Cosa c’è di più identitario, iper italiano e super nazionale dell'opera lirica? Perché non partire da qui se si vuole provare a costruire una nuova egemonia culturale?
Gran baccano mediatico al “Don Carlo” della prima della Scala, anzi anche più del consueto perché il solito noto (a noi habitué, chiaro) Marco Vizzardelli strilla dal loggione “Viva l’Italia antifascista!”, la Digos gli chiede i documenti e viene così promosso sul campo nuova icona dell’Italia democratica e antifascista con pezzi pensosi e penosi sui giornali d’opposizione ed editoriali uguali e contrari su quelli governativi (morale: il senso del ridicolo è sparito da destra a sinistra). Rissa purtroppo solo verbale fra il sottosegretario alla Cultura, Gianmarco Mazzi, e il governatore della Campania, Vincenzo De Luca, alla “Turandot” del San Carlo, a proposito della citazione o meno del Massimo napoletano nel dossier governativo sul canto lirico patrimonio dell’Unesco. E poi: loggioni che fischiano, gazzarre in teatro ed effervescenza sui social. Pare che stiamo tornando ai bei tempi dell’Ottocento: “Tutte le classi della società s’interessano a ciò che avviene alla Scala. Dal gran signore che va per sbadigliare magnificamente nei primi palchi fino all’ultimo garzone dell’ultima bottega di droghiere, che di tanto in tanto, pagando 75 centesimi, s’infila nel loggione, tutti prendono partito pro o contro la primadonna, il tenore, il basso o il maestro; è come un affare nazionale che occupa tutti gli spiriti e fa trattenere il fiato all’immaginazione di ognuno”: questo è Liszt nel maggio 1838, reportage per la Revue musicale et gazette de Paris (al solito, solo gli stranieri sanno davvero raccontare l’Italia).
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