Il museo a lui dedicato a Napoli, nella Sala Dorica di Palazzo Reale da meno di un anno, vale la visita. Tra cimeli e memorabilia della grande voce della società di massa

Avolte perfino in Italia capita di imbattersi in cose fatte bene, e addirittura nel disastrato campo dei beni culturali. Da meno di un anno a Napoli, nella Sala Dorica di Palazzo Reale, hanno aperto un Museo Caruso che, assicurano, piace assai. Di certo, vale la visita. Curato con amore da Laura Valente, non è enorme ma completo, in un allestimento molto moderno che è il trionfo del qr-code e dell’interattivo, appoggia qui e clicca là. Ma c’è anche una modica quantità di cimeli e memorabilia: del resto, il fulcro della raccolta è il Fondo Pituello, inteso come Luciano, il collezionista ottimo massimo di memorie carusiane, integrato da altre acquisizioni. E allora ecco ritratti, busti, dischi, fonografi, lettere, ritagli di giornale (il tenorissimo era un minuziosissimo eco della stampa di sé stesso), caricature su Caruso e di Caruso, che aveva una mano notoriamente felice, come si evince anche da alcuni suoi acquerelli. Tante fotografie: la più bella, dov’è perfino bello lui, risale al 1895 circa ed è il suo primo scatto professionale da tenore, giovane, baffuto e con una cresta ingellata degna di un hipster attuale: era così povero che, poiché l’unica camicia che possedeva era in lavanderia, si mise attorno al collo quello che sembra uno scialle ed è invece un copriletto.

E poi naturalmente locandine, spartiti, costumi di scena, bauli e perfino un mobiletto con ancora una sigaretta lasciata lì mezza fumata, e qui siamo alla santa reliquia, o al feticismo. Fra le tante stranezze di Caruso, c’è anche quella che era un accanito fumatore, e alle sigarette faceva pure la réclame. Quanto agli spartiti, è noto che la musica non la sapeva leggere: il più magnifico orecchiante della storia dell’opera (anzi, uno dei due: l’altro si chiamava Luciano Pavarotti). Ma erano ancora i tempi felici in cui i tenori dovevano avere, soprattutto, una voce: essere musicisti era un optional. E la sua voce esce da ogni cuffia, trionfante, inconfondibile, nobile. Perché questo scugnizzo, nato da un fabbro di via San Giovanniello agli Ottocalli, aveva un gusto naturalmente aristocratico, composto, perfino solenne. Per secoli, anche in epoche in cui l’ascensore sociale era anche più bloccato di adesso, l’opera in Italia è stata anche questo: una formidabile occasione di riscatto sociale. Per cui, poniamo, il figlio del “trombetta” di Pesaro diventa Gioachino Rossini, e quello dell’oste delle Roncole, Giuseppe Verdi: e sono nomi che tuttora ci fanno emozionare solo a pronunciarli.

Ma la voce, da sola, non basta a spiegare il fenomeno Caruso. Fateci caso: è l’unico cantante lirico dell’evo pre-televisivo a essere conosciuto anche da chi non distingue un tenore da un basso profondo. Farinelli, sì, magari sanno chi sia, c’è stato pure il film (orrendo). Ma la Pasta o la Malibran, Rubini o Lablache li conoscono soltanto gli storici, o i veri appassionati. Errico Caruso (si chiamava così, o almeno così fu registrato all’anagrafe, con due “erre”) era nato nel 1874: anche Adelina Patti, che era del ‘43, o Francesco Tamagno, del ‘50, fecero in tempo a incidere dei dischi. Ma loro che furono popolarissimi non lo sono più; Caruso, sì. Il punto è che Caruso non è stato soltanto uno dei massimi tenori della storia dell’opera. E’ stato anche, verrebbe da dire soprattutto, la prima star operistica della società di massa. Non fu il primo tenore a incidere un disco: il titolo spetta, pare, all’oscuro Ferruccio Giannini, padre del ben più celebre soprano verista Dusolina, che nel 1895 sbraitò “La donna è mobile” e “Questa o quella” nella rudimentale macchina d’incisione di Emile Berliner. La svolta avvenne sei anni dopo, grazie ai fratelli Fred e Will Gaisberg, i veri inventori della discografia, che giravano l’Europa per convincere i cantanti famosi a incidere quelli che all’epoca tutti consideravano poco più che giocattoli. Nella primavera del 1902 fecero tappa a Milano andando a Roma per registrare gli ultimi castrati della Cappella Sistina e Leone XIII, missione compiuta nel primo caso e fallita nel secondo (ma il Papa fu poi convinto l’anno successivo: poiché era nato nel 1810, come Cavour, quel vegliardo ansimante e tremolante che recita l’Ave Maria è la voce umana più antica che possiamo ascoltare). I Gaisberg bros sentirono alla Scala Germania del barone Franchetti: “Al primo impatto – scrive il grande Michael Aspinall – Fred su soggiogato dal canto di Caruso, e riconobbe in lui la voce ideale per il grammofono, una voce tutta morbidezza, senza zone metalliche, e con un dominio tecnico che gli consentiva di non sparare acuti che avrebbero ‘sforato’ il primitivo diaframma”. Fu preso appuntamento al ritorno da Roma. Sempre Aspinall: “La mattina dell’11 aprile i fratelli Gaisberg registrarono la voce del soprano Amelia Pinto, poi nel primo pomeriggio arrivò Caruso che cantò le sue dieci arie, intascò l’assegno di cento sterline pagate direttamente dalla tasca di Fred e se ne andò, affamato, a pranzo. Non sapeva che con quell’oretta di lavoro aveva convertito il giocattolino di Berliner in uno strumento musicale”.

E, aggiungiamo, in uno straordinario mezzo di divulgazione culturale, scusate la parolaccia, che per la prima volte permise a chi non era mai entrato in un teatro, non sapeva leggere la musica o non aveva qualcuno che gliela cantasse di intuire cosa fosse quel misterioso spettacolo chiamato opera. Il disco è stato, legittimamente, un prodotto artistico e un grande business: ma anche, e forse soprattutto, un formidabile strumento di democratizzazione della musica. Certo, non solo quella d’arte. La ragione per la quale oggi è molto più facile trovare i 78 giri di Caruso che quelli dei posteggiatori o delle sciantose del café chantant è che i dischi usurati si potevamo riportare al negozio per ottenere uno sconto su quelli nuovi. I ricchi che ascoltavano l’opera non lo facevano; i poveri delle canzonette, ovviamente, sì. Che Caruso fosse la voce della società di massa fu evidente quando conquistò New York. Debuttò alla Metropolitan Opera il 3 novembre 1903, Duca nel Rigoletto, e cantò ogni stagione fino al 1920. Il precedente idolo del Met era un polacco,

Jean De Reszke (in realtà Jan Mieczyslaw), nobile o sedicente tale, alto, bello, biondo, elegantissimo, raffinato, un personaggio da Età dell’innocenza idolatrato dalle signore del bel mondo newyorchese che affollavano i suoi lever come se fosse il Re Sole. De Reszke cantava soprattutto il repertorio wagneriano e francese (fu un Roméo leggendario nella più bellépochiana delle opere, appunto il Roméo et Juliette di Gounod), e in quello italiano si arrangiava: come Radamès, per esempio, era solito tagliare “Celeste Aida”, figuriamoci. Al suo posto, arrivò questo napoletano basso, atticciato, con i vestiti vistosi e le scarpe bicolori: le May Welland di turno rimasero deluse, il pubblico borghese e proletario giubilò. Caruso era la voce dei tempi nuovi anche come repertorio: cantava le opere ottocentesche, certo, ma anche quelle della giovane scuola. Di molte fu anche il primo interprete, come dell’Arlesiana e di Adriana Lecouvreur di Cilea, del Voto e di Fedora di Giordano, delle Maschere di Mascagni, della sullodata Germania e, last but not least, anzi first in quanto capolavorissimo, della Fanciulla del West di Puccini, il primo spaghetti-western della storia. Oggi sono tutti titoli “storici” e in qualche caso anche legittimamente dimenticati: ma all’epoca era musica contemporanea. E poi Caruso faceva pubblicità e beneficenza, girava film paradossalmente muti, inondava i giornali di interviste e fotografie, incideva canzoni e soccorreva emigrati in difficoltà, usava le novità tecnologiche, il grammofono e l’automobile, il transatlantico e perfino l’aeroplano, nel 1914 a Londra: a bordo provò a vocalizzare, ma il vento fu più forte perfino della sua voce prodigiosa. E andava da Joe Petrosino a far arrestare i due boss della Mano nera, l’ur-Cosa nostra, che volevo estorcergli del denaro: e questo il Museo Caruso lo documenta con legittimo orgoglio.

Era moderno anche il suo canto. Il museo napoletano ricostruisce con minuzia la sciagurata vicenda dell’Elisir d’amore del 30 dicembre 1901, dopo il quale, com’è noto, Caruso non volle più cantare a Napoli. Non fu affatto il fiasco clamoroso che si è sempre detto, il San Carlo come “quel gran mare in tempesta” descritto a posteriori dall’impresario Nicola Daspuro. Trionfo incontestato magari no, ma Caruso dovette comunque bissare il duetto con Regina Pinkert e anche la “furtiva lacrima”. Quello che non gli andò proprio giù fu la recensione del barone Saverio Procida, che sul Pungolo si firmava “p. c. dario”. E che in teatro guidava il drappello dei cosiddetti “sicofanti”, autonominatisi esperti e custodi della tradizione. I nomi evocano irresistibilmente un film di Totò: il barone Savelli, il cavaliere Alfredo Monaco detto “Munaciello”, il marchese Cocozza (giuro che è vero) e il più titolato di tutti, il principe Adolfo di Castagneto, solito accogliere i debuttanti a Napoli ma già applauditi nel resto del mondo, ricordano Pietro Gargano e Gianni Cesarini nella loro bella biografia di Caruso, con questa micidiale sentenza: “Stasera debutta una celebrità sconosciuta”. Oggi possiamo tranquillamente dire che, pur avendo torto, Procida aveva ragione. Come ogni critico musicale, una categoria consustanzialmente negata alla comprensione della novità, giudicava gli artisti nuovi sul metro di quelli vecchi. Il Nemorino in carica era un altro napoletano, Ferdinando De Lucia, tutto un cesello, una grazia, una filatura (e anche una bella disinvoltura: era soprannominato Gondrand per i continui trasporti di tono, e in Tosca era solito chiudere “Recondita armonia” cantando “Tosca sei te” e non “tu”, perché la “e” gli veniva meglio della “u”). Il Nemorino di Caruso era molto più diretto, essenziale, sobrio e insomma moderno. Inevitabile che il barone e gli altri nobiluomini rimanessero sconcertati: anche la Callas, quando rivoluzionò il mondo dell’opera con la mera forza della sua personalità, mandandolo avanti perché lo riportava indietro, da molti non fu capita. Quello di Caruso era, insomma, il modo di cantare dei tempi nuovi: il primo tenore del Novecento.

E poi c’è la popstar. Già nella seconda seduta d’incisione della sua vita, il 30 novembre 1902, fra le romanze d’opera ne spunta una da salotto di Denza, Non t’amo più. Poi vennero i molti brani di Francesco Paolo Tosti, di cui era amicissimo, Mattinata di Leoncavallo scritta apposta per il grammofono e incisa con l’autore al piano (per la stessa serie di romanze discografiche, chiamiamole così, Leoncavallo produsse anche una Ninna nanna per il Principe Ereditario, chissà com’è) e le canzoni napoletane: Core ‘ngrato, Fenesta ca lucive, Santa Lucia, Tu ca nun chiagne, naturalmente ’O sole mio e molte altre. Furono dei clamorosi successi di vendita, forse le prime hit discografiche della storia, dando sollievo a infinite solitudini e nostalgie. Ma anche aprendo la porta a quel tenorismo pop che è via via degenerato a terrorismo del gusto. Sono lì gli incunaboli di Beniamino Gigli che incide Mamma, di Mario del Monaco che sbraita Un amore così grande, di Pippo Di Stefano che partecipa al Festival di Sanremo e di Luciano Pavarotti che lo presenta, oltre a infliggerci per anni i suoi friends (di molti dei quali, per inciso, ignorava l’esistenza fino a cinque minuti prima di duettarci.

Testimonianza personale: ero in sala prove con lui quando arrivarono le Spice Girls, all’epoca sulla cresta dell’onda, accompagnate da un incredibile codazzo di segretari, autisti, truccatori, sarte, gorilla, addetti stampa e addetti degli addetti stampa. Una delle sventurate lo salutò così: “Ehi, Pav!”. Lui, gentilissimo, provò l’atroce canzonetta poi, quando le cinque ragazze sparirono in un turbine di suiveurs, si voltò verso di me e chiese: “Oh, ma queste chi sono?”). Insomma, l’Errico è responsabile, alla lontana ma imperdonabile, delle ultime attuali degenerazioni di quel remoto modello di successo, tipo Bocelli o, quod Deus avertat, il Volo. Ma almeno Caruso e gli altri erano dei tenori veri, e che tenori, non dei replicanti plastificati.

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Caruso per sempre: primo tenore moderno e prima popstar

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22.04.2024

Il museo a lui dedicato a Napoli, nella Sala Dorica di Palazzo Reale da meno di un anno, vale la visita. Tra cimeli e memorabilia della grande voce della società di massa

Avolte perfino in Italia capita di imbattersi in cose fatte bene, e addirittura nel disastrato campo dei beni culturali. Da meno di un anno a Napoli, nella Sala Dorica di Palazzo Reale, hanno aperto un Museo Caruso che, assicurano, piace assai. Di certo, vale la visita. Curato con amore da Laura Valente, non è enorme ma completo, in un allestimento molto moderno che è il trionfo del qr-code e dell’interattivo, appoggia qui e clicca là. Ma c’è anche una modica quantità di cimeli e memorabilia: del resto, il fulcro della raccolta è il Fondo Pituello, inteso come Luciano, il collezionista ottimo massimo di memorie carusiane, integrato da altre acquisizioni. E allora ecco ritratti, busti, dischi, fonografi, lettere, ritagli di giornale (il tenorissimo era un minuziosissimo eco della stampa di sé stesso), caricature su Caruso e di Caruso, che aveva una mano notoriamente felice, come si evince anche da alcuni suoi acquerelli. Tante fotografie: la più bella, dov’è perfino bello lui, risale al 1895 circa ed è il suo primo scatto professionale da tenore, giovane, baffuto e con una cresta ingellata degna di un hipster attuale: era così povero che, poiché l’unica camicia che possedeva era in lavanderia, si mise attorno al collo quello che sembra uno scialle ed è invece un copriletto.

E poi naturalmente locandine, spartiti, costumi di scena, bauli e perfino un mobiletto con ancora una sigaretta lasciata lì mezza fumata, e qui siamo alla santa reliquia, o al feticismo. Fra le tante stranezze di Caruso, c’è anche quella che era un accanito fumatore, e alle sigarette faceva pure la réclame. Quanto agli spartiti, è noto che la musica non la sapeva leggere: il più magnifico orecchiante della storia dell’opera (anzi, uno dei due: l’altro si chiamava Luciano Pavarotti). Ma erano ancora i tempi felici in cui i tenori dovevano avere, soprattutto, una voce: essere musicisti era un optional. E la sua voce esce da ogni cuffia, trionfante, inconfondibile, nobile. Perché questo scugnizzo, nato da un fabbro di via San Giovanniello agli Ottocalli, aveva un gusto naturalmente aristocratico, composto, perfino solenne. Per secoli, anche in epoche in cui l’ascensore sociale era anche più bloccato di adesso, l’opera in Italia è stata anche questo: una formidabile occasione di riscatto sociale. Per cui, poniamo, il figlio del “trombetta” di Pesaro diventa Gioachino Rossini, e quello dell’oste delle Roncole, Giuseppe Verdi: e sono nomi che tuttora ci fanno emozionare solo a pronunciarli.

Ma la voce, da sola, non basta a spiegare il fenomeno Caruso. Fateci caso: è l’unico cantante lirico dell’evo pre-televisivo a essere conosciuto anche da chi non distingue un tenore da un basso profondo. Farinelli, sì, magari sanno chi sia, c’è stato pure il film (orrendo). Ma la Pasta o la Malibran, Rubini o Lablache li conoscono soltanto gli storici, o i veri appassionati. Errico Caruso (si chiamava così, o almeno così fu registrato........

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