Un altro angosciante risultato delle urne, in una delle nazioni fondatrice dell’Unione europea: “Vince Wilders. L’estrema destra travolge l’Olanda” (titolo di Repubblica). Oggi, Stefano Folli segnala che il Pd rimane inchiodato sotto il 20%, in arretramento, nonostante la grande manifestazione dell’11 Novembre scorso. Qualche giorno fa, Aldo Cazzullo, in un editoriale sul Corriere della Sera, batteva sulla stessa contraddizione in riferimento ad un’altra rilevazione di voto che fotografava il Pd al 18%.

In sintesi: “Piazze piene, urne vuote”.

In tale quadro, i suggerimenti a Elly Schlein arrivano in loop, dall’interno del Pd e da fuori: torna sulla “Terza via”, l’unica per riavvicinarsi a Palazzo Chigi, ma abbandonata dalla giovane segretaria. L’assunto del suggerimento è pienamente condivisibile: non c’è altro spazio elettorale a “sinistra-sinistra”. Certo, il Pd in versione Schlein può prendersi qualche voto da Sinistra Italiana-Verdi o da +Europa, come un Pd a guida Stefano Bonaccini ne avrebbe potuti prendere da Matteo Renzi e Carlo Calenda. Ma il centrosinistra, in totale, rimane nel recinto abitato prevalentemente da benestanti e benpensanti, meno di un terzo dei votanti. Perché? Perché, in tutte le sue versioni, radicali o moderate, insiste su un impianto culturale e su un’agenda ostile o aliena alle fasce popolari spiaggiate e alle classi medie decadute ed impaurite.

Qui, veniamo all’analisi. Il voto olandese è soltanto l’ultimo esempio. Guardiamo all’Europa. In Germania, AfD sorpassa la Spd nelle intensioni di voto e la coalizione Semaforo va abbondantemente sotto il 50% dei consensi. In Francia, Emmanuel Macron, il poster-boy del centrismo innovatore, regna ma non governa, superato da Marine Le Pen e incalzato da Jean-Luc Mélenchon. In Spagna, la prevalenza delle destre non diventa governo grazie all’abilità di Pedro Sanchez e, paradossalmente, alle “piccole patrie” così denigrate dai progressisti no border. Il Regno Unito va in controtendenza ma, dopo gli oltre 13 anni di ininterrotto governo Tory e le disastrose performance di Boris Johnson, Liz Truss e dell’attuale esecutivo travolto dall’ennesimo rimpasto, più che i meriti di Keir Starmer, gioca il fattore everything but (chiunque tranne i conservatori) e un programma laburista ispirato più dall’agenda protettiva di Joe Biden che da quella liberale di Tony Blair, a partire dal posizionamento sulla Brexit. Lasciamo stare la Polonia dove, come in ogni altro Stato ex Patto di Varsavia, i giocatori sono diversi e la sinistra è residuale.

Insomma, c’è un vento di destra si ripete, in modo consolatorio. Vero. Ma non è un vento improvviso e inspiegabile. È dovuto, in primis, proprio all’interpretazione neo-liberista del moderatismo, del centrismo, prevalsa, anche a sinistra attraverso “le terze vie”, nell’ultimo trentennio: un’ideologia, sul terreno economico, di assolutizzazione delle 4 sacre libertà di movimento di capitali, servizi, merci e persone, funzionale alle classi medio-alte del lavoro dipendente, delle professioni della cultura, dello spettacolo, della finanza, ma insostenibile per le classi medie e popolari del lavoro subordinato dipendente, autonomo, della micro e piccola impresa a scarso valore aggiunto; un’ideologia, sul campo culturale-identitario, “comoda” per gli uni, ma spiazzante per gli altri. È un’ideologia che, in abile mascheramento, investe anche la sinistra radicale attraverso il cosmopolitismo, in alternativa all’internazionalismo; l’europeismo fideistico, in alternativa ad una visione storicamente fondata dell’integrazione possibile; il post-umanesimo per affermare i diritti civili, in alternativa alla centralità della persona.

In sostanza, nella riproposizione meccanica dello schema politologico centripeto viene rimosso il dato di fase: il centro, le classi medie del ‘900, si sono divaricate lungo due direttrici divergenti: da un lato, “i salvati”; dall’altro, “i sommersi”, confinanti, senza soluzione di continuità, con le periferie sociali. I partiti del centrosinistra sono incardinati sui primi. In Italia, i secondi sono prevalentemente intercettati, oltre che dall’astensione e dalla destra nazionalista, anche dal M5S. Ma non è una “colpa” di Elly Schlein. È un errore che viene da lontano. È un difetto di origine reso sempre più evidente dal dispiegamento della fase in corso, segnata dalla reazione all’insostenibilità del paradigma della ‘fine della Storia’, assunto, fuori tempo massimo, al Lingotto nel 2007. Va dato atto ad Elly Schlein di aver ripreso, in ambito sociale, la correzione di rotta a suo tempo tentata da Pier Luigi Bersani. Ma va anche considerato che rimane largamente inefficace in quanto sconnessa da una sistematica revisione del paradigma progressista e priva del riconoscimento delle cause della svalutazione del lavoro e dell’impoverimento del welfare e, quindi, in assoluta continuità sulle policy determinanti, a cominciare da quelle prodotte a Bruxelles.

Per uscire dal recinto è necessario un paradigma nazionale-popolare in senso gramsciano: risposte costituzionalmente orientate (purtroppo sono inutilizzabili, a causa della intervenuta corruzione semantica, i termini “sinistra”, “progressista”, “riformista”) alle domande di protezione sociale e identitaria di chi ha paura del futuro. Vuol dire, ad esempio, sul versante della protezione economica e sociale, affrontare con pragmatismo le migrazioni e assumere la effettiva capacità di integrazione come variabile chiave per governare il complesso fenomeno in una strategia di promozione del diritto a non emigrare (invito a leggere il coraggioso editoriale di Luca Ricolfi su Il Messaggero di venerdì 10 novembre dedicato a Edith Bruck e, in generale, all’atteggiamento delle élite verso i migranti). Oppure, vuol dire, aiutare Kiev con una sorta di Piano Marshall finanziato dalla Bers e fermare l’ulteriore allargamento dell’Ue all’Ucraina e altri 9 Stati dove tassazione e welfare sono minimi e i salari medi a 300 euro al mese, per evitare non soltanto lo stallo decisionale sul terreno geo-politico, ma l’aggravamento di dumping fiscale e sociale a danno di quanti sono stati già ai margini. Vuol dire, sul versante della protezione identitaria, riconoscere la cultura del limite, ossia una direttrice umanista, per coltivare le libertà individuali, quindi rigettare l’estensione del mercato fino alla produzione della vita. Con realismo, va preso atto che il cambiamento della cultura politica delle classi dirigenti dei partiti è impegnativo e richiede tempo, oltre ad una ferrea capacità di leadership intellettuale. Ma “se sbagli l’analisi, sbagli tutto”.

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Un altro angosciante risultato delle urne, in una delle nazioni fondatrice dell’Unione europea: “Vince Wilders. L’estrema destra travolge l’Olanda” (titolo di Repubblica). Oggi, Stefano Folli segnala che il Pd rimane inchiodato sotto il 20%, in arretramento, nonostante la grande manifestazione dell’11 Novembre scorso. Qualche giorno fa, Aldo Cazzullo, in un editoriale sul Corriere della Sera, batteva sulla stessa contraddizione in riferimento ad un’altra rilevazione di voto che fotografava il Pd al 18%.

In sintesi: “Piazze piene, urne vuote”.

In tale quadro, i suggerimenti a Elly Schlein arrivano in loop, dall’interno del Pd e da fuori: torna sulla “Terza via”, l’unica per riavvicinarsi a Palazzo Chigi, ma abbandonata dalla giovane segretaria. L’assunto del suggerimento è pienamente condivisibile: non c’è altro spazio elettorale a “sinistra-sinistra”. Certo, il Pd in versione Schlein può prendersi qualche voto da Sinistra Italiana-Verdi o da +Europa, come un Pd a guida Stefano Bonaccini ne avrebbe potuti prendere da Matteo Renzi e Carlo Calenda. Ma il centrosinistra, in totale, rimane nel recinto abitato prevalentemente da benestanti e benpensanti, meno di un terzo dei votanti. Perché? Perché, in tutte le sue versioni, radicali o moderate, insiste su un impianto culturale e su un’agenda ostile o aliena alle fasce popolari spiaggiate e alle classi medie decadute ed impaurite.

Qui, veniamo all’analisi. Il voto olandese è soltanto l’ultimo esempio. Guardiamo all’Europa. In Germania, AfD sorpassa la Spd nelle intensioni di voto e la coalizione Semaforo va abbondantemente sotto il 50% dei consensi. In Francia, Emmanuel Macron, il poster-boy del centrismo innovatore, regna ma non governa, superato da Marine Le Pen e incalzato da Jean-Luc Mélenchon. In Spagna, la prevalenza delle destre non diventa governo grazie all’abilità di Pedro Sanchez e, paradossalmente, alle “piccole patrie” così denigrate dai progressisti no border. Il Regno Unito va in controtendenza ma, dopo gli oltre 13 anni di ininterrotto governo Tory e le disastrose performance di Boris Johnson, Liz Truss e dell’attuale esecutivo travolto dall’ennesimo rimpasto, più che i meriti di Keir Starmer, gioca il fattore everything but (chiunque tranne i conservatori) e un programma laburista ispirato più dall’agenda protettiva di Joe Biden che da quella liberale di Tony Blair, a partire dal posizionamento sulla Brexit. Lasciamo stare la Polonia dove, come in ogni altro Stato ex Patto di Varsavia, i giocatori sono diversi e la sinistra è residuale.

Insomma, c’è un vento di destra si ripete, in modo consolatorio. Vero. Ma non è un vento improvviso e inspiegabile. È dovuto, in primis, proprio all’interpretazione neo-liberista del moderatismo, del centrismo, prevalsa, anche a sinistra attraverso “le terze vie”, nell’ultimo trentennio: un’ideologia, sul terreno economico, di assolutizzazione delle 4 sacre libertà di movimento di capitali, servizi, merci e persone, funzionale alle classi medio-alte del lavoro dipendente, delle professioni della cultura, dello spettacolo, della finanza, ma insostenibile per le classi medie e popolari del lavoro subordinato dipendente, autonomo, della micro e piccola impresa a scarso valore aggiunto; un’ideologia, sul campo culturale-identitario, “comoda” per gli uni, ma spiazzante per gli altri. È un’ideologia che, in abile mascheramento, investe anche la sinistra radicale attraverso il cosmopolitismo, in alternativa all’internazionalismo; l’europeismo fideistico, in alternativa ad una visione storicamente fondata dell’integrazione possibile; il post-umanesimo per affermare i diritti civili, in alternativa alla centralità della persona.

In sostanza, nella riproposizione meccanica dello schema politologico centripeto viene rimosso il dato di fase: il centro, le classi medie del ‘900, si sono divaricate lungo due direttrici divergenti: da un lato, “i salvati”; dall’altro, “i sommersi”, confinanti, senza soluzione di continuità, con le periferie sociali. I partiti del centrosinistra sono incardinati sui primi. In Italia, i secondi sono prevalentemente intercettati, oltre che dall’astensione e dalla destra nazionalista, anche dal M5S. Ma non è una “colpa” di Elly Schlein. È un errore che viene da lontano. È un difetto di origine reso sempre più evidente dal dispiegamento della fase in corso, segnata dalla reazione all’insostenibilità del paradigma della ‘fine della Storia’, assunto, fuori tempo massimo, al Lingotto nel 2007. Va dato atto ad Elly Schlein di aver ripreso, in ambito sociale, la correzione di rotta a suo tempo tentata da Pier Luigi Bersani. Ma va anche considerato che rimane largamente inefficace in quanto sconnessa da una sistematica revisione del paradigma progressista e priva del riconoscimento delle cause della svalutazione del lavoro e dell’impoverimento del welfare e, quindi, in assoluta continuità sulle policy determinanti, a cominciare da quelle prodotte a Bruxelles.

Per uscire dal recinto è necessario un paradigma nazionale-popolare in senso gramsciano: risposte costituzionalmente orientate (purtroppo sono inutilizzabili, a causa della intervenuta corruzione semantica, i termini “sinistra”, “progressista”, “riformista”) alle domande di protezione sociale e identitaria di chi ha paura del futuro. Vuol dire, ad esempio, sul versante della protezione economica e sociale, affrontare con pragmatismo le migrazioni e assumere la effettiva capacità di integrazione come variabile chiave per governare il complesso fenomeno in una strategia di promozione del diritto a non emigrare (invito a leggere il coraggioso editoriale di Luca Ricolfi su Il Messaggero di venerdì 10 novembre dedicato a Edith Bruck e, in generale, all’atteggiamento delle élite verso i migranti). Oppure, vuol dire, aiutare Kiev con una sorta di Piano Marshall finanziato dalla Bers e fermare l’ulteriore allargamento dell’Ue all’Ucraina e altri 9 Stati dove tassazione e welfare sono minimi e i salari medi a 300 euro al mese, per evitare non soltanto lo stallo decisionale sul terreno geo-politico, ma l’aggravamento di dumping fiscale e sociale a danno di quanti sono stati già ai margini. Vuol dire, sul versante della protezione identitaria, riconoscere la cultura del limite, ossia una direttrice umanista, per coltivare le libertà individuali, quindi rigettare l’estensione del mercato fino alla produzione della vita. Con realismo, va preso atto che il cambiamento della cultura politica delle classi dirigenti dei partiti è impegnativo e richiede tempo, oltre ad una ferrea capacità di leadership intellettuale. Ma “se sbagli l’analisi, sbagli tutto”.

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L’Olanda ancora più a destra, la sinistra senza popolo

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23.11.2023

Un altro angosciante risultato delle urne, in una delle nazioni fondatrice dell’Unione europea: “Vince Wilders. L’estrema destra travolge l’Olanda” (titolo di Repubblica). Oggi, Stefano Folli segnala che il Pd rimane inchiodato sotto il 20%, in arretramento, nonostante la grande manifestazione dell’11 Novembre scorso. Qualche giorno fa, Aldo Cazzullo, in un editoriale sul Corriere della Sera, batteva sulla stessa contraddizione in riferimento ad un’altra rilevazione di voto che fotografava il Pd al 18%.

In sintesi: “Piazze piene, urne vuote”.

In tale quadro, i suggerimenti a Elly Schlein arrivano in loop, dall’interno del Pd e da fuori: torna sulla “Terza via”, l’unica per riavvicinarsi a Palazzo Chigi, ma abbandonata dalla giovane segretaria. L’assunto del suggerimento è pienamente condivisibile: non c’è altro spazio elettorale a “sinistra-sinistra”. Certo, il Pd in versione Schlein può prendersi qualche voto da Sinistra Italiana-Verdi o da Europa, come un Pd a guida Stefano Bonaccini ne avrebbe potuti prendere da Matteo Renzi e Carlo Calenda. Ma il centrosinistra, in totale, rimane nel recinto abitato prevalentemente da benestanti e benpensanti, meno di un terzo dei votanti. Perché? Perché, in tutte le sue versioni, radicali o moderate, insiste su un impianto culturale e su un’agenda ostile o aliena alle fasce popolari spiaggiate e alle classi medie decadute ed impaurite.

Qui, veniamo all’analisi. Il voto olandese è soltanto l’ultimo esempio. Guardiamo all’Europa. In Germania, AfD sorpassa la Spd nelle intensioni di voto e la coalizione Semaforo va abbondantemente sotto il 50% dei consensi. In Francia, Emmanuel Macron, il poster-boy del centrismo innovatore, regna ma non governa, superato da Marine Le Pen e incalzato da Jean-Luc Mélenchon. In Spagna, la prevalenza delle destre non diventa governo grazie all’abilità di Pedro Sanchez e, paradossalmente, alle “piccole patrie” così denigrate dai progressisti no border. Il Regno Unito va in controtendenza ma, dopo gli oltre 13 anni di ininterrotto governo Tory e le disastrose performance di Boris Johnson, Liz Truss e dell’attuale esecutivo travolto dall’ennesimo rimpasto, più che i meriti di Keir Starmer, gioca il fattore everything but (chiunque tranne i conservatori) e un programma laburista ispirato più dall’agenda protettiva di Joe Biden che da quella liberale di Tony Blair, a partire dal posizionamento sulla Brexit. Lasciamo stare la Polonia dove, come in ogni altro Stato ex Patto di Varsavia, i giocatori sono diversi e la sinistra è residuale.

Insomma, c’è un vento di destra si ripete, in modo consolatorio. Vero. Ma non è un vento improvviso e inspiegabile. È dovuto, in primis, proprio all’interpretazione neo-liberista del moderatismo, del centrismo, prevalsa, anche a sinistra attraverso “le terze vie”, nell’ultimo trentennio: un’ideologia, sul terreno economico, di assolutizzazione delle 4 sacre libertà di movimento di capitali, servizi, merci e persone, funzionale alle classi medio-alte del lavoro dipendente, delle professioni della cultura, dello spettacolo, della finanza, ma insostenibile per le classi medie e popolari del lavoro subordinato dipendente, autonomo, della micro e piccola impresa a scarso valore aggiunto; un’ideologia, sul campo culturale-identitario, “comoda” per gli uni, ma spiazzante per gli........

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