Le coccole delle destre nazionaliste non dovrebbero essere condizione sufficiente per esorcizzare gli agricoltori sulle strade europee con i loro trattori come corporativi, regressivi, “sovranisti”, “populisti”, l’ennesima reincarnazione di Ned Ludd contro la modernità ed il progresso. Al contrario, proprio per non lasciare un altro corpo sociale in sofferenza agli avvoltoi politici, sarebbe utile provare a capire le cause delle mobilitazioni e valutarle seriamente. Anche perché i trattori fuori campo sono rappresentativi di ansie economiche e identitarie profonde e diffuse tra le classi medie. La lettura facile facile è certamente consolatoria, ma fuorviante. Il consueto suprematismo intellettuale dei “progressisti” oltremodo stupido.

Le proteste hanno certamente ragioni diverse, ma hanno una duplice radice comune: da un lato, l’iniquità della concorrenza intra ed extra-Ue, sempre più grave a causa delle sempre più stringenti regolazioni della Politica Agricola Comune; dall’altro, la paura del cambiamento senza adeguata valutazione etica e governo politico dell’innovazione tecnologica (ad es., la “carne” coltivata e, da ultimo, la deregulation degli OGM ottenuti con le New Genomic Tecniques, votata dalla Commissione Ambiente del Parlamento europeo, nonostante le denunce di una larghissima coalizione di organizzazioni non soltanto di agricoltori, ma di associazioni ambientaliste e di consumatori). Qui, oggi, affrontiamo soltanto il primo lato. I cantori delle virtù “magnifiche e progressive” del libero mercato, così adorati dalla sinistra storica, dovrebbero incominciare a riconoscere che le condizioni previste dai manuali di Economia 1, affinché la concorrenza promuova benefici per il “consumatore”, nel mercato globale non sussistono e sussistono ancor meno nel mercato comune europeo.

La strategia ‘farm to fork’ avviata dalla Commissione europea nel 2020 è politicamente corretta ai fini della conversione ecologica, ma aggrava la disparità di condizioni produttive tra le imprese agricole dell’Ue e quelle fuori dall’Ue, meno zavorrate da standard sociali e ambientali, restrizioni, adempimenti e costi economici e amministrativi. Ieri, qui, nel colloquio con Alfonso Raimo, Danilo Calvani, uno dei leader del C.R.A. (Comitati Riuniti Agricoli-Agricoltori traditi) rileva: “Hanno fatto accordi con i paesi del Nord Africa, li chiamano corridoi verdi, con questi accordi arriva nel nostro paese in maniera massiccia una produzione ottenuta con presidi sanitari vietati in Italia da 40 anni”.

Al Financial Times, sempre ieri, dai farmers in piazza a Bruxelles arriva un messaggio analogo: “rabbia verso la strategia ‘farm-to-fork’ e altre regolamentazioni che penalizzano la competitività nei confronti delle importazioni, in un quadro aggravato dall’inflazione e da eventi meteorologici estremi”. Tale problema generale di unfair competition si è acuito violentemente con le agevolazioni riconosciute all’Ucraina dopo l’invasione dalla Federazione Russa. La rimozione dei dazi sul grano di Kiev ha fatto arrivare nell’Unione europea valanghe di prodotto a prezzi impossibili per i nostri agricoltori. Per ridurre lo svantaggio dei “nostri”, non va fermata la difficile conversione ecologica, ma è necessario innalzare le tariffe, in sintonia protettiva con il border adjustment mechanism, il dazio previsto a difesa delle nostre produzioni green di acciaio. L’Ucraina non la abbandoniamo, ma la solidarietà la mettiamo a carico di tutti i cittadini europei, non soltanto degli agricoltori, per esempio attraverso l’acquisto di quel grano da parte della Commissione per donarlo alle nazioni africane allo stremo. Altrimenti, il level playing field, caro ai sacerdoti liberali, non c’è e i nostri agricoltori vanno fuori mercato o vedono immiserirsi i margini di profitto. Qualche mese fa, erano i camionisti delle nazioni confinanti con l’Ucraina a bloccare i valichi di frontiera a causa dell’arrivo degli auto-trasportatori di Kiev autorizzati a svolgere servizi intra-Ue liberi dalle prescrizioni della Direttiva Mobility package. Oggi, ad essi si associano disperati gli agricoltori degli stessi Stati.

Problema analogo, ma in forma più acuta, segna il mercato interno, il mitico single european market. Attanaglia da circa 20 anni, ossia dall’allargamento dell’Ue agli Stati dell’Est, gli agricoltori, come ogni altro settore produttivo, della “vecchia Europa”. Non a caso i trattori invadono le strade tedesche, francesi, belghe e anche italiane, nonostante qui l’importazione del grano ucraino rilevi poco. L’ulteriore allargamento rende il problema ancora più angosciante per chi già lo vive e lo prospetta per chi, arrivato nel 2004 e nel 2007, ha fatto e continua a fare dumping fiscale e sociale. Lo ha sintetizzato Vincenzo Savignano, corrispondente da Berlino di Avvenire: “Gran parte dei contadini tedeschi, soprattutto chi proviene dai lander orientali più poveri, protesta anche per l’imposizione nel settore agricolo di un salario minimo di 12,41 euro lordi l’ora, che per i lavoratori specializzati, può salire a 17,29 euro lordi. Si tratta di costi molto elevati rispetto alle aziende agricole dei paesi dell’Europa dell’Est…”. Il punto è piuttosto semplice: se vuoi un salario minimo decente, non puoi continuare a far entrare nell’Unione e nel suo mercato Stati dove il salario medio è 5 euro l’ora.

Insomma, il problema non è la concorrenza. Il problema è la concorrenza sleale alimentata dal mercato unico europeo, in aggiunta alla concorrenza sleale spinta dal mercato globale. La risposta non è l’autarchia nazionale o l’exit dall’Ue. Ma non è neppure la scomunica dei rivoltosi in nome di un astratto europeismo e cosmopolitismo. La risposta è una regolazione fair, equa, dei movimenti dei capitali, merci, servizi e persone, innanzitutto in casa, attraverso la correzione di direttive cardinali e lo stop all’Ue a 36. Prima che la destra nazionalista arrivi a dominare ovunque, forse sindacati e sinistra dovrebbero incominciare ad affrontare il nodo. Il dilemma è sempre più visibile: democrazia vs regolazione liberista della vita.

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Le coccole delle destre nazionaliste non dovrebbero essere condizione sufficiente per esorcizzare gli agricoltori sulle strade europee con i loro trattori come corporativi, regressivi, “sovranisti”, “populisti”, l’ennesima reincarnazione di Ned Ludd contro la modernità ed il progresso. Al contrario, proprio per non lasciare un altro corpo sociale in sofferenza agli avvoltoi politici, sarebbe utile provare a capire le cause delle mobilitazioni e valutarle seriamente. Anche perché i trattori fuori campo sono rappresentativi di ansie economiche e identitarie profonde e diffuse tra le classi medie. La lettura facile facile è certamente consolatoria, ma fuorviante. Il consueto suprematismo intellettuale dei “progressisti” oltremodo stupido.

Le proteste hanno certamente ragioni diverse, ma hanno una duplice radice comune: da un lato, l’iniquità della concorrenza intra ed extra-Ue, sempre più grave a causa delle sempre più stringenti regolazioni della Politica Agricola Comune; dall’altro, la paura del cambiamento senza adeguata valutazione etica e governo politico dell’innovazione tecnologica (ad es., la “carne” coltivata e, da ultimo, la deregulation degli OGM ottenuti con le New Genomic Tecniques, votata dalla Commissione Ambiente del Parlamento europeo, nonostante le denunce di una larghissima coalizione di organizzazioni non soltanto di agricoltori, ma di associazioni ambientaliste e di consumatori). Qui, oggi, affrontiamo soltanto il primo lato. I cantori delle virtù “magnifiche e progressive” del libero mercato, così adorati dalla sinistra storica, dovrebbero incominciare a riconoscere che le condizioni previste dai manuali di Economia 1, affinché la concorrenza promuova benefici per il “consumatore”, nel mercato globale non sussistono e sussistono ancor meno nel mercato comune europeo.

La strategia ‘farm to fork’ avviata dalla Commissione europea nel 2020 è politicamente corretta ai fini della conversione ecologica, ma aggrava la disparità di condizioni produttive tra le imprese agricole dell’Ue e quelle fuori dall’Ue, meno zavorrate da standard sociali e ambientali, restrizioni, adempimenti e costi economici e amministrativi. Ieri, qui, nel colloquio con Alfonso Raimo, Danilo Calvani, uno dei leader del C.R.A. (Comitati Riuniti Agricoli-Agricoltori traditi) rileva: “Hanno fatto accordi con i paesi del Nord Africa, li chiamano corridoi verdi, con questi accordi arriva nel nostro paese in maniera massiccia una produzione ottenuta con presidi sanitari vietati in Italia da 40 anni”.

Al Financial Times, sempre ieri, dai farmers in piazza a Bruxelles arriva un messaggio analogo: “rabbia verso la strategia ‘farm-to-fork’ e altre regolamentazioni che penalizzano la competitività nei confronti delle importazioni, in un quadro aggravato dall’inflazione e da eventi meteorologici estremi”. Tale problema generale di unfair competition si è acuito violentemente con le agevolazioni riconosciute all’Ucraina dopo l’invasione dalla Federazione Russa. La rimozione dei dazi sul grano di Kiev ha fatto arrivare nell’Unione europea valanghe di prodotto a prezzi impossibili per i nostri agricoltori. Per ridurre lo svantaggio dei “nostri”, non va fermata la difficile conversione ecologica, ma è necessario innalzare le tariffe, in sintonia protettiva con il border adjustment mechanism, il dazio previsto a difesa delle nostre produzioni green di acciaio. L’Ucraina non la abbandoniamo, ma la solidarietà la mettiamo a carico di tutti i cittadini europei, non soltanto degli agricoltori, per esempio attraverso l’acquisto di quel grano da parte della Commissione per donarlo alle nazioni africane allo stremo. Altrimenti, il level playing field, caro ai sacerdoti liberali, non c’è e i nostri agricoltori vanno fuori mercato o vedono immiserirsi i margini di profitto. Qualche mese fa, erano i camionisti delle nazioni confinanti con l’Ucraina a bloccare i valichi di frontiera a causa dell’arrivo degli auto-trasportatori di Kiev autorizzati a svolgere servizi intra-Ue liberi dalle prescrizioni della Direttiva Mobility package. Oggi, ad essi si associano disperati gli agricoltori degli stessi Stati.

Problema analogo, ma in forma più acuta, segna il mercato interno, il mitico single european market. Attanaglia da circa 20 anni, ossia dall’allargamento dell’Ue agli Stati dell’Est, gli agricoltori, come ogni altro settore produttivo, della “vecchia Europa”. Non a caso i trattori invadono le strade tedesche, francesi, belghe e anche italiane, nonostante qui l’importazione del grano ucraino rilevi poco. L’ulteriore allargamento rende il problema ancora più angosciante per chi già lo vive e lo prospetta per chi, arrivato nel 2004 e nel 2007, ha fatto e continua a fare dumping fiscale e sociale. Lo ha sintetizzato Vincenzo Savignano, corrispondente da Berlino di Avvenire: “Gran parte dei contadini tedeschi, soprattutto chi proviene dai lander orientali più poveri, protesta anche per l’imposizione nel settore agricolo di un salario minimo di 12,41 euro lordi l’ora, che per i lavoratori specializzati, può salire a 17,29 euro lordi. Si tratta di costi molto elevati rispetto alle aziende agricole dei paesi dell’Europa dell’Est…”. Il punto è piuttosto semplice: se vuoi un salario minimo decente, non puoi continuare a far entrare nell’Unione e nel suo mercato Stati dove il salario medio è 5 euro l’ora.

Insomma, il problema non è la concorrenza. Il problema è la concorrenza sleale alimentata dal mercato unico europeo, in aggiunta alla concorrenza sleale spinta dal mercato globale. La risposta non è l’autarchia nazionale o l’exit dall’Ue. Ma non è neppure la scomunica dei rivoltosi in nome di un astratto europeismo e cosmopolitismo. La risposta è una regolazione fair, equa, dei movimenti dei capitali, merci, servizi e persone, innanzitutto in casa, attraverso la correzione di direttive cardinali e lo stop all’Ue a 36. Prima che la destra nazionalista arrivi a dominare ovunque, forse sindacati e sinistra dovrebbero incominciare ad affrontare il nodo. Il dilemma è sempre più visibile: democrazia vs regolazione liberista della vita.

QOSHE - Dalla parte dei trattori. Gli agricoltori sono vittime della concorrenza sleale - Stefano Fassina
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Dalla parte dei trattori. Gli agricoltori sono vittime della concorrenza sleale

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26.01.2024

Le coccole delle destre nazionaliste non dovrebbero essere condizione sufficiente per esorcizzare gli agricoltori sulle strade europee con i loro trattori come corporativi, regressivi, “sovranisti”, “populisti”, l’ennesima reincarnazione di Ned Ludd contro la modernità ed il progresso. Al contrario, proprio per non lasciare un altro corpo sociale in sofferenza agli avvoltoi politici, sarebbe utile provare a capire le cause delle mobilitazioni e valutarle seriamente. Anche perché i trattori fuori campo sono rappresentativi di ansie economiche e identitarie profonde e diffuse tra le classi medie. La lettura facile facile è certamente consolatoria, ma fuorviante. Il consueto suprematismo intellettuale dei “progressisti” oltremodo stupido.

Le proteste hanno certamente ragioni diverse, ma hanno una duplice radice comune: da un lato, l’iniquità della concorrenza intra ed extra-Ue, sempre più grave a causa delle sempre più stringenti regolazioni della Politica Agricola Comune; dall’altro, la paura del cambiamento senza adeguata valutazione etica e governo politico dell’innovazione tecnologica (ad es., la “carne” coltivata e, da ultimo, la deregulation degli OGM ottenuti con le New Genomic Tecniques, votata dalla Commissione Ambiente del Parlamento europeo, nonostante le denunce di una larghissima coalizione di organizzazioni non soltanto di agricoltori, ma di associazioni ambientaliste e di consumatori). Qui, oggi, affrontiamo soltanto il primo lato. I cantori delle virtù “magnifiche e progressive” del libero mercato, così adorati dalla sinistra storica, dovrebbero incominciare a riconoscere che le condizioni previste dai manuali di Economia 1, affinché la concorrenza promuova benefici per il “consumatore”, nel mercato globale non sussistono e sussistono ancor meno nel mercato comune europeo.

La strategia ‘farm to fork’ avviata dalla Commissione europea nel 2020 è politicamente corretta ai fini della conversione ecologica, ma aggrava la disparità di condizioni produttive tra le imprese agricole dell’Ue e quelle fuori dall’Ue, meno zavorrate da standard sociali e ambientali, restrizioni, adempimenti e costi economici e amministrativi. Ieri, qui, nel colloquio con Alfonso Raimo, Danilo Calvani, uno dei leader del C.R.A. (Comitati Riuniti Agricoli-Agricoltori traditi) rileva: “Hanno fatto accordi con i paesi del Nord Africa, li chiamano corridoi verdi, con questi accordi arriva nel nostro paese in maniera massiccia una produzione ottenuta con presidi sanitari vietati in Italia da 40 anni”.

Al Financial Times, sempre ieri, dai farmers in piazza a Bruxelles arriva un messaggio analogo: “rabbia verso la strategia ‘farm-to-fork’ e altre regolamentazioni che penalizzano la competitività nei confronti delle importazioni, in un quadro aggravato dall’inflazione e da eventi meteorologici estremi”. Tale problema generale di unfair competition si è acuito violentemente con le agevolazioni riconosciute all’Ucraina dopo l’invasione dalla Federazione Russa. La rimozione dei dazi sul grano di Kiev ha fatto arrivare nell’Unione europea valanghe di prodotto a........

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