«Purtroppo nelle carceri la disponibilità del personale sanitario è particolarmente ridotta perché le carceri non vengono ritenute luoghi in cui impegnare e attivare risorse, ingiustamente. Gli operatori sanitari devono individuare l’intervento più adeguato e coerente alla situazione clinica. Laddove la situazione in carcere non è così allarmante l’attivazione della catena di intervento è purtroppo meno celere. Quindi l’attivazione di due psicologhe con colloqui frequenti era non appropriata». Con queste parole lo psichiatra forense Elvezio Pirfo, nominato dalla Corte d’Assise di Milano come consulente super partes, ha commentato il lavoro svolto dalle psicologhe del carcere in cui è detenuta Alessia Pifferi, la donna che ha lasciato morire di stenti la figlia di soli 18 mesi lasciandola sola per sei giorni. Un lavoro importantissimo, dunque, ma sottovalutato. Ed è per questo che sarebbe stato anomalo quello di chi, nel carcere di San Vittore, si sarebbe attivato per accudire Pifferi, somministrandole un test - quello di Wais - in base al quale la donna avrebbe un Qi pari a 40, quello di una bambina di 7 anni, risultando perciò incapace di comprendere le proprie azioni. Una tesi che ha fatto infuriare il pm Francesco De Tommasi, che poco dopo quel test ha iscritto sul registro degli indagati due psicologhe e l’avvocata di Pifferi, Alessia Pontenani, accusate di falso e favoreggiamento. Dopo quella che è apparsa come una requisitoria anticipata, nel corso della quale il pm ha annunciato nuovi indagati, pochi giorni fa la notizia: altre due persone indagate, altre due donne, ancora una volta psicologhe. Entrambe, ieri, hanno scelto di non rispondere alle domande del pm De Tommasi, che le aveva convocate per essere interrogate su alcuni aspetti del diario clinico e dei test somministrati a Pifferi. Stessa scelta fatta dalle altre due indagate, che secondo l’accusa avrebbero imbeccato l’imputata affinché ottenesse una perizia psichiatrica in grado di accertarle un deficit. Per Pirfo, la donna, al momento dei fatti, era capace di intendere e di volere. Una tesi totalmente diversa da quella dei consulenti della difesa, Marco Garbarini e Alessandra Bramante, secondo cui la donna presenterebbe una «menomazione del funzionamento» cognitivo, tale da farla sembrare un disco rotto. Una menomazione che sarebbe avvalorata dalle ultime scoperte della difesa, che ha trovato le pagelle nelle quali veniva indicata come portatrice di handicap e affiancata da un insegnante di sostegno.

La storia di Pifferi è utile a raccontare un cortocircuito denunciato in Aula, al Senato, da Ivan Scalfarotto, di Italia viva. Lo scorso 9 febbraio, il senatore aveva preso in prestito questa storia per raccontare le contraddizioni di un Paese in cui le morti in carcere sembrano non fare scalpore. «Credo che questa sia una enormità, ma certamente se già le persone sono poche, non vengono pagate e poi quando fanno il loro lavoro c’è anche un pubblico ministero che le mette sotto indagine, mi pare che arriviamo a un livello completamente incontrollabile. Da politico, da senatore e anche da lettore dei giornali ho trovato che fosse una notizia veramente ai limiti dell’abnormità». Scalfarotto ha detto queste parole rivolgendosi proprio al ministro della Giustizia Carlo Nordio, ricordando il dramma delle carceri: «La nostra Costituzione e il nostro ordinamento prevedono per chi sbaglia magari la perdita della libertà ha sottolineato -, ma mai la perdita della dignità». La risposta finora proposta dal governo, la costruzione di nuove carceri, non fa altro che rinviare la soluzione a data da destinarsi. Così sia Scalfarotto sia il Pd hanno ricordato l’importanza di investire sugli psicologi, categoria sulla quale si è abbattuto l’effetto “Bibbiano”, quello che, all’indomani dell’inchiesta sugli affidi, portò alla criminalizzazione degli assistenti sociali. L’indagine di De Tommasi, infatti, ha spinto operatori, volontari, associazioni e realtà legate al carcere a scrivere una lettera alla procuratrice di Milano, Francesca Nanni, e alla presidente del tribunale di Sorveglianza, Giovanna Di Rosa. «Ci preoccupa che chi dedica con fatica la propria professionalità per realizzare il mandato che la legge attribuisce al carcere venga colpito nell’esercizio del proprio lavoro», si leggeva in quella lettera. A fronte dei 69 suicidi nel 2023 e dei 32 del 2024 (erano 15 nel momento in cui la lettera è stata scritta), come «sottovalutare l’importanza dell’attività di prevenzione suicidaria, che psicologhe e psicologi svolgono quotidianamente nei confronti di tanti detenuti? Senza il loro apporto questi numeri sarebbero tragicamente più alti: le psicologhe e gli psicologi in carcere salvano vite». Un concetto semplice e inattaccabile, fatto proprio anche dal capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Giovanni Russo, che in audizione in Commissione Giustizia alla Camera ha chiarito a tutti il concetto: «Ci sono pochi psicologi, pochissimi psichiatri, risorse limitate, e su questo non è all’orizzonte un’inversione di tendenza», ha detto ai deputati che lo stavano ascoltando proprio per capire come affrontare l’emergenza suicidi. Arginabile, secondo Russo, solo con professionisti in grado di «intercettare» un «dolore che «non è patologia», ma «sofferenza che non deve essere acuita dalla permanenza negli istituti di pena». Le «risorse» scarseggiano, aveva denunciato. Nordio, ora, sempre averlo ascoltato, almeno in parte. Ora non resta che rassicurare chi lavora sul campo.

QOSHE - Dopo il caso Pifferi operatori in allarme. Le due nuove indagate scelgono il silenzio - Simona Musco
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Dopo il caso Pifferi operatori in allarme. Le due nuove indagate scelgono il silenzio

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05.04.2024

«Purtroppo nelle carceri la disponibilità del personale sanitario è particolarmente ridotta perché le carceri non vengono ritenute luoghi in cui impegnare e attivare risorse, ingiustamente. Gli operatori sanitari devono individuare l’intervento più adeguato e coerente alla situazione clinica. Laddove la situazione in carcere non è così allarmante l’attivazione della catena di intervento è purtroppo meno celere. Quindi l’attivazione di due psicologhe con colloqui frequenti era non appropriata». Con queste parole lo psichiatra forense Elvezio Pirfo, nominato dalla Corte d’Assise di Milano come consulente super partes, ha commentato il lavoro svolto dalle psicologhe del carcere in cui è detenuta Alessia Pifferi, la donna che ha lasciato morire di stenti la figlia di soli 18 mesi lasciandola sola per sei giorni. Un lavoro importantissimo, dunque, ma sottovalutato. Ed è per questo che sarebbe stato anomalo quello di chi, nel carcere di San Vittore, si sarebbe attivato per accudire Pifferi, somministrandole un test - quello di Wais - in base al quale la donna avrebbe un Qi pari a 40, quello di una bambina di 7 anni, risultando perciò incapace di comprendere le proprie azioni. Una tesi che ha fatto infuriare il pm Francesco De Tommasi, che poco dopo quel test ha iscritto sul registro degli indagati due psicologhe e l’avvocata di Pifferi, Alessia Pontenani,........

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