I dati diacronici riportati nell’ultima rilevazione di Demos e commentati da Ilvo Diamanti per La Repubblica oggi in merito ai giudizi degli italiani e delle italiane sull’Autonomia differenziata (AD) sono netti: da settembre 2023 ad oggi, i favorevoli scendono dal 51% al 44%. Perché? La ragione della tendenza è semplice: l’informazione smaschera la propaganda efficientista e fa maturare consapevolezza dei danni irreversibili della secessione di fatto. Non a caso, l’establishment leghista, guidato dal presidentissimo Zaia, da sempre presenta la partita come innovazione amministrativa ed evita accuratamente di entrare nel merito. Non a caso, secondo il DdL Calderoli, le “Intese” tra governo italiano e governi regionali, configurate come trattati tra Stati sovrani, scavalcano completamente il Parlamento. Non a caso, individuazione e introduzione dei Lep (Livelli essenziali delle prestazioni), la foglia di fico sbandierata per dare “garanzie” di equità territoriale, viene affidata a DPCM, ossia atti amministrativi, quindi, esclusi dal parere di Camera e Senato e dalla vista del presidente della Repubblica.

L’ “effetto consapevolezza” è ancora più significativo nella scomposizione per area geografica del dato nazionale: al Nord Ovest, i favorevoli all’AD calano dal 60% al 54%; rimangono in netta minoranza al Centro Nord (45%); crollano al Centro Sud e nelle Isole (al 30%), mentre si confermano in larga maggioranza soltanto nel Nord Est (63%).

In sintesi, incomincia a emergere un punto di realtà: l’AD fa male anche al Nord. Certo, sul versante della redistribuzione delle risorse pubbliche, proprio perché l’autonomismo leghista è “secessione dei ricchi” (Gianfranco Viesti), viene colto l’indubbio beneficio per Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna: la “Padania” avrebbe, in misura crescente anno dopo anno, maggiori risorse, in relazione a quelle ad esse spettanti a legislazione vigente, per finanziare le funzioni conquistate. Tuttavia, con maggiori informazioni disponibili, incomincia a essere evidente anche sopra il Po il contraccolpo (la “sòla”, direbbero a “Roma ladrona”). Vediamo perché.

Primo. Come cambierebbe la sostenibilità del nostro debito pubblico, arrivato al 140% del Pil, a garanzia del quale, in ultima analisi, vi sono i tributi erariali? Il rischio attribuito al nostro debito aumenterebbe poiché l’AD sottrarrebbe un ammontare sempre più ampio di entrate dalla disponibilità del Tesoro. I tassi di interesse sui nostri Titoli di Stato si innalzerebbero e l’innalzamento si ripercuoterebbe anche sulle condizioni finanziarie delle nostre banche. Quindi, aumenterebbe anche il costo del debito per le nostre imprese, anche per quelle del Nord, sia per il finanziamento bancario, sia per la raccolta diretta. Aumenterebbero ai i tassi sui mutui delle famiglie settentrionali. In un contesto finanziario più precario ed incerto, la domanda interna, nazionale e padana, preziosa fonte di crescita in una fase di rallentamento dell’export, ne risentirebbe.

Secondo. Veneto, Lombardia e, in larga misura Emilia-Romagna hanno sottoscritto con il governo Gentiloni, disperato per la sconfitta annunciata, in limine mortis di quest’ultimo (28 febbraio 2018), pre-Intese nelle quali vengono attribuite loro tutte le 23 materie attribuibili. Vuol dire che, con l’AD, diventerebbero competenza esclusiva regionale materie decisive per l’attività produttiva e per i consumi sulle quali oggi lo Stato ha oggi competenza legislativa esclusiva o, almeno, concorrente. Per esempio: tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali; tutela e sicurezza sul lavoro; professioni; alimentazione; ordinamento della comunicazione; previdenza complementare ed integrativa. In sostanza, si moltiplicherebbero per 20 le norme da conoscere ed ottemperare per un’impresa presente in più Regioni o con vendite dei suoi prodotti in tutta l’Italia. Un incubo, un’escalation di costi amministrativi e economici. Uno scenario impossibile per i più piccoli.

Terzo. Con l’approvazione del DdL Calderoli passerebbero a esclusiva competenza delle Regioni anche ricerca scientifica e tecnologica, grandi reti nazionali di trasporto e navigazione, produzione, trasporto e distribuzione nazionale di energia e commercio con l’estero. Sono attività ad altissimo assorbimento di risorse finanziarie e segnate da ampie economie di scala. Qui, anche le dotazioni delle Regioni più forti rappresenterebbero una frazione delle risorse mobilitate dagli Stati nazionali comparabili a noi. Qui, i tempi di realizzazione delle opere multiregionali, come sono le infrastrutture per l’energia o la mobilità, già ora lunghi, si aggraverebbero: si dovrebbero mettere d’accordo tutti i Presidenti dei territori interessati e differenziare i progetti a seconda delle diverse normative territoriali. Sul commercio estero, avremmo un puzzle ancor più imbarazzante dell’attuale con una miriade di più o meno piccole ed irrilevanti presenze istituzionali.

Quarto. Ha ricevuto poca attenzione, con la meritoria eccezione dell’Ufficio Parlamentare di Bilancio (audizione del 1° febbraio scorso dedicata ai Lep), ma l’inclusione tra le richieste di Veneto, Lombardia e Emilia-Romagna del coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario dovrebbe preoccupare anche i Comuni del Nord e le relative Aree Metropolitane e Province, a maggior ragione in quanto materia esclusa dal perimetro dei Lep, quindi senza livelli minimi garantiti. Le richieste implicano la costituzione, in ciascuna delle “Regioni differenziate”, di due fondi regionali -uno a favore dei Comuni ed uno a favore delle Città Metropolitane e delle Province- ma in assenza di criteri di riparto delle risorse. Mentre oggi tali enti territoriali ricevono trasferimenti dal Bilancio dello Stato in base a parametri nazionali chiari, domani sarebbero soggetti, anche per le funzioni fondamentali trasferite, alla totale discrezionalità del Presidente della Regione. Insomma, la municipalità, carattere identitario della storia istituzionale, democratica e politica italiana, settentrionale in particolare, verrebbe umiliata nella totale subalternità all’esecutivo regionale.

Infine, ma non ultimo per rilevanza, c’è il nodo politico. Quale peso politico può avere intorno ai tavoli di Bruxelles, del G7, del G20, nelle relazioni internazionali bilaterali un presidente del Consiglio di una “Repubblica Arlecchino”, ancora più diseguale, quindi più debole ed anemica in termini di crescita potenziale, dove le poche leve di politica economica rimaste a scala nazionale sono controllate dai Presidenti delle Regioni? Attenzione: le grandi opzioni di politica economica si decidono intorno a quei tavoli, non a Venezia, a Milano o a Bologna. Gli interessi delle nostre imprese, grandi e piccole, perderebbero tutela a vantaggio dei loro competitor oltre confine. In un quadro di AD, un presidente del Consiglio italiano come avrebbe potuto impegnarsi per il PNRR, considerato che non avrebbe più avuto alcuna competenza legislativa sulla stragrande maggioranza delle materie oggetto dei finanziamenti (dall’ambiente alla ricerca scientifica e tecnologica, dalle grandi reti nazionali di trasporto e navigazione alla produzione, trasporto e distribuzione nazionale di energia)? L’elezione diretta del Premier, il cosiddetto “premierato”, emarginerebbe ancor di più il Parlamento e ridurrebbe il presidente della Repubblica ad una funzione meramente notarile, ma non farebbe recuperare a Palazzo Chigi nessuno dei poteri trasferiti alle Regioni a maggior capacità economica: il premier plebiscitato sarebbe il capo supremo delle forze armate, ma sulla politica economica regnerebbe, senza governare.

Colpisce il silenzio delle associazioni di rappresentanza delle imprese. Attenzione: le politiche pubbliche nazionali tornano di primaria rilevanza per la competitività. Nella Ue, non si aprono spazi. Anzi, la direzione di marcia è piuttosto in senso contrario, come dimostra l’allentamento della disciplina sugli aiuti di Stato per consentire di finanziare programmi nazionali e, simmetricamente, la diffusa e radicata indisponibilità degli Stati membri ad un significativo incremento del bilancio comune.

In conclusione, l’AD è un pessimo affare anche per “i ricchi” padani: sarebbero più ricchi, ma ancora più deboli e a servizio dei grandi Stati nazionali europei. Ne parleremo sabato 24 febbraio alla Camera del Lavoro di Milano in un incontro promosso dal Tavolo NoAD.

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I dati diacronici riportati nell’ultima rilevazione di Demos e commentati da Ilvo Diamanti per La Repubblica oggi in merito ai giudizi degli italiani e delle italiane sull’Autonomia differenziata (AD) sono netti: da settembre 2023 ad oggi, i favorevoli scendono dal 51% al 44%. Perché? La ragione della tendenza è semplice: l’informazione smaschera la propaganda efficientista e fa maturare consapevolezza dei danni irreversibili della secessione di fatto. Non a caso, l’establishment leghista, guidato dal presidentissimo Zaia, da sempre presenta la partita come innovazione amministrativa ed evita accuratamente di entrare nel merito. Non a caso, secondo il DdL Calderoli, le “Intese” tra governo italiano e governi regionali, configurate come trattati tra Stati sovrani, scavalcano completamente il Parlamento. Non a caso, individuazione e introduzione dei Lep (Livelli essenziali delle prestazioni), la foglia di fico sbandierata per dare “garanzie” di equità territoriale, viene affidata a DPCM, ossia atti amministrativi, quindi, esclusi dal parere di Camera e Senato e dalla vista del presidente della Repubblica.

L’ “effetto consapevolezza” è ancora più significativo nella scomposizione per area geografica del dato nazionale: al Nord Ovest, i favorevoli all’AD calano dal 60% al 54%; rimangono in netta minoranza al Centro Nord (45%); crollano al Centro Sud e nelle Isole (al 30%), mentre si confermano in larga maggioranza soltanto nel Nord Est (63%).

In sintesi, incomincia a emergere un punto di realtà: l’AD fa male anche al Nord. Certo, sul versante della redistribuzione delle risorse pubbliche, proprio perché l’autonomismo leghista è “secessione dei ricchi” (Gianfranco Viesti), viene colto l’indubbio beneficio per Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna: la “Padania” avrebbe, in misura crescente anno dopo anno, maggiori risorse, in relazione a quelle ad esse spettanti a legislazione vigente, per finanziare le funzioni conquistate. Tuttavia, con maggiori informazioni disponibili, incomincia a essere evidente anche sopra il Po il contraccolpo (la “sòla”, direbbero a “Roma ladrona”). Vediamo perché.

Primo. Come cambierebbe la sostenibilità del nostro debito pubblico, arrivato al 140% del Pil, a garanzia del quale, in ultima analisi, vi sono i tributi erariali? Il rischio attribuito al nostro debito aumenterebbe poiché l’AD sottrarrebbe un ammontare sempre più ampio di entrate dalla disponibilità del Tesoro. I tassi di interesse sui nostri Titoli di Stato si innalzerebbero e l’innalzamento si ripercuoterebbe anche sulle condizioni finanziarie delle nostre banche. Quindi, aumenterebbe anche il costo del debito per le nostre imprese, anche per quelle del Nord, sia per il finanziamento bancario, sia per la raccolta diretta. Aumenterebbero ai i tassi sui mutui delle famiglie settentrionali. In un contesto finanziario più precario ed incerto, la domanda interna, nazionale e padana, preziosa fonte di crescita in una fase di rallentamento dell’export, ne risentirebbe.

Secondo. Veneto, Lombardia e, in larga misura Emilia-Romagna hanno sottoscritto con il governo Gentiloni, disperato per la sconfitta annunciata, in limine mortis di quest’ultimo (28 febbraio 2018), pre-Intese nelle quali vengono attribuite loro tutte le 23 materie attribuibili. Vuol dire che, con l’AD, diventerebbero competenza esclusiva regionale materie decisive per l’attività produttiva e per i consumi sulle quali oggi lo Stato ha oggi competenza legislativa esclusiva o, almeno, concorrente. Per esempio: tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali; tutela e sicurezza sul lavoro; professioni; alimentazione; ordinamento della comunicazione; previdenza complementare ed integrativa. In sostanza, si moltiplicherebbero per 20 le norme da conoscere ed ottemperare per un’impresa presente in più Regioni o con vendite dei suoi prodotti in tutta l’Italia. Un incubo, un’escalation di costi amministrativi e economici. Uno scenario impossibile per i più piccoli.

Terzo. Con l’approvazione del DdL Calderoli passerebbero a esclusiva competenza delle Regioni anche ricerca scientifica e tecnologica, grandi reti nazionali di trasporto e navigazione, produzione, trasporto e distribuzione nazionale di energia e commercio con l’estero. Sono attività ad altissimo assorbimento di risorse finanziarie e segnate da ampie economie di scala. Qui, anche le dotazioni delle Regioni più forti rappresenterebbero una frazione delle risorse mobilitate dagli Stati nazionali comparabili a noi. Qui, i tempi di realizzazione delle opere multiregionali, come sono le infrastrutture per l’energia o la mobilità, già ora lunghi, si aggraverebbero: si dovrebbero mettere d’accordo tutti i Presidenti dei territori interessati e differenziare i progetti a seconda delle diverse normative territoriali. Sul commercio estero, avremmo un puzzle ancor più imbarazzante dell’attuale con una miriade di più o meno piccole ed irrilevanti presenze istituzionali.

Quarto. Ha ricevuto poca attenzione, con la meritoria eccezione dell’Ufficio Parlamentare di Bilancio (audizione del 1° febbraio scorso dedicata ai Lep), ma l’inclusione tra le richieste di Veneto, Lombardia e Emilia-Romagna del coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario dovrebbe preoccupare anche i Comuni del Nord e le relative Aree Metropolitane e Province, a maggior ragione in quanto materia esclusa dal perimetro dei Lep, quindi senza livelli minimi garantiti. Le richieste implicano la costituzione, in ciascuna delle “Regioni differenziate”, di due fondi regionali -uno a favore dei Comuni ed uno a favore delle Città Metropolitane e delle Province- ma in assenza di criteri di riparto delle risorse. Mentre oggi tali enti territoriali ricevono trasferimenti dal Bilancio dello Stato in base a parametri nazionali chiari, domani sarebbero soggetti, anche per le funzioni fondamentali trasferite, alla totale discrezionalità del Presidente della Regione. Insomma, la municipalità, carattere identitario della storia istituzionale, democratica e politica italiana, settentrionale in particolare, verrebbe umiliata nella totale subalternità all’esecutivo regionale.

Infine, ma non ultimo per rilevanza, c’è il nodo politico. Quale peso politico può avere intorno ai tavoli di Bruxelles, del G7, del G20, nelle relazioni internazionali bilaterali un presidente del Consiglio di una “Repubblica Arlecchino”, ancora più diseguale, quindi più debole ed anemica in termini di crescita potenziale, dove le poche leve di politica economica rimaste a scala nazionale sono controllate dai Presidenti delle Regioni? Attenzione: le grandi opzioni di politica economica si decidono intorno a quei tavoli, non a Venezia, a Milano o a Bologna. Gli interessi delle nostre imprese, grandi e piccole, perderebbero tutela a vantaggio dei loro competitor oltre confine. In un quadro di AD, un presidente del Consiglio italiano come avrebbe potuto impegnarsi per il PNRR, considerato che non avrebbe più avuto alcuna competenza legislativa sulla stragrande maggioranza delle materie oggetto dei finanziamenti (dall’ambiente alla ricerca scientifica e tecnologica, dalle grandi reti nazionali di trasporto e navigazione alla produzione, trasporto e distribuzione nazionale di energia)? L’elezione diretta del Premier, il cosiddetto “premierato”, emarginerebbe ancor di più il Parlamento e ridurrebbe il presidente della Repubblica ad una funzione meramente notarile, ma non farebbe recuperare a Palazzo Chigi nessuno dei poteri trasferiti alle Regioni a maggior capacità economica: il premier plebiscitato sarebbe il capo supremo delle forze armate, ma sulla politica economica regnerebbe, senza governare.

Colpisce il silenzio delle associazioni di rappresentanza delle imprese. Attenzione: le politiche pubbliche nazionali tornano di primaria rilevanza per la competitività. Nella Ue, non si aprono spazi. Anzi, la direzione di marcia è piuttosto in senso contrario, come dimostra l’allentamento della disciplina sugli aiuti di Stato per consentire di finanziare programmi nazionali e, simmetricamente, la diffusa e radicata indisponibilità degli Stati membri ad un significativo incremento del bilancio comune.

In conclusione, l’AD è un pessimo affare anche per “i ricchi” padani: sarebbero più ricchi, ma ancora più deboli e a servizio dei grandi Stati nazionali europei. Ne parleremo sabato 24 febbraio alla Camera del Lavoro di Milano in un incontro promosso dal Tavolo NoAD.

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Autonomia differenziata, se la conosci, la eviti (anche al Nord)

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19.02.2024

I dati diacronici riportati nell’ultima rilevazione di Demos e commentati da Ilvo Diamanti per La Repubblica oggi in merito ai giudizi degli italiani e delle italiane sull’Autonomia differenziata (AD) sono netti: da settembre 2023 ad oggi, i favorevoli scendono dal 51% al 44%. Perché? La ragione della tendenza è semplice: l’informazione smaschera la propaganda efficientista e fa maturare consapevolezza dei danni irreversibili della secessione di fatto. Non a caso, l’establishment leghista, guidato dal presidentissimo Zaia, da sempre presenta la partita come innovazione amministrativa ed evita accuratamente di entrare nel merito. Non a caso, secondo il DdL Calderoli, le “Intese” tra governo italiano e governi regionali, configurate come trattati tra Stati sovrani, scavalcano completamente il Parlamento. Non a caso, individuazione e introduzione dei Lep (Livelli essenziali delle prestazioni), la foglia di fico sbandierata per dare “garanzie” di equità territoriale, viene affidata a DPCM, ossia atti amministrativi, quindi, esclusi dal parere di Camera e Senato e dalla vista del presidente della Repubblica.

L’ “effetto consapevolezza” è ancora più significativo nella scomposizione per area geografica del dato nazionale: al Nord Ovest, i favorevoli all’AD calano dal 60% al 54%; rimangono in netta minoranza al Centro Nord (45%); crollano al Centro Sud e nelle Isole (al 30%), mentre si confermano in larga maggioranza soltanto nel Nord Est (63%).

In sintesi, incomincia a emergere un punto di realtà: l’AD fa male anche al Nord. Certo, sul versante della redistribuzione delle risorse pubbliche, proprio perché l’autonomismo leghista è “secessione dei ricchi” (Gianfranco Viesti), viene colto l’indubbio beneficio per Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna: la “Padania” avrebbe, in misura crescente anno dopo anno, maggiori risorse, in relazione a quelle ad esse spettanti a legislazione vigente, per finanziare le funzioni conquistate. Tuttavia, con maggiori informazioni disponibili, incomincia a essere evidente anche sopra il Po il contraccolpo (la “sòla”, direbbero a “Roma ladrona”). Vediamo perché.

Primo. Come cambierebbe la sostenibilità del nostro debito pubblico, arrivato al 140% del Pil, a garanzia del quale, in ultima analisi, vi sono i tributi erariali? Il rischio attribuito al nostro debito aumenterebbe poiché l’AD sottrarrebbe un ammontare sempre più ampio di entrate dalla disponibilità del Tesoro. I tassi di interesse sui nostri Titoli di Stato si innalzerebbero e l’innalzamento si ripercuoterebbe anche sulle condizioni finanziarie delle nostre banche. Quindi, aumenterebbe anche il costo del debito per le nostre imprese, anche per quelle del Nord, sia per il finanziamento bancario, sia per la raccolta diretta. Aumenterebbero ai i tassi sui mutui delle famiglie settentrionali. In un contesto finanziario più precario ed incerto, la domanda interna, nazionale e padana, preziosa fonte di crescita in una fase di rallentamento dell’export, ne risentirebbe.

Secondo. Veneto, Lombardia e, in larga misura Emilia-Romagna hanno sottoscritto con il governo Gentiloni, disperato per la sconfitta annunciata, in limine mortis di quest’ultimo (28 febbraio 2018), pre-Intese nelle quali vengono attribuite loro tutte le 23 materie attribuibili. Vuol dire che, con l’AD, diventerebbero competenza esclusiva regionale materie decisive per l’attività produttiva e per i consumi sulle quali oggi lo Stato ha oggi competenza legislativa esclusiva o, almeno, concorrente. Per esempio: tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali; tutela e sicurezza sul lavoro; professioni; alimentazione; ordinamento della comunicazione; previdenza complementare ed integrativa. In sostanza, si moltiplicherebbero per 20 le norme da conoscere ed ottemperare per un’impresa presente in più Regioni o con vendite dei suoi prodotti in tutta l’Italia. Un incubo, un’escalation di costi amministrativi e economici. Uno scenario impossibile per i più piccoli.

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