Il voto appena espresso dalla Camera dei Deputati sulla ratifica delle modifiche al Mes suona un po’ come una sorta di vendetta verso chi ha voluto stringere formalmente le regole di finanza pubblica nel vertice Ecofin di ieri sera. Nel merito, il no è condivisibile: siamo inchiodati a uno strumento rimaneggiato nel 2019, prima del Covid, prima dell’invasione dell’Ucraina, prima del collasso del modello mercantilista della Germania e dell’intera eurozona. Inoltre, chi ha votato no è stato coerente con la valutazione data: il Mes 2.0 peggiora i rischi per il nostro debito pubblico (qui, in un post del 1 Dicembre 2019, illustro perché). Chi ha votato sì, con altrettanta coerenza, insiste a volersi legittimare come insuperabile primo della classe nell’attuazione passiva del vincolo esterno. Nonostante il nostro debito pubblico, ci possiamo permettere il no, dopo aver ingoiato le revisioni del Patto di Stabilità e crescita, sottoscritte all’unanimità ieri sera con la video conferenza informale dei Ministri dell’Economia e delle Finanze dei 27. Anzi, se riusciamo a far tornare il famigerato fondo sul banco di lavoro, facciamo un’opera utile a tutta l’Unione in affannosa ricerca di risorse per investimenti all’interno dei propri confini e per la ricostruzione a Kiev.

Il punto politico, evidente anche dal martellamento da Bruxelles sul povero ministro Giorgetti per il via libera al Mes revisionato, è che i governi dell’Unione europea sono fuori fase storica. I contenuti delle revisioni al Patto di Stabilità e Crescita, lo confermano: “tanto rumore per nulla”, come scriviamo da Aprile scorso. È l’oggetto della discussione, in relazione alle regole vigenti, sempre derogate attraverso la clausola dei “relevant factors”, a dettare il giudizio: nel confronto trascinato per un anno sulla correzione di qualche decimale di Pil di deficit del Bilancio pubblico da anticipare o posticipare, qualunque fosse stato l’esito dell’insulso braccio di ferro, sarebbe stato comunque sostanzialmente irrilevante. Come sarà analogamente irrilevante ora il vaglio del Parlamento europeo. In sintesi, l’accordo riporta in gioco la vecchia forma. Torneranno anche le scappatoie. A nessuno conviene che l’Italia si accappotti. Continueremo a galleggiare nella stagnazione, con benefici evidenti per i nostri vicini d’oltralpe.

È la realtà, ma l’accordo preliminare di ieri consente a tutti di cantar vittoria: Germania e soci rivendicano l’introduzione di numeri chiari su disavanzo e debito, rispettivamente da portare all’1,5% del Pil e da ridurre di un punto percentuale di Pil all’anno, per gli Stati con debito pubblico elevato; gli Stati mediterranei super indebitati come noi, Francia, Grecia e altri, si dicono soddisfatti per aver ottenuto lo scomputo della spesa per interessi fino al 2027; la Commissione si auto-celebra nella finzione di aver comunque ottenuto l’approvazione dell’impianto a base dell’accordo; la presidenza di turno spagnola si vanta della sua capacità negoziale, dopo aver barattato un minimo di potere di condizionamento anti-rigoristi con la nomina della sua ministra delle Finanze alla presidenza della Banca Europea degli Investimenti (BEI).

Chi vuole contribuire a far fare passi avanti all’Unione europea dovrebbe cominciare a fare un discorso di verità. È, per chi sta all’opposizione a Roma, impossibile resistere alla spinta di accusare il governo Meloni di incapacità e di tradimento degli Italiani, sebbene con parole anche meno infuocate di quanto era abituata a urlare la nostra presidente del Consiglio a parti invertite. Ma il dato emerso, ancora una volta, ieri dall’Ecofin e, sul versante della regolazione dei flussi migratori, dal “Patto per la migrazione e l’asilo” definito da Parlamento e Consiglio dell’Unione, ha, ahinoi, cause strutturali, radici lunghe nelle storie, nelle culture, nei vissuti nazionali. Ha valenza generale: conferma, da un lato, lo spazio politico dell’Europa possibile e, dall’altro, la qualità delle classi dirigenti dei principali protagonisti “europeisti” dell’Unione europea, sia sul versante del Partito Popolare Europeo, sia sul versante dei Socialisti e Democratici Europei.

Siamo in un tornante straordinario, si è chiusa la fase de “la fine della Storia” affidata alle presunte irresistibili contaminazioni liberal-democratiche dei mercati globali aperti dai vincitori della Guerra fredda. Ritorna in campo la Politica, anche nella sua espressione drammatica, la guerra. Un’agenda in sintonia con il cambio di stagione avrebbe dovuto affrontarne le priorità. Quindi, lasciato stare il piano della contabilità pubblica, i nostri “leaders” si sarebbero dovuti e si dovrebbero -il tempo non è scaduto- concentrare su nodi significativi e praticabili. Li abbiamo indicati da tempo. Per rimanere sul terreno economico, avrebbero dovuto suggerire alla Banca Centrale europea l’opportunità di rinviare sine die lo stop al riacquisto dei Titoli di debito pubblico comprati durante la pandemia attraverso il PEPP, il programma straordinario messo in campo nel 2020 per sostenere il soccorso a famiglie, imprese e finanziare la sanità e l’acquisto di vaccini. È stato unanimemente battezzato “debito buono”. Sono 1,7 trilioni di euro. Pesa circa 10 punti percentuali del Pil dell’eurozona. Ma sono 20 per l’Italia, 17-18 per Spagna e Francia. Se questi Titoli di Stato rimanessero nei bilanci delle Banche Centrali non vi sarebbe alcun danno per nessuno e nessuno sconfinamento nell’illegalità della transfer Union. Invece, a seguito della decisione del Consiglio della Bce di giovedì scorso, dall’inizio del 2025 torneranno tutti sul mercato ad appesantire l’onere della spesa per la loro remunerazione nei bilanci degli Stati. Per noi, ad esempio, da tassi prossimi allo zero, si passerà a tassi intorno al 4,5%. Vuol dire quasi una ventina di miliardi in più all’anno da coprire con risolse da sottrarre al welfare.

L’agenda all’altezza del passaggio storico, si sarebbe dovuta e si dovrebbe dedicare alla costruzione di una central fiscal capacity, possibile anche attraverso un rifacimento sensato del Mes per trasformarlo in un fondo europeo per finanziare, sotto precise condizionalità, gli investimenti codificati come prioritari dalla Commissione: green e digital, innanzitutto. Si sarebbe dovuta e si dovrebbe, inoltre, concentrare nella messa a punto di una sorta di “Piano Marshall” per Kiev, da finanziare attraverso la BEI e la Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo, in alternativa all’ulteriore, esiziale, allargamento dell’Ue ad Ucraina, Georgia, Moldavia e ai Balcani, in un quadro dove i 27 non riescono neanche a trovare l’intesa per aumentare di qualche decina di miliardi il bilancio pluriennale comune. Infine, si sarebbe dovuto e si dovrebbe orientare all’introduzione di misure tariffarie ai confini dell’Ue per praticare l’urgente riconversione industriale senza desertificare la capacità manifatturiera del continente.

Si sarebbe dovuto e si dovrebbe, nella fase del ritorno della Politica. Ma la Politica ha legittimazione nazionale e fa riferimento a un popolo nazionale. La dimensione nazionale è l’unica dimensione pienamente democratica. I governi la interpretano con maggiore o minore lungimiranza. Ne prendano atto i sognatori degli “Stati Uniti d’Europa”, i tecnocrati puntati verso lo “Stato europeo” e i paladini del “popolo europeo”. Ne prendano atto quanti, dopo le smentite categoriche pluridecennali ricevute sul terreno del funzionalismo economico (“la moneta unica imporrà il salto di qualità politico”), ricorrono ora al funzionalismo geo-politico e al funzionalismo climatico. Per maturare soggettività politica e rilevanza internazionale le classi dirigenti illuminate devono procedere con consapevolezza storica, quindi con realismo, lungo la strada della comunità ancorata agli Stati nazionali segnati da interessi strategici compatibili, da accordare con un paziente lavoro politico. La road map verso l’integrazione a cerchi concentrici, tracciata dal “Rapporto del gruppo dei 12” saggi francesi e tedeschi, è l’unica per l’Europa possibile.

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Il voto appena espresso dalla Camera dei Deputati sulla ratifica delle modifiche al Mes suona un po’ come una sorta di vendetta verso chi ha voluto stringere formalmente le regole di finanza pubblica nel vertice Ecofin di ieri sera. Nel merito, il no è condivisibile: siamo inchiodati a uno strumento rimaneggiato nel 2019, prima del Covid, prima dell’invasione dell’Ucraina, prima del collasso del modello mercantilista della Germania e dell’intera eurozona. Inoltre, chi ha votato no è stato coerente con la valutazione data: il Mes 2.0 peggiora i rischi per il nostro debito pubblico (qui, in un post del 1 Dicembre 2019, illustro perché). Chi ha votato sì, con altrettanta coerenza, insiste a volersi legittimare come insuperabile primo della classe nell’attuazione passiva del vincolo esterno. Nonostante il nostro debito pubblico, ci possiamo permettere il no, dopo aver ingoiato le revisioni del Patto di Stabilità e crescita, sottoscritte all’unanimità ieri sera con la video conferenza informale dei Ministri dell’Economia e delle Finanze dei 27. Anzi, se riusciamo a far tornare il famigerato fondo sul banco di lavoro, facciamo un’opera utile a tutta l’Unione in affannosa ricerca di risorse per investimenti all’interno dei propri confini e per la ricostruzione a Kiev.

Il punto politico, evidente anche dal martellamento da Bruxelles sul povero ministro Giorgetti per il via libera al Mes revisionato, è che i governi dell’Unione europea sono fuori fase storica. I contenuti delle revisioni al Patto di Stabilità e Crescita, lo confermano: “tanto rumore per nulla”, come scriviamo da Aprile scorso. È l’oggetto della discussione, in relazione alle regole vigenti, sempre derogate attraverso la clausola dei “relevant factors”, a dettare il giudizio: nel confronto trascinato per un anno sulla correzione di qualche decimale di Pil di deficit del Bilancio pubblico da anticipare o posticipare, qualunque fosse stato l’esito dell’insulso braccio di ferro, sarebbe stato comunque sostanzialmente irrilevante. Come sarà analogamente irrilevante ora il vaglio del Parlamento europeo. In sintesi, l’accordo riporta in gioco la vecchia forma. Torneranno anche le scappatoie. A nessuno conviene che l’Italia si accappotti. Continueremo a galleggiare nella stagnazione, con benefici evidenti per i nostri vicini d’oltralpe.

È la realtà, ma l’accordo preliminare di ieri consente a tutti di cantar vittoria: Germania e soci rivendicano l’introduzione di numeri chiari su disavanzo e debito, rispettivamente da portare all’1,5% del Pil e da ridurre di un punto percentuale di Pil all’anno, per gli Stati con debito pubblico elevato; gli Stati mediterranei super indebitati come noi, Francia, Grecia e altri, si dicono soddisfatti per aver ottenuto lo scomputo della spesa per interessi fino al 2027; la Commissione si auto-celebra nella finzione di aver comunque ottenuto l’approvazione dell’impianto a base dell’accordo; la presidenza di turno spagnola si vanta della sua capacità negoziale, dopo aver barattato un minimo di potere di condizionamento anti-rigoristi con la nomina della sua ministra delle Finanze alla presidenza della Banca Europea degli Investimenti (BEI).

Chi vuole contribuire a far fare passi avanti all’Unione europea dovrebbe cominciare a fare un discorso di verità. È, per chi sta all’opposizione a Roma, impossibile resistere alla spinta di accusare il governo Meloni di incapacità e di tradimento degli Italiani, sebbene con parole anche meno infuocate di quanto era abituata a urlare la nostra presidente del Consiglio a parti invertite. Ma il dato emerso, ancora una volta, ieri dall’Ecofin e, sul versante della regolazione dei flussi migratori, dal “Patto per la migrazione e l’asilo” definito da Parlamento e Consiglio dell’Unione, ha, ahinoi, cause strutturali, radici lunghe nelle storie, nelle culture, nei vissuti nazionali. Ha valenza generale: conferma, da un lato, lo spazio politico dell’Europa possibile e, dall’altro, la qualità delle classi dirigenti dei principali protagonisti “europeisti” dell’Unione europea, sia sul versante del Partito Popolare Europeo, sia sul versante dei Socialisti e Democratici Europei.

Siamo in un tornante straordinario, si è chiusa la fase de “la fine della Storia” affidata alle presunte irresistibili contaminazioni liberal-democratiche dei mercati globali aperti dai vincitori della Guerra fredda. Ritorna in campo la Politica, anche nella sua espressione drammatica, la guerra. Un’agenda in sintonia con il cambio di stagione avrebbe dovuto affrontarne le priorità. Quindi, lasciato stare il piano della contabilità pubblica, i nostri “leaders” si sarebbero dovuti e si dovrebbero -il tempo non è scaduto- concentrare su nodi significativi e praticabili. Li abbiamo indicati da tempo. Per rimanere sul terreno economico, avrebbero dovuto suggerire alla Banca Centrale europea l’opportunità di rinviare sine die lo stop al riacquisto dei Titoli di debito pubblico comprati durante la pandemia attraverso il PEPP, il programma straordinario messo in campo nel 2020 per sostenere il soccorso a famiglie, imprese e finanziare la sanità e l’acquisto di vaccini. È stato unanimemente battezzato “debito buono”. Sono 1,7 trilioni di euro. Pesa circa 10 punti percentuali del Pil dell’eurozona. Ma sono 20 per l’Italia, 17-18 per Spagna e Francia. Se questi Titoli di Stato rimanessero nei bilanci delle Banche Centrali non vi sarebbe alcun danno per nessuno e nessuno sconfinamento nell’illegalità della transfer Union. Invece, a seguito della decisione del Consiglio della Bce di giovedì scorso, dall’inizio del 2025 torneranno tutti sul mercato ad appesantire l’onere della spesa per la loro remunerazione nei bilanci degli Stati. Per noi, ad esempio, da tassi prossimi allo zero, si passerà a tassi intorno al 4,5%. Vuol dire quasi una ventina di miliardi in più all’anno da coprire con risolse da sottrarre al welfare.

L’agenda all’altezza del passaggio storico, si sarebbe dovuta e si dovrebbe dedicare alla costruzione di una central fiscal capacity, possibile anche attraverso un rifacimento sensato del Mes per trasformarlo in un fondo europeo per finanziare, sotto precise condizionalità, gli investimenti codificati come prioritari dalla Commissione: green e digital, innanzitutto. Si sarebbe dovuta e si dovrebbe, inoltre, concentrare nella messa a punto di una sorta di “Piano Marshall” per Kiev, da finanziare attraverso la BEI e la Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo, in alternativa all’ulteriore, esiziale, allargamento dell’Ue ad Ucraina, Georgia, Moldavia e ai Balcani, in un quadro dove i 27 non riescono neanche a trovare l’intesa per aumentare di qualche decina di miliardi il bilancio pluriennale comune. Infine, si sarebbe dovuto e si dovrebbe orientare all’introduzione di misure tariffarie ai confini dell’Ue per praticare l’urgente riconversione industriale senza desertificare la capacità manifatturiera del continente.

Si sarebbe dovuto e si dovrebbe, nella fase del ritorno della Politica. Ma la Politica ha legittimazione nazionale e fa riferimento a un popolo nazionale. La dimensione nazionale è l’unica dimensione pienamente democratica. I governi la interpretano con maggiore o minore lungimiranza. Ne prendano atto i sognatori degli “Stati Uniti d’Europa”, i tecnocrati puntati verso lo “Stato europeo” e i paladini del “popolo europeo”. Ne prendano atto quanti, dopo le smentite categoriche pluridecennali ricevute sul terreno del funzionalismo economico (“la moneta unica imporrà il salto di qualità politico”), ricorrono ora al funzionalismo geo-politico e al funzionalismo climatico. Per maturare soggettività politica e rilevanza internazionale le classi dirigenti illuminate devono procedere con consapevolezza storica, quindi con realismo, lungo la strada della comunità ancorata agli Stati nazionali segnati da interessi strategici compatibili, da accordare con un paziente lavoro politico. La road map verso l’integrazione a cerchi concentrici, tracciata dal “Rapporto del gruppo dei 12” saggi francesi e tedeschi, è l’unica per l’Europa possibile.

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Mes, nel merito il no è condivisibile

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21.12.2023

Il voto appena espresso dalla Camera dei Deputati sulla ratifica delle modifiche al Mes suona un po’ come una sorta di vendetta verso chi ha voluto stringere formalmente le regole di finanza pubblica nel vertice Ecofin di ieri sera. Nel merito, il no è condivisibile: siamo inchiodati a uno strumento rimaneggiato nel 2019, prima del Covid, prima dell’invasione dell’Ucraina, prima del collasso del modello mercantilista della Germania e dell’intera eurozona. Inoltre, chi ha votato no è stato coerente con la valutazione data: il Mes 2.0 peggiora i rischi per il nostro debito pubblico (qui, in un post del 1 Dicembre 2019, illustro perché). Chi ha votato sì, con altrettanta coerenza, insiste a volersi legittimare come insuperabile primo della classe nell’attuazione passiva del vincolo esterno. Nonostante il nostro debito pubblico, ci possiamo permettere il no, dopo aver ingoiato le revisioni del Patto di Stabilità e crescita, sottoscritte all’unanimità ieri sera con la video conferenza informale dei Ministri dell’Economia e delle Finanze dei 27. Anzi, se riusciamo a far tornare il famigerato fondo sul banco di lavoro, facciamo un’opera utile a tutta l’Unione in affannosa ricerca di risorse per investimenti all’interno dei propri confini e per la ricostruzione a Kiev.

Il punto politico, evidente anche dal martellamento da Bruxelles sul povero ministro Giorgetti per il via libera al Mes revisionato, è che i governi dell’Unione europea sono fuori fase storica. I contenuti delle revisioni al Patto di Stabilità e Crescita, lo confermano: “tanto rumore per nulla”, come scriviamo da Aprile scorso. È l’oggetto della discussione, in relazione alle regole vigenti, sempre derogate attraverso la clausola dei “relevant factors”, a dettare il giudizio: nel confronto trascinato per un anno sulla correzione di qualche decimale di Pil di deficit del Bilancio pubblico da anticipare o posticipare, qualunque fosse stato l’esito dell’insulso braccio di ferro, sarebbe stato comunque sostanzialmente irrilevante. Come sarà analogamente irrilevante ora il vaglio del Parlamento europeo. In sintesi, l’accordo riporta in gioco la vecchia forma. Torneranno anche le scappatoie. A nessuno conviene che l’Italia si accappotti. Continueremo a galleggiare nella stagnazione, con benefici evidenti per i nostri vicini d’oltralpe.

È la realtà, ma l’accordo preliminare di ieri consente a tutti di cantar vittoria: Germania e soci rivendicano l’introduzione di numeri chiari su disavanzo e debito, rispettivamente da portare all’1,5% del Pil e da ridurre di un punto percentuale di Pil all’anno, per gli Stati con debito pubblico elevato; gli Stati mediterranei super indebitati come noi, Francia, Grecia e altri, si dicono soddisfatti per aver ottenuto lo scomputo della spesa per interessi fino al 2027; la Commissione si auto-celebra nella finzione di aver comunque ottenuto l’approvazione dell’impianto a base dell’accordo; la presidenza di turno spagnola si vanta della sua capacità negoziale, dopo aver barattato un minimo di potere di condizionamento anti-rigoristi con la nomina della sua ministra delle Finanze alla presidenza della Banca Europea degli Investimenti (BEI).

Chi vuole contribuire a far fare passi avanti all’Unione europea dovrebbe cominciare a fare un discorso di verità. È, per chi sta all’opposizione a Roma, impossibile resistere alla spinta di accusare il governo Meloni di incapacità e di tradimento degli Italiani, sebbene con parole anche meno infuocate di quanto era abituata a urlare la nostra presidente del Consiglio a parti invertite. Ma il dato emerso, ancora una volta, ieri dall’Ecofin e, sul versante della regolazione dei flussi migratori, dal “Patto per la migrazione e l’asilo” definito da Parlamento e Consiglio dell’Unione, ha, ahinoi, cause strutturali, radici lunghe nelle storie, nelle culture, nei vissuti nazionali. Ha valenza generale: conferma, da un lato, lo spazio politico dell’Europa possibile e, dall’altro, la qualità delle classi dirigenti dei principali protagonisti “europeisti” dell’Unione europea, sia sul versante del Partito........

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