“It’s the economy, stupid” è una frase che è stata attribuita a James Carville, stratega della vittoriosa campagna presidenziale di Bill Clinton nel 1992. Faceva parte di un trittico di affermazioni che dovevano guidare la campagna del futuro presidente, e l’unica delle tre di cui non si è perso il ricordo. Anzi, nel tempo è diventata quasi un mantra, un imperativo per campagne politiche a ogni latitudine.

L’idea – che al tempo doveva essere piuttosto innovativa ma che oggi suona banale: ma ci arriviamo – è sostanzialmente che la gente vota con il portafogli. Che il principale motivo per cui un elettore, in particolare se non “militante” o indeciso, finirà per preferire un candidato ad un altro è la capacità di quest’ultimo di prospettare una crescita economica e quindi maggiore benessere materiale.

In effetti, sondaggi anche recenti sia qui da noi che negli Stati Uniti indicano come il primo pensiero degli elettori quando si parla di scelte politiche è l’economia e lo sviluppo. Se non che, osservando lo scenario politico internazionale, pare che ai pensieri non seguano le parole e ancor meno le azioni.

Gli Stati Uniti, per esempio, stanno attraversando un periodo di crescita economica senza precedenti o quasi. La disoccupazione è al minimo fisiologico, l’economia l’anno scorso è cresciuta del 3,1% riuscendo anche a domare la tanto temuta inflazione. I salari si sono alzati, così come la capacità di spesa dei cittadini statunitensi. Eppure.

Eppure Joe Biden, il presidente che ha governato negli ultimi quattro anni, ereditando un Paese che usciva leccandosi le ferite dalla pandemia e portandolo a crescite quasi “cinesi”, è estremamente impopolare: appena il 38% dei suoi concittadini approva il suo operato. Invece il suo prossimo sfidante per la Casa Bianca, Donald Trump, è ben visto dal 43% degli statunitensi, e di economia non parla quasi mai.

Non è un caso isolato, quello statunitense. Si guardi alla Germania, dove il partito di estrema destra AfD veleggia attorno al 24% e in alcuni lander supera il 30%. Certo, la Germania ora è in recessione, ma viene da anni di robusta crescita economica: e proprio in questi anni AfD è cresciuta e si è rinforzata.

Discorso simile per la Francia, dove il Rassemblement National di Marine LePen è in testa ai sondaggi, nonostante un presidente che – se non altro per formazione – ha sempre avuto l’economia al primo posto della sua agenda. Insomma, ovunque si guardi in Occidente si vedono società tutto sommato affluenti e in crescita, ma in preda a un crescente scontento.

La risposta a questo apparente paradosso è stata finora soprattutto una: la disuguaglianza. La ricchezza si distribuisce in maniera difforme, per cui molte persone sarebbero in difficoltà economiche anche se i dati complessivi sono positivi. Eppure, negli ultimi anni la povertà nei Paesi sviluppati è generalmente diminuita, e il reddito e la capacità di spesa del 10% meno abbiente della popolazione è rimasto perlomeno stabile. E poi, come è piuttosto noto, il voto “di protesta” viene sì tipicamente da zone più povere, ma comunque da appartenenti alla classe media.

Forse c’è qualcosa di più profondo. Forse ci siamo così abituati a pensare che il perno del patto sociale e politico delle nostre comunità sia l’economia, la capacità di generare e distribuire ricchezza, da farci sfuggire qualcosa di importante.

La frase “It’s the economy, stupid” fu coniata in un mondo che si cominciava a dire “post-storico”. Il muro di Berlino era caduto da poco, e i partiti ideologici erano ovunque in ritirata. Gli Stati Uniti in particolare stavano uscendo da una recessione, e in generale nel mondo cominciava a soffiare un vento di ottimismo e di fiducia nel futuro, per cui molti aspiravano a migliorare la propria posizione economica e sociale.

Oggi, manco a dirlo, lo scenario è molto diverso: il mondo si è fatto più litigioso e insicuro, e il futuro è diventato spaventoso. Soprattutto, oggi quello che manca a molte persone non è un reddito, ma un’idea di appartenenza e di futuro. Ciò di cui è stata davvero defraudata la classe media occidentale in questi trent’anni non è il reddito o il potere d’acquisto, ma le strutture sociali intermedie e la partecipazione a un progetto di progresso condiviso.

Non solo partiti, ma anche sindacati, club, circoli, associazioni, reti di vicinato si sono indeboliti, rimpiazzati in maniera posticcia prima da blog e forum on-line e dopo da social network e social media. Persino l’ultimo bastione di socialità, le famiglie, si sono atomizzate: ovunque aumenta il numero di single che vivono soli. Le persone si sono così trovate senza un vero senso di appartenenza ad alcuna rete sociale: connesse ma irrelate.

Ma più ancora di questo, è stata la narrazione della crescita economica e del progresso ad attrarre, tradire e poi dileggiare frotte di persone. Una narrazione di un futuro inevitabile fatto di tecnologia e alta competenza che avrebbe premiato solo i meritevoli, il cui sottotesto era che se rimani indietro hai solo te stesso da biasimare. E molti, moltissimi, sono rimasti indietro.

Isolamento e senso di inadeguatezza si sono lentamente trasformate in rabbia e voglia di rivalsa, che oggi si esprimono in un voto di protesta e lontano dalla logica economica – se non proprio alla logica tout-court. I media vecchi e nuovi con le loro “fake-news” c’entrano solo fino a un certo punto: sono stati semmai la benzina, non l’innesco. Il vero punto è che la promessa dell’economia, il patto della crescita, agli orecchi di molti non è più suadente.

Qual è questo patto? L’individuo o il cittadino lavora e rispetta le leggi, e in cambio lo Stato o la comunità gli garantiscono reddito e libertà. L’idea di fondo è che solo aumentando la ricchezza e le opportunità le persone possano essere felici e convivere pacificamente. Un assunto che ha funzionato perfettamente per diversi secoli, ma che ora si sta gradatamente rivelando inefficace.

Perché sempre più persone non sono più, come prima, in un contesto di scarsità, ma di abbondanza. Non gli mancano potere d’acquisto e opzioni di scelta, ma anzi ne hanno mediamente pure troppe. E questo non è più motivante e liberante, ma disorientante e bloccante. Di più ancora: frustrante perché spesso non si capisce l’origine di questo spaesamento.

Siamo stati talmente abituati a pensare che la strada per la felicità e la realizzazione fosse segnata dall’aumento delle ricchezze e del successo personale, che moltissime persone non riescono a identificare la vera ragione del loro malessere, che risiede piuttosto nell’isolamento sociale e nella sfiducia verso il futuro. Così pensano o perlomeno dicono di volere ciò che la crescita ha loro da offrire – più soldi, più possibilità di scelta – ma in realtà dentro di loro desiderano ardentemente appartenere, contare, costruire un futuro anche assurdo, anche pericoloso, ma di cui possono sentirsi fautori e partecipi.

ll lavoro e la legalità, quindi, perdono mordente perché non restituiscono più quello che per millenni è stata la loro ricompensa da parte delle comunità: la protezione e il senso di appartenenza. Ci siamo illusi che queste cose, nel mondo moderno, fossero scontate. Stiamo amaramente scoprendo che non è così. Chi vuole opporsi alle derive nazionaliste, populiste e autoritarie, quindi, farebbe bene a recuperare quell’antica promessa, e in fretta.

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“It’s the economy, stupid” è una frase che è stata attribuita a James Carville, stratega della vittoriosa campagna presidenziale di Bill Clinton nel 1992. Faceva parte di un trittico di affermazioni che dovevano guidare la campagna del futuro presidente, e l’unica delle tre di cui non si è perso il ricordo. Anzi, nel tempo è diventata quasi un mantra, un imperativo per campagne politiche a ogni latitudine.

L’idea – che al tempo doveva essere piuttosto innovativa ma che oggi suona banale: ma ci arriviamo – è sostanzialmente che la gente vota con il portafogli. Che il principale motivo per cui un elettore, in particolare se non “militante” o indeciso, finirà per preferire un candidato ad un altro è la capacità di quest’ultimo di prospettare una crescita economica e quindi maggiore benessere materiale.

In effetti, sondaggi anche recenti sia qui da noi che negli Stati Uniti indicano come il primo pensiero degli elettori quando si parla di scelte politiche è l’economia e lo sviluppo. Se non che, osservando lo scenario politico internazionale, pare che ai pensieri non seguano le parole e ancor meno le azioni.

Gli Stati Uniti, per esempio, stanno attraversando un periodo di crescita economica senza precedenti o quasi. La disoccupazione è al minimo fisiologico, l’economia l’anno scorso è cresciuta del 3,1% riuscendo anche a domare la tanto temuta inflazione. I salari si sono alzati, così come la capacità di spesa dei cittadini statunitensi. Eppure.

Eppure Joe Biden, il presidente che ha governato negli ultimi quattro anni, ereditando un Paese che usciva leccandosi le ferite dalla pandemia e portandolo a crescite quasi “cinesi”, è estremamente impopolare: appena il 38% dei suoi concittadini approva il suo operato. Invece il suo prossimo sfidante per la Casa Bianca, Donald Trump, è ben visto dal 43% degli statunitensi, e di economia non parla quasi mai.

Non è un caso isolato, quello statunitense. Si guardi alla Germania, dove il partito di estrema destra AfD veleggia attorno al 24% e in alcuni lander supera il 30%. Certo, la Germania ora è in recessione, ma viene da anni di robusta crescita economica: e proprio in questi anni AfD è cresciuta e si è rinforzata.

Discorso simile per la Francia, dove il Rassemblement National di Marine LePen è in testa ai sondaggi, nonostante un presidente che – se non altro per formazione – ha sempre avuto l’economia al primo posto della sua agenda. Insomma, ovunque si guardi in Occidente si vedono società tutto sommato affluenti e in crescita, ma in preda a un crescente scontento.

La risposta a questo apparente paradosso è stata finora soprattutto una: la disuguaglianza. La ricchezza si distribuisce in maniera difforme, per cui molte persone sarebbero in difficoltà economiche anche se i dati complessivi sono positivi. Eppure, negli ultimi anni la povertà nei Paesi sviluppati è generalmente diminuita, e il reddito e la capacità di spesa del 10% meno abbiente della popolazione è rimasto perlomeno stabile. E poi, come è piuttosto noto, il voto “di protesta” viene sì tipicamente da zone più povere, ma comunque da appartenenti alla classe media.

Forse c’è qualcosa di più profondo. Forse ci siamo così abituati a pensare che il perno del patto sociale e politico delle nostre comunità sia l’economia, la capacità di generare e distribuire ricchezza, da farci sfuggire qualcosa di importante.

La frase “It’s the economy, stupid” fu coniata in un mondo che si cominciava a dire “post-storico”. Il muro di Berlino era caduto da poco, e i partiti ideologici erano ovunque in ritirata. Gli Stati Uniti in particolare stavano uscendo da una recessione, e in generale nel mondo cominciava a soffiare un vento di ottimismo e di fiducia nel futuro, per cui molti aspiravano a migliorare la propria posizione economica e sociale.

Oggi, manco a dirlo, lo scenario è molto diverso: il mondo si è fatto più litigioso e insicuro, e il futuro è diventato spaventoso. Soprattutto, oggi quello che manca a molte persone non è un reddito, ma un’idea di appartenenza e di futuro. Ciò di cui è stata davvero defraudata la classe media occidentale in questi trent’anni non è il reddito o il potere d’acquisto, ma le strutture sociali intermedie e la partecipazione a un progetto di progresso condiviso.

Non solo partiti, ma anche sindacati, club, circoli, associazioni, reti di vicinato si sono indeboliti, rimpiazzati in maniera posticcia prima da blog e forum on-line e dopo da social network e social media. Persino l’ultimo bastione di socialità, le famiglie, si sono atomizzate: ovunque aumenta il numero di single che vivono soli. Le persone si sono così trovate senza un vero senso di appartenenza ad alcuna rete sociale: connesse ma irrelate.

Ma più ancora di questo, è stata la narrazione della crescita economica e del progresso ad attrarre, tradire e poi dileggiare frotte di persone. Una narrazione di un futuro inevitabile fatto di tecnologia e alta competenza che avrebbe premiato solo i meritevoli, il cui sottotesto era che se rimani indietro hai solo te stesso da biasimare. E molti, moltissimi, sono rimasti indietro.

Isolamento e senso di inadeguatezza si sono lentamente trasformate in rabbia e voglia di rivalsa, che oggi si esprimono in un voto di protesta e lontano dalla logica economica – se non proprio alla logica tout-court. I media vecchi e nuovi con le loro “fake-news” c’entrano solo fino a un certo punto: sono stati semmai la benzina, non l’innesco. Il vero punto è che la promessa dell’economia, il patto della crescita, agli orecchi di molti non è più suadente.

Qual è questo patto? L’individuo o il cittadino lavora e rispetta le leggi, e in cambio lo Stato o la comunità gli garantiscono reddito e libertà. L’idea di fondo è che solo aumentando la ricchezza e le opportunità le persone possano essere felici e convivere pacificamente. Un assunto che ha funzionato perfettamente per diversi secoli, ma che ora si sta gradatamente rivelando inefficace.

Perché sempre più persone non sono più, come prima, in un contesto di scarsità, ma di abbondanza. Non gli mancano potere d’acquisto e opzioni di scelta, ma anzi ne hanno mediamente pure troppe. E questo non è più motivante e liberante, ma disorientante e bloccante. Di più ancora: frustrante perché spesso non si capisce l’origine di questo spaesamento.

Siamo stati talmente abituati a pensare che la strada per la felicità e la realizzazione fosse segnata dall’aumento delle ricchezze e del successo personale, che moltissime persone non riescono a identificare la vera ragione del loro malessere, che risiede piuttosto nell’isolamento sociale e nella sfiducia verso il futuro. Così pensano o perlomeno dicono di volere ciò che la crescita ha loro da offrire – più soldi, più possibilità di scelta – ma in realtà dentro di loro desiderano ardentemente appartenere, contare, costruire un futuro anche assurdo, anche pericoloso, ma di cui possono sentirsi fautori e partecipi.

ll lavoro e la legalità, quindi, perdono mordente perché non restituiscono più quello che per millenni è stata la loro ricompensa da parte delle comunità: la protezione e il senso di appartenenza. Ci siamo illusi che queste cose, nel mondo moderno, fossero scontate. Stiamo amaramente scoprendo che non è così. Chi vuole opporsi alle derive nazionaliste, populiste e autoritarie, quindi, farebbe bene a recuperare quell’antica promessa, e in fretta.

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It’s not the economy, stupid. Se il patto sociale cambia e la politica non lo capisce

5 0
07.03.2024

“It’s the economy, stupid” è una frase che è stata attribuita a James Carville, stratega della vittoriosa campagna presidenziale di Bill Clinton nel 1992. Faceva parte di un trittico di affermazioni che dovevano guidare la campagna del futuro presidente, e l’unica delle tre di cui non si è perso il ricordo. Anzi, nel tempo è diventata quasi un mantra, un imperativo per campagne politiche a ogni latitudine.

L’idea – che al tempo doveva essere piuttosto innovativa ma che oggi suona banale: ma ci arriviamo – è sostanzialmente che la gente vota con il portafogli. Che il principale motivo per cui un elettore, in particolare se non “militante” o indeciso, finirà per preferire un candidato ad un altro è la capacità di quest’ultimo di prospettare una crescita economica e quindi maggiore benessere materiale.

In effetti, sondaggi anche recenti sia qui da noi che negli Stati Uniti indicano come il primo pensiero degli elettori quando si parla di scelte politiche è l’economia e lo sviluppo. Se non che, osservando lo scenario politico internazionale, pare che ai pensieri non seguano le parole e ancor meno le azioni.

Gli Stati Uniti, per esempio, stanno attraversando un periodo di crescita economica senza precedenti o quasi. La disoccupazione è al minimo fisiologico, l’economia l’anno scorso è cresciuta del 3,1% riuscendo anche a domare la tanto temuta inflazione. I salari si sono alzati, così come la capacità di spesa dei cittadini statunitensi. Eppure.

Eppure Joe Biden, il presidente che ha governato negli ultimi quattro anni, ereditando un Paese che usciva leccandosi le ferite dalla pandemia e portandolo a crescite quasi “cinesi”, è estremamente impopolare: appena il 38% dei suoi concittadini approva il suo operato. Invece il suo prossimo sfidante per la Casa Bianca, Donald Trump, è ben visto dal 43% degli statunitensi, e di economia non parla quasi mai.

Non è un caso isolato, quello statunitense. Si guardi alla Germania, dove il partito di estrema destra AfD veleggia attorno al 24% e in alcuni lander supera il 30%. Certo, la Germania ora è in recessione, ma viene da anni di robusta crescita economica: e proprio in questi anni AfD è cresciuta e si è rinforzata.

Discorso simile per la Francia, dove il Rassemblement National di Marine LePen è in testa ai sondaggi, nonostante un presidente che – se non altro per formazione – ha sempre avuto l’economia al primo posto della sua agenda. Insomma, ovunque si guardi in Occidente si vedono società tutto sommato affluenti e in crescita, ma in preda a un crescente scontento.

La risposta a questo apparente paradosso è stata finora soprattutto una: la disuguaglianza. La ricchezza si distribuisce in maniera difforme, per cui molte persone sarebbero in difficoltà economiche anche se i dati complessivi sono positivi. Eppure, negli ultimi anni la povertà nei Paesi sviluppati è generalmente diminuita, e il reddito e la capacità di spesa del 10% meno abbiente della popolazione è rimasto perlomeno stabile. E poi, come è piuttosto noto, il voto “di protesta” viene sì tipicamente da zone più povere, ma comunque da appartenenti alla classe media.

Forse c’è qualcosa di più profondo. Forse ci siamo così abituati a pensare che il perno del patto sociale e politico delle nostre comunità sia l’economia, la capacità di generare e distribuire ricchezza, da farci sfuggire qualcosa di importante.

La frase “It’s the economy, stupid” fu coniata in un mondo che si cominciava a dire “post-storico”. Il muro di Berlino era caduto da poco, e i partiti ideologici erano ovunque in ritirata. Gli Stati Uniti in particolare stavano uscendo da una recessione, e in generale nel mondo cominciava a soffiare un vento di ottimismo e di fiducia nel futuro,........

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