Rihanna con il velo, scansate: ci avevano pensato già Raffaella Carrà e Loredana Bertè. In Italia assistiamo all'esibizione in velo e reggicalze da almeno cinquant'anni

In quell’ambiente culturale un po’ rallentato, disorientato e bigotto che sono diventati gli Stati Uniti (non sono stati ancora calcolati i danni del woke e i risvolti sociali della battaglia per il diritto all’aborto, ma qualcosa si inizia a percepire), succede che Rihanna si vesta da suora sexy per il servizio di copertina del mensile Interview e che scoppi il finimondo, per il nostro sommo stupore visto che assistiamo all’esibizione di cantanti e attrici e ballerine in velo e reggicalze da circa cinquant’anni in televisione, e da oltre cinquecento sulla stampa e in particolare in quel gran florilegio letterario erotico che parte dal diciassettesimo secolo, tocca con molta malinconia l’Ottocento (Marianna de Leyva monaca di Monza, la Capinera di Verga) e arriva fino ai fumetti degli anni Settanta quasi senza soluzione di continuità.

Mentre i social nordamericani si riempivano di vibranti proteste, fiancheggiate perfino dai musulmani ai quali, tendiamo a non ricordarlo, abbiamo fornito noi giudeo-cristiani l’idea del velo femminile già dall’Antico Testamento (“come sei bella, amica mia, come sei bella. I tuoi occhi, dietro il tuo velo, somigliano a quelli delle colombe”), ribadendolo poi con san Paolo, gli account Instagram nazionali si affollavano di foto di Loredana Bertè ripresa di tre quarti con il soggolo sulla copertina dell’album “Traslocando”, anno di grazia 1982. Le immagini erano sottolineate da un commento pressoché identico e univoco: “Qualunque cosa facciano in America, la Bertè l’ha fatto prima”, che è un’iniziativa patriottica notevole e anche interessante per misurare l’effetto di una cantante settantenne sulle folle dei ragazzini dopo la recentissima apparizione sanremese (titolo del brano, “Pazza”), non fosse che anche la Loredana nazionale, cioè la figura canora di massimo rilievo alla quale approdi la cortissima memoria social, ha a sua volta infiniti predecessori e uno in particolare: Raffaella Carrà in un balletto di “Ma che sera” del 1978, quel programma disgraziato che in genere si evoca per due motivi: la sigla “Tanti auguri”, ormai assurta a terzo inno nazionale dopo Mameli e il “Va’ pensiero”, e la coincidenza del suo debutto con il rapimento di Aldo Moro.

Era l’apogeo e insieme la fine degli Anni di piombo, e i dirigenti di viale Mazzini, ancora ampiamente diccì, avevano voluto confezionare uno show lenitivo, obnubilante, con testi scoppiettanti di Gianni Boncompagni e Dino Verde sul modello del “Gran varietà” radiofonico, perché la gente potesse svagarsi un po’ fra una gambizzazione e l’altra: in scena avevano chiamato Bice Valori, Paolo Panelli, Alighiero Noschese e lei, Raffaella, tornata da anni di tournée all’estero. La vestiva Luca Sabatelli, il futuro Luca-Luca-cosa-ti-è-successo, già all’epoca abilissimo ed elegantissimo prestigiatore di provocazioni e soluzioni osé, che poi sarebbe diventato il costumista di riferimento di tutte le vedette televisive, ma di Raffaella in particolare, fino alla scomparsa di entrambi. “Credevo di poter fare tutto”, mi raccontò attorno al 2014, mentre preparavamo la mostra per i sessant’anni della televisione al Vittoriano, “e vestii la Carrà con una mini-tonaca da monaca, soggolo e giarrettiere a vista, mettendola poi seduta su una grossa mela di polistirolo”.

Voleva essere un omaggio ai Beatles e i ballerini, sostanzialmente nudi, portavano bombette al posto del cache sex: vista ancora adesso, Rihanna scansate. Lo scandalo si propagò infatti come un terremoto in mezza Europa, i quotidiani cattolici ma anche laici insorsero, e da quel momento i dirigenti Rai, che avevano dato a fatica l’assenso a quel numero purché fosse ripreso “a considerevolissima distanza”, iniziarono a presentarsi in studio all’ora della registrazione per seguire i cambi di scena degli spettacoli in cui il nome Sabatelli figurava alla voce “costumi di”.
Otto anni dopo, sempre a firma di quell’insopprimibile fiorentino di piccola nobiltà a cui nessuno, nemmeno la folta comunità lgbtq+, ha riconosciuto in questi anni i molti meriti nel prendersi gioco delle convenzioni vestimentarie borghesi, arrivò il secondo scandalo importante, cioè la finta gravidanza inscenata da Bertè nell’esibizione sanremese di “Re”, un testo già abbastanza provocatorio di suo sulla sottomissione femminile. Nel 2011, l’idea della finta pancia rispuntò, sempre negli Stati Uniti dove non a caso hanno messo radici i più famosi stylist e coreografi italiani, da Luca Tommassini in giù, in un concerto di Lady Gaga come sottolineatura visiva della canzone “Bad romance”, che peraltro riprende anche lo stesso concetto del testo di Pino Mango, cioè una donna vittima di quella che adesso si definisce “relazione tossica”.

Firmava il look lo stilista-stylist Nicola Formichetti, un italo-giapponese cresciuto a Roma, che pochi mesi prima aveva vestito la stessa Lady Gaga di bistecche, e Sabatelli se la prese moltissimo per via della forma del posticcio: “per Bertè”, lui l’aveva voluto a punta, in pelle colorata come un pallone da rugby, sfacciatamente falso, “quasi alieno”, proprio per non offendere nessuno, perché le donne vittime di violenza non avessero a subirne una anche dal palco di Sanremo, e ora arrivava quel pallone grosso, tondo e volgare a mettere in imbarazzo tutte le donne del mondo; qualcosa che lui, religiosissimo e in ogni caso sedotto come quasi tutti gli omosessuali dalla mistica femminile e dal potere ancestrale del matriarcato, non avrebbe fatto mai.

Ed ecco che dal tema della maternità torniamo alla sua negazione e a quel concetto di castità femminile forzata attorno alla quale grava, da secoli, una morbosissima curiosità. Rihanna, che peraltro poco prima della pandemia aveva chiesto a un altro grande esploratore della simbologia cristiana, John Galliano, di disegnarle un abito da papessa per il Met Gala, è solo l’ultima frequentatrice, a giudicare dalle foto neanche la migliore, di un immaginario che, da questo lato dell’Oceano Atlantico, nutriamo e ingigantiamo da millenni. Nessuna funzione femminile è mai stata analizzata con tanto interesse, nessun ruolo esposto ad altrettante maliziose congetture e a pratiche letterarie così fantasiose. Anche perché questo ruolo viene da molto lontano, essendo un derivato delle perdutissime cerimonie iniziatiche femminili, e risponde a un netto cambiamento in una sola pratica: quella sessuale, e nemmeno sempre, perché è noto che le vestali fossero e restassero vergini, al contrario per esempio delle leggendarie sacerdotesse del tempio di Venere Ericina che pare praticassero la prostituzione sacra (considerato a quale faticosa ascensione rocciosa dovessero sottoporsi i marinai che lì cercavano conforto e oracoli doveva valerne la pena).

Sebbene, oltre alla statuaria greca e romana, anche quella un po’ labile e interpretabile, non esistano testimonianze precise sulle incombenze sacerdotali femminili precristiane proprio per il mistero che le circondava (“a sette anni ero arrefora; a dieci trituravo il grano per la nostra signora; in seguito, vestita di una stola gialla, fui orsa alle Brauronie; infine, divenuta grande e bella, fui canefora e portai una collana di fichi secchi”, dice il coro nella “Lisistrata” di Aristofane, si tratta dell’informazione più approfondita di cui si sia venuti in possesso perché nessuno ha mai saputo, per esempio, quali oggetti si portassero alla dea Atena nelle arreforie), sarebbe difficile separare nettamente le pratiche e le incombenze quotidiane di una sacerdotessa di Atena da quelle di una monaca del Rinascimento, a eccezione di quel punto lì. E non a caso proprio su questo punto alcuni stati, come la Repubblica di Venezia, tendevano a chiudere un occhio e anche due, ben sapendo come, fra le famiglie nobili o abbienti, la maggior parte delle monacazioni rispondesse alla sola legge del maggiorascato e la permanenza a vita di una giovane nei molti conventi della Laguna dovesse dunque assumere il carattere di una vita di comunità fra donne, aperta alle visite e tollerante, come peraltro è facilmente verificabile dal cospicuo numero di ritratti di belle donne graziosamente velate e molto scollate conservati nei musei veneziani e, nelle sue derivazioni letterarie perverse, nelle comunità dedite a pratiche erotiche raccontate, in buona parte immaginate, per esempio da De Sade.

Insomma, è evidente che nella millenaria evoluzione della vita femminile da quella iniziatica a quella religiosa cattolica non tutto si sia perso, ed è forse questo il motivo per il quale, attorno alla figura della “sorella”, consacrata sposa di Cristo, e della sua repressione sessuale, spesso narrata o evocata dalle stesse monache come un fuoco nascosto ma vivissimo, da sublimare nella preghiera e nella devozione (suor Arcangela Tarabotti, Enrichetta Caracciolo o Marguerite Delamarre, suora delle clarisse di Longchamps, che nel 1758 chiese di uscire dal convento dove la madre l’aveva rinchiusa perché frutto di un amore clandestino, e alla quale Denis Diderot si ispirò per il romanzo “La religieuse”, pubblicato postumo nel 1796), sia fiorito un immaginario che spazia dalla letteratura seria a quella di consumo erotico fino al cosplay. Forse solo il costume da infermiera rivaleggia con quello da suora nelle vendite per le feste di Halloween e per le cene eleganti. Perfino su Temu, la piattaforma cinese di ultra fast fashion che evidentemente nulla sa e nemmeno immagina del rapporto fra l’occidente e la sua religione maggiormente praticata, si può comprare per sette euro e quarantacinque centesimi un set da suora “composto”, riproduco come è elencato, errori lessicali compresi, “da quattro pezzi: cappello da suora, colletto da suora, calze da suora e croce”. Le calze proposte sono un paio di parigine nere con una lunga croce bianca lavorata a maglia lungo tutta la gamba, e la croce non reca per fortuna il crocifisso inchiodato, però ci verrebbe da dire che il musulmano che ha dato man forte ai detrattori di Rihanna per la tonaca scollata e la puntina di lingua esposta sul mensile accanto alle solite, trite dichiarazioni sulla indefettibile religiosità e su come sia disposta ad accogliere “tutti i figli che Dio vorrà mandarmi” un po’ di ragione l’avesse, quando ha scritto su Instagram che i cattolici sono un filo troppo tolleranti con i loro simboli. E’ la vecchia storia: se credi, perché bestemmi, se non credi, perché bestemmi.

C’è anche da dire che, fumettacci Anni Settanta e film horror a parte, noi sappiamo metterci del nostro anche in linea diretta. Scorrendo sul web fra infiniti titoli pruriginosi, ho scovato un fatterello del 2008 piuttosto interessante, e cioè un concorso di bellezza online per religiose: “Sister Italia”. L’iniziativa, spiegava alla Stampa il suo ideatore, padre Antonio Rungi, “passionista giornalista” come da definizione in apertura del suo profilo personale sul web (“dodicimila articoli scritti”), avrebbe dovuto tenersi in contemporanea a miss Italia ed eleggere “la suora d’Italia, sfatando il pregiudizio che a farsi suore siano solo ragazze non avvenenti” e mostrando “nel rispetto del pudore e della vita di consacrazione al Signore, anche i volti belli dei monasteri e dei conventi: religiose che provengono da paesi ove la bellezza è una costante ma anche italiane doc”. Come dire, sarebbero potute scendere nell’agone anche le chiattone nazionali e non solo certe stangone che il buon Dio manda nei conventi dall’Etiopia o dalla Svezia. Forse era una provocazione, forse il nostro teologo non troppo inclusivo e molto maschilista venne fermato mentre dichiarava il suo proposito, dopo una fase di rodaggio, di far partecipare direttamente le suore a miss Italia, nel concorso ufficiale, “naturalmente rivedendo le norme attuali”, insomma senza metterle in mutande o in costumino cosplay con le giarrettiere. Della favolosa kermesse che avrebbe dovuto riscattare le monache da secoli di “immaginario collettivo” penalizzante, di una donna “delusa dalla vita e non realizzata” non si è mai più sentito parlare. Padre Rungi, ultimamente, ha proposto una Settimana Santa senza social.

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Suore in amore: quanta moda è stata ispirata dal fuoco della vita monacale

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22.04.2024

Rihanna con il velo, scansate: ci avevano pensato già Raffaella Carrà e Loredana Bertè. In Italia assistiamo all'esibizione in velo e reggicalze da almeno cinquant'anni

In quell’ambiente culturale un po’ rallentato, disorientato e bigotto che sono diventati gli Stati Uniti (non sono stati ancora calcolati i danni del woke e i risvolti sociali della battaglia per il diritto all’aborto, ma qualcosa si inizia a percepire), succede che Rihanna si vesta da suora sexy per il servizio di copertina del mensile Interview e che scoppi il finimondo, per il nostro sommo stupore visto che assistiamo all’esibizione di cantanti e attrici e ballerine in velo e reggicalze da circa cinquant’anni in televisione, e da oltre cinquecento sulla stampa e in particolare in quel gran florilegio letterario erotico che parte dal diciassettesimo secolo, tocca con molta malinconia l’Ottocento (Marianna de Leyva monaca di Monza, la Capinera di Verga) e arriva fino ai fumetti degli anni Settanta quasi senza soluzione di continuità.

Mentre i social nordamericani si riempivano di vibranti proteste, fiancheggiate perfino dai musulmani ai quali, tendiamo a non ricordarlo, abbiamo fornito noi giudeo-cristiani l’idea del velo femminile già dall’Antico Testamento (“come sei bella, amica mia, come sei bella. I tuoi occhi, dietro il tuo velo, somigliano a quelli delle colombe”), ribadendolo poi con san Paolo, gli account Instagram nazionali si affollavano di foto di Loredana Bertè ripresa di tre quarti con il soggolo sulla copertina dell’album “Traslocando”, anno di grazia 1982. Le immagini erano sottolineate da un commento pressoché identico e univoco: “Qualunque cosa facciano in America, la Bertè l’ha fatto prima”, che è un’iniziativa patriottica notevole e anche interessante per misurare l’effetto di una cantante settantenne sulle folle dei ragazzini dopo la recentissima apparizione sanremese (titolo del brano, “Pazza”), non fosse che anche la Loredana nazionale, cioè la figura canora di massimo rilievo alla quale approdi la cortissima memoria social, ha a sua volta infiniti predecessori e uno in particolare: Raffaella Carrà in un balletto di “Ma che sera” del 1978, quel programma disgraziato che in genere si evoca per due motivi: la sigla “Tanti auguri”, ormai assurta a terzo inno nazionale dopo Mameli e il “Va’ pensiero”, e la coincidenza del suo debutto con il rapimento di Aldo Moro.

Era l’apogeo e insieme la fine degli Anni di piombo, e i dirigenti di viale Mazzini, ancora ampiamente diccì, avevano voluto confezionare uno show lenitivo, obnubilante, con testi scoppiettanti di Gianni Boncompagni e Dino Verde sul modello del “Gran varietà” radiofonico, perché la gente potesse svagarsi un po’ fra una gambizzazione e l’altra: in scena avevano chiamato Bice Valori, Paolo Panelli, Alighiero Noschese e lei, Raffaella, tornata da anni di tournée all’estero. La vestiva Luca Sabatelli, il futuro Luca-Luca-cosa-ti-è-successo, già all’epoca abilissimo ed elegantissimo prestigiatore di provocazioni e soluzioni osé, che poi sarebbe diventato il........

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