al suo limite si ergano oggi a paladini degli agrocoltori/trici.

Insomma, la giustificata rivolta di molti agricoltori/trici contro la PAC è stata abilmente trasformata in rivolta contro il Green Deal, in linea con gli interessi dell’agroindustria che ha guadagnato miliardi su un modello produttivista, basato su allevamenti e coltivazioni intensivi e fossili che non è più sostenibile, e della destra populista che vede nella negazione della crisi climatica e dei suoi effetti un facile modo per raccogliere consenso.

La richiesta di ottenere sempre più sussidi e di non intervenire sulla crescente difficoltà prodotta dai cambiamenti climatici (6 miliardi di danni nel 2023) agendo sulle sue cause e quindi rendendo l’agricoltura più resiliente, è quindi insostenibile per le casse pubbliche ma anche per lo stesso settore agricolo.

È un fatto dunque che la PAC debba essere riformata, anche perché l’eccessiva burocrazia favorisce intermediazioni e corporazioni, perché vige sempre, nonostante i molti tentativi di riforma, il criterio della quantità su quello della qualità e perché i molti agricoltori/trici che hanno deciso di “go green” non hanno specifici vantaggi o appoggi.

Le proteste che bloccano le nostre strade vanno perciò affrontate con ragionevolezza ed empatia perché tantissime persone non riescono più a sostenere la fatica e i costi di un’attività che è indispensabile per tutti e tutte: ma senza correre dietro alla propaganda di chi pensa che ci possa essere un’agricoltura fiorente in un ambiente distrutto e che l’agricoltura possa continuare a considerare animali e piante come ingranaggi in una fabbrica.

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Dalle finestre di casa mia si vede Place Luxembourg a Bruxelles e mercoledì scorso 31 gennaio decine di trattori hanno parcheggiato intorno e dentro il piccolo parco di fronte. I miei vicini belgi (io non c’ero), tutti ferventi europeisti e tendenzialmente ecologisti sono scesi in serata armati di birre, frutta e salsicce a discutere con loro in un’atmosfera animata ma piuttosto tranquilla e alcuni agricoltori hanno anche trovato ospitalità.

Era difficile prevedere che il giorno dopo la zona, e in particolare la Place Luxembourg adiacente alla grande spianata del Parlamento, sarebbe stata il centro di azioni violente culminate con la demolizione di una delle statue rappresentante un operaio siderurgico, che si trovano sul piedistallo della statua di John Cockerill, industriale dell’acciaio celebrato per i suoi successi; successi che sono anche quelli del Belgio, che nel XIX° secolo era una delle primissime potenze economiche e industriali d’Europa. Ovviamente, dubito fortemente che qualcuno venga ritenuto responsabile dei danni; a differenza di ciò che succede con i giovani manifestanti ecologisti, gli agricoltori/trici in quanto tali godono di una notevole indulgenza da parte dei poteri pubblici, al di là dei loro metodi.

Comunque, la situazione si è tranquillizzata e i trattori sono tornati a casa, come anche in Germania e in Francia, mentre in Italia la protesta continua e pare essere stata presa in mano dal settore più radicale, capeggiato dall’ex leader dei forconi.

Possiamo in ogni caso già fare un primissimo bilancio dei risultati ottenuti dalle proteste degli agricoltori/trici che ci hanno accompagnato in questi ultimi giorni.

Le rivendicazioni dei manifestanti hanno caratteristiche diverse e punti in comune nei vari paesi.

I punti in comune sono numerosi e quasi nessuno ha davvero a che vedere con il Green deal, il grande piano della UE finalizzato a rendere l’economia e la società europee a prova di clima e individuato dalla propaganda della destra e dei settori dell’agroindustria e delle multinazionali della distribuzione come il responsabile delle difficoltà del settore agricolo. Queste hanno invece molto a che vedere con il sistema che la Politica Agricola Comune ha costruito dagli anni ’60 a oggi con regole che, dopo le riforme (o presunte tali) del novembre del 2021, erano riuscite a evitare gran parte delle disposizioni del Green Deal e che stanno sempre più nazionalizzando la gestione dei fondi.

La Politica Agricola Comune assorbe il 30% del bilancio della UE; è bene sottolineare che chi decide sui prezzi agricoli, sui prelievi, sugli aiuti e sui limiti quantitativi è il Consiglio (secondo l’art. 43 del Trattato sul funzionamento dell’Unione) e quindi dei ministri dell’Agricoltura, che agiscono da tempo in strettissima collaborazione con le potenti lobby agricole, in particolare Copa-Cogeca, dominate dall’agroindustria e dai grandi produttori e che hanno un’influenza enorme sulla Commissione e sul parlamento. In altre parole, quando si dice che a Bruxelles non si ascoltano gli operatori si dice una totale falsità. Il problema è che se ne ascoltano solo alcuni; è assolutamente vero che ci sono norme assurde (tipo quella che in tempi di siccità vieta di commercializzare frutta al di sotto di una certa misura e che determina sprechi sempre più ingenti e conseguenti riduzioni della produzione e dei profitti, vedasi il caso delle arance in Sicilia o delle pere nel ferrarese); ma il fatto che l’80% dei sussidi vada al 20% dei produttori crea degli squilibri non più sostenibili in particolare in tempi di costi crescenti per il produttore: inoltre da sempre il criterio per ottenere sussidi della PAC non è stata quella della qualità, ma la quantità, con l’indispensabile aiuto di pesticidi e fertilizzanti, spesso derivati dal petrolio, cosa che ancora oggi il settore fortemente dipendente dai combustibili fossili e dai sussidi che sono oggi sempre più un controsenso. È questo il sistema che schiaccia sempre di più i piccoli produttori e che non premia per nulla chi vorrebbe fare una scelta di sostenibilità; è questo il sistema che sta arrivando ad esaurimento e resiste furiosamente al cambiamento invece che pretendere di essere aiutato a realizzarlo.

Colpiti dalla crisi energetica e climatica e dall’aumento dei costi di produzione che non riescono a riflettere sui prezzi fatti alla grande distribuzione che li schiaccia, molti piccoli produttori si trovano a lavorare in perdita e a non vedere alcuna prospettiva di futuro. Tutto questo non c’entra assolutamente nulla con il Green Deal, come vedremo più oltre. È la PAC come ha funzionato finora, dando sussidi a chi produce di più e non puntando sulla qualità del prodotto, a non fare gli interessi degli agricoltori e le regole ambientali sono poche e piuttosto deboli. Tutti sono complici in questa situazione: tutte le forze di maggioranza, e anche il PD, hanno sempre sostenuto le decisioni e le riforme della PAC, a differenza dei Verdi, che si sono sempre battuti per una PAC che sapesse remunerare adeguatamente la qualità della produzione e dei redditi degli agricoltori/trici e il rispetto per la biodiversità e per gli animali. Perché come si sa su una terra arida non cresce nulla.

Ma torniamo alle rivendicazioni degli agricoltori e ai risultati raggiunti finora. Tra le rivendicazioni la più rilevante per la vita degli agricoltori e soprattutto i più piccoli è la questione del divario tra i prezzi che ottengono e i prezzi praticati al consumatore dalla grande distribuzione, che da qualche anno può addirittura contare su delle centrali di acquisto sovranazionali. È questo l’elemento che li mobilita praticamente tutti e che ovviamente c’entra poco con il Green Deal. La Francia ha cercato di affrontare la questione con una norma, EgaLim che ha proprio l’obiettivo di migliorare questa relazione e le remunerazioni degli agricoltori, impedisce speculazioni e vendite sottocosto. Ma le multinazionali non rispettano queste regole e fino ad ora il governo non ha reagito. Ora ha promesso di migliorare il sistema e aumentare le ispezioni, ma è chiaro che il tema non è di facile soluzione. Secondo lo scrittore ed esperto Fabio Ciconte, peraltro, alcune regole ci sono, come una direttiva del 2005 contro le pratiche sleali basterebbe applicarle, cosa che l’Italia non fa anche perché l’ha approvata in deroga.

Altro tema ricorrente, è quello del grano ucraino, soprattutto per i paesi dell’Est e in generale degli accordi di libero scambio con paesi terzi. A parte il fatto che l’agricoltura europea è la più sussidiata al mondo, con effetti distorsivi sui prezzi in particolare per i paesi in via di sviluppo, e quello europeo è quello dove è più difficile entrare, qui si vedono con chiarezza le differenze di interesse tra i vari produttori. La bilancia fra esportazioni e importazioni è eccedentaria: l'avanzo commerciale agroalimentare dell'UE ha raggiunto i 6,7 miliardi di euro nel settembre 2023, con un aumento del 18% rispetto al mese precedente. Il saldo commerciale cumulativo (da gennaio a settembre 2023) ha raggiunto i 51 miliardi di euro ed è superiore di 8,5 miliardi di euro rispetto allo stesso periodo del 2022; e i prodotti “faro” sono cereali, latticini, vino. È evidente, perciò, che il problema non è l’apertura delle frontiere in generale, che invece serve eccome in agricoltura, ma la redistribuzione dei profitti fra le filiere. Insomma, bloccare il commercio danneggerebbe soprattutto gli agricoltori/trici europei, ma i termini definiti nei trattati devono tenere conto non solo dei grandi interessi dell’agroindustria e non solo per gli europei ma anche per i paesi o regioni (tipo Mercosur) con i quali si negozia.

Altra lamentela che ritorna sempre riguarda l’obbligo di tenere il 4% della superficie non coltivato introdotta con la riforma del 2021 per ottenere i contributi: qui non si tratta di “set-aside”: si tratta di mantenere una piccola parte della superficie coltivabile per favorire la biodiversità, come si sa duramente minacciata, con siepi o altri elementi, che peraltro possono aiutare anche a gestire i rischi di erosione e a rendere il suolo più resiliente rispetto ai fenomeni estremi, dalla siccità alle inondazioni.

Di fronte alle crescenti proteste, la Commissione europea ha proposto mercoledì 31 gennaio di introdurre misure di salvaguardia per limitare le importazioni di alcuni prodotti ucraini, pur mantenendo aperto il mercato per sostenere il paese aggredito, e ha accettato la proposta della Francia di una deroga parziale agli obblighi di messa a riposo dei terreni per gli agricoltori. Infine, i pesticidi: proprio oggi la presidente della Commissione Von der Leyen ha annunciato il ritiro del regolamento sui pesticidi. Una mossa con pochi effetti concreti, dato che il regolamento era stato già respinto dal Parlamento Europeo ed era in stallo al Consiglio, ma, nonostante le parole di avvertimento che l’agricoltura dovrà comunque diventare più sostenibile, questa decisione annunciata ora è un punto a favore di chi lavora a mantenere un sistema agricolo fortemente dipendente dalla chimica e dal petrolio. Questo dei pesticidi, peraltro è un tema che va al di là del solo settore agricolo ed è stato capace di mobilitare milioni di persone in tutta Europa perché riguarda la salute di tutti e tutte, la qualità dell’aria e del suolo; la proposta di regolamento della Commissione sui pesticidi si basava su una iniziativa legislativa popolare per la riduzione della metà dell’uso dei pesticidi che era stata sostenuta da più di un milione di cittadine/i europee/i, ma era appunto già stata tolta di mezzo dalle lobby agricole e dalla destra che era riuscita a ottenere la maggioranza per respingerlo nel novembre scorso in Parlamento. Su questo come su altri temi, è chiaro che l’unica risposta è una nuova larga mobilitazione popolare e del settore più green dell’agricoltura, che ha già dimostrato che si può anche produrre in un altro modo.

Nonostante la fase più virulenta delle proteste si stia spegnendo in molti paesi– anche se vedremo che succederà in Italia, e alcuni risultati siano stati ottenuti dai manifestanti, come menzionato più sopra c’è un chiaro nemico che è stato individuato un po’ da tutti, ed è il Green deal europeo. Grazie a una propaganda disinformata e colpevole finanziata profumatamente da lobby fossili, sta insomma passando l’idea che la responsabilità del malessere agricolo riviene alle politiche introdotte per la transizione verde. Ma questa è una bufala di dimensioni ciclopiche.

Il Green deal è solo un comodo capro espiatorio e peraltro praticamente non esiste per il settore dell’Agricoltura. Vediamo perché.

Il Green Deal in agricoltura, annunciato con il simpatico nome di “dalla Fattoria alla forchetta” (From Farm to Fork) nel maggio del 2020, aveva l’obiettivo di rendere sistemi alimentari e produttivi europei più sostenibili di quanto lo siano oggi coinvolgendo l’intera filiera alimentare, dalla produzione al consumo, passando naturalmente per la distribuzione.

Purtroppo, la maggior parte del vasto programma europeo di riforma verde in agricoltura è semplicemente rimasto lettera morta, demolito con il contributo delle stesse organizzazioni e lobby che oggi guidano in molti paesi la rivolta e abilmente recuperate in chiave antieuropea dalla destra. E con sistematico impegno, le proposte della Commissione non solo sui pesticidi, ma anche sull’aumento delle coltivazioni biologiche, sul ripristino della natura, sulle emissioni industriali, sugli imballaggi, sono tutte state di molto ridimensionate e il grande problema delle emissioni agricole rimane praticamente non toccato, caso pressoché unico tra i settori produttivi. È importante precisare che tutte le norme proposte non erano basate su un’astratta ideologia, ma su accurati studi e compromessi raggiunti in lunghe consultazioni soprattutto con le categorie interessate; e tenevano conto del fatto che dall’agricoltura derivano più del 30% delle emissioni, la maggior parte dell’inquinamento da ammoniaca e che pesticidi, allevamenti e culture intensive hanno effetti gravi sulla salute, sulla qualità del cibo, sulla biodiversità. L’agricoltura insomma non è un affare di una corporazione agguerrita ma ci riguarda tutti e tutte.

Come sostengono molti agricoltori e agricoltrici che si battono da anni per una riforma della PAC, rendere l’agricoltura europea meno basata su pratiche intensive in energia, acqua, pesticidi in una parola più sostenibile, meno dipendente dalla grande distribuzione, e quindi meno industriale e più vicina al consumatore/trice è l’unico modo per salvarne la qualità e la sostenibilità economica. Ed è paradossale che quelle stesse forze che hanno contribuito a portare il sistema al suo limite si ergano oggi a paladini degli agrocoltori/trici.

Insomma, la giustificata rivolta di molti agricoltori/trici contro la PAC è stata abilmente trasformata in rivolta contro il Green Deal, in linea con gli interessi dell’agroindustria che ha guadagnato miliardi su un modello produttivista, basato su allevamenti e coltivazioni intensivi e fossili che non è più sostenibile, e della destra populista che vede nella negazione della crisi climatica e dei suoi effetti un facile modo per raccogliere consenso.

La richiesta di ottenere sempre più sussidi e di non intervenire sulla crescente difficoltà prodotta dai cambiamenti climatici (6 miliardi di danni nel 2023) agendo sulle sue cause e quindi rendendo l’agricoltura più resiliente, è quindi insostenibile per le casse pubbliche ma anche per lo stesso settore agricolo.

È un fatto dunque che la PAC debba essere riformata, anche perché l’eccessiva burocrazia favorisce intermediazioni e corporazioni, perché vige sempre, nonostante i molti tentativi di riforma, il criterio della quantità su quello della qualità e perché i molti agricoltori/trici che hanno deciso di “go green” non hanno specifici vantaggi o appoggi.

Le proteste che bloccano le nostre strade vanno perciò affrontate con ragionevolezza ed empatia perché tantissime persone non riescono più a sostenere la fatica e i costi di un’attività che è indispensabile per tutti e tutte: ma senza correre dietro alla propaganda di chi pensa che ci possa essere un’agricoltura fiorente in un ambiente distrutto e che l’agricoltura possa continuare a considerare animali e piante come ingranaggi in una fabbrica.

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Cosa hanno ottenuto gli agricoltori finora

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07.02.2024

Dalle finestre di casa mia si vede Place Luxembourg a Bruxelles e mercoledì scorso 31 gennaio decine di trattori hanno parcheggiato intorno e dentro il piccolo parco di fronte. I miei vicini belgi (io non c’ero), tutti ferventi europeisti e tendenzialmente ecologisti sono scesi in serata armati di birre, frutta e salsicce a discutere con loro in un’atmosfera animata ma piuttosto tranquilla e alcuni agricoltori hanno anche trovato ospitalità.

Era difficile prevedere che il giorno dopo la zona, e in particolare la Place Luxembourg adiacente alla grande spianata del Parlamento, sarebbe stata il centro di azioni violente culminate con la demolizione di una delle statue rappresentante un operaio siderurgico, che si trovano sul piedistallo della statua di John Cockerill, industriale dell’acciaio celebrato per i suoi successi; successi che sono anche quelli del Belgio, che nel XIX° secolo era una delle primissime potenze economiche e industriali d’Europa. Ovviamente, dubito fortemente che qualcuno venga ritenuto responsabile dei danni; a differenza di ciò che succede con i giovani manifestanti ecologisti, gli agricoltori/trici in quanto tali godono di una notevole indulgenza da parte dei poteri pubblici, al di là dei loro metodi.

Comunque, la situazione si è tranquillizzata e i trattori sono tornati a casa, come anche in Germania e in Francia, mentre in Italia la protesta continua e pare essere stata presa in mano dal settore più radicale, capeggiato dall’ex leader dei forconi.

Possiamo in ogni caso già fare un primissimo bilancio dei risultati ottenuti dalle proteste degli agricoltori/trici che ci hanno accompagnato in questi ultimi giorni.

Le rivendicazioni dei manifestanti hanno caratteristiche diverse e punti in comune nei vari paesi.

I punti in comune sono numerosi e quasi nessuno ha davvero a che vedere con il Green deal, il grande piano della UE finalizzato a rendere l’economia e la società europee a prova di clima e individuato dalla propaganda della destra e dei settori dell’agroindustria e delle multinazionali della distribuzione come il responsabile delle difficoltà del settore agricolo. Queste hanno invece molto a che vedere con il sistema che la Politica Agricola Comune ha costruito dagli anni ’60 a oggi con regole che, dopo le riforme (o presunte tali) del novembre del 2021, erano riuscite a evitare gran parte delle disposizioni del Green Deal e che stanno sempre più nazionalizzando la gestione dei fondi.

La Politica Agricola Comune assorbe il 30% del bilancio della UE; è bene sottolineare che chi decide sui prezzi agricoli, sui prelievi, sugli aiuti e sui limiti quantitativi è il Consiglio (secondo l’art. 43 del Trattato sul funzionamento dell’Unione) e quindi dei ministri dell’Agricoltura, che agiscono da tempo in strettissima collaborazione con le potenti lobby agricole, in particolare Copa-Cogeca, dominate dall’agroindustria e dai grandi produttori e che hanno un’influenza enorme sulla Commissione e sul parlamento. In altre parole, quando si dice che a Bruxelles non si ascoltano gli operatori si dice una totale falsità. Il problema è che se ne ascoltano solo alcuni; è assolutamente vero che ci sono norme assurde (tipo quella che in tempi di siccità vieta di commercializzare frutta al di sotto di una certa misura e che determina sprechi sempre più ingenti e conseguenti riduzioni della produzione e dei profitti, vedasi il caso delle arance in Sicilia o delle pere nel ferrarese); ma il fatto che l’80% dei sussidi vada al 20% dei produttori crea degli squilibri non più sostenibili in particolare in tempi di costi crescenti per il produttore: inoltre da sempre il criterio per ottenere sussidi della PAC non è stata quella della qualità, ma la quantità, con l’indispensabile aiuto di pesticidi e fertilizzanti, spesso derivati dal petrolio, cosa che ancora oggi il settore fortemente dipendente dai combustibili fossili e dai sussidi che sono oggi sempre più un controsenso. È questo il sistema che schiaccia sempre di più i piccoli produttori e che non premia per nulla chi vorrebbe fare una scelta di sostenibilità; è questo il sistema che sta arrivando ad esaurimento e resiste furiosamente al cambiamento invece che pretendere di essere aiutato a realizzarlo.

Colpiti dalla crisi energetica e climatica e dall’aumento dei costi di produzione che non riescono a riflettere sui prezzi fatti alla grande distribuzione che li schiaccia, molti piccoli produttori si trovano a lavorare in perdita e a non vedere alcuna prospettiva di futuro. Tutto questo non c’entra assolutamente nulla con il Green Deal, come vedremo più oltre. È la PAC come ha funzionato finora, dando sussidi a chi produce di più e non puntando sulla qualità del prodotto, a non fare gli interessi degli agricoltori e le regole ambientali sono poche e piuttosto deboli. Tutti sono complici in questa situazione: tutte le forze di maggioranza, e anche il PD, hanno sempre sostenuto le decisioni e le riforme della PAC, a differenza dei Verdi, che si sono sempre battuti per una PAC che sapesse remunerare adeguatamente la qualità della produzione e dei redditi degli agricoltori/trici e il rispetto per la biodiversità e per gli animali. Perché come si sa su una terra arida non cresce nulla.

Ma torniamo alle rivendicazioni degli agricoltori e ai risultati raggiunti finora. Tra le rivendicazioni la più rilevante per la vita degli agricoltori e soprattutto i più piccoli è la questione del divario tra i prezzi che ottengono e i prezzi praticati al consumatore dalla grande distribuzione, che da qualche anno può addirittura contare su delle centrali di acquisto sovranazionali. È questo l’elemento che li mobilita praticamente tutti e che ovviamente c’entra poco con il Green Deal. La Francia ha cercato di affrontare la questione con una norma, EgaLim che ha proprio l’obiettivo di migliorare questa relazione e le remunerazioni degli agricoltori, impedisce speculazioni e vendite sottocosto. Ma le multinazionali non rispettano queste regole e fino ad ora il governo non ha reagito. Ora ha promesso di migliorare il sistema e aumentare le ispezioni, ma è chiaro che il tema non è di facile soluzione. Secondo lo scrittore ed esperto Fabio Ciconte, peraltro, alcune regole ci sono, come una direttiva del 2005 contro le pratiche sleali basterebbe applicarle, cosa che l’Italia non fa anche perché l’ha approvata in deroga.

Altro tema ricorrente, è quello del grano ucraino, soprattutto per i paesi dell’Est e in generale degli accordi di libero scambio con paesi terzi. A parte il fatto che l’agricoltura europea è la più sussidiata al mondo, con effetti distorsivi sui prezzi in particolare per i paesi in via di sviluppo, e quello europeo è quello dove è più difficile entrare, qui si vedono con chiarezza le differenze di interesse tra i vari produttori. La bilancia fra esportazioni e importazioni è eccedentaria: l'avanzo commerciale agroalimentare dell'UE ha raggiunto i 6,7 miliardi di euro nel settembre 2023, con un aumento del 18% rispetto al mese precedente. Il saldo commerciale cumulativo (da gennaio a settembre 2023) ha raggiunto i 51 miliardi di euro ed è superiore di 8,5 miliardi di euro rispetto allo stesso periodo del 2022; e i prodotti “faro” sono cereali,........

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