Roma 11 aprile 2024 – “Io non sono nero, io sono O.J. Simpson”. Niente più di questa frase può spiegare la parabola dell’uomo che nacque nero, si fece bianco nella gloria dello sport e di Hollywood e tornò nero nella polvere di un’aula di tribunale e di un’accusa di duplice omicidio.

La storia di Orenthal James Simpson – nato a San Francisco il 9 luglio 1947 e morto ieri dopo una sola vita che è sembrata mille – rappresenta più di ogni altra la visione di un’America divisa, cresciuta attorno a una violenta e profondissima spaccatura razziale, laddove O.J. Simpson rappresentava tutto e il contrario di tutto: il nero che ce l’aveva fatta, diventando una stella del football e poi del cinema; poi il nero che non si sente più nero e non è ’più’ nero perché i bianchi lo amano ma, proprio per questo, i neri non lo vedono più come uno di loro. Non farà mai niente per la comunità nera del suo paese, ma sarà l’America nera che lo trasforma in qualcosa che non era mai stato: un’icona, un simbolo. Perché poi viene il giorno in cui il nero, da bianco, torna nero, in un’aula di tribunale, dove un gruppo di avvocati riuscirà nell’impresa di farlo passare come una povera vittima del sistema (in quanto nero) e farlo assolvere per il brutale delitto della bellissima, biondissima e bianchissima moglie Nicole Brown e del suo presunto amante, il cameriere Ronaldo Goldman.

Togliamoci il dente: O.J. era colpevole? Sì, al 99,99%. Ma, come disse uno dei suoi sette avvocati, la superstar del Foro di Los Angeles, Robert Shapiro, “non solo abbiamo giocato la carta della razza, ma l’abbiamo giocata sottobanco”.

E non fu sincero fino in fondo, l’avvocato Shapiro, perché col cavolo che la carta razziale venne giocata sottobanco, ma fu calata in piena aula, trasformando un ’semplice’ processo per duplice omicidio in una sfida all’Ok Corral fra ’noi’ e ’loro’, fra neri e bianchi. Dove O.J., incredibilmente, riusci nell’impresa di passare come nero, quando per tutta la vita aveva cercato di smacchiarsi la pelle e l’anima per piacere ai bianchi.

Ma tutto questo avviene dopo. Perché nel mondo di prima si parla di O.J. Simpson in quanto stella della National Football League e della squadra dei Buffalo Bills, dal 1969 al 1977, e poi dei San Francisco 49ers, la squadra della sua città, a fine carriera: era un fantastico runningback, O.J., capace di polverizzare ogni tipo di record: nel 1973 è il primo giocatore a correre per più di duemila yard in 14 partite della stagione Nfl. E’ una stella, forse la prima vera stella che travalica i confini dello sport: pubblicità, fama, soldi, donne. Diventa il primo uomo a dimostrare che i bianchi avrebbero comprato i prodotti pubblicizzati da un nero. Addirittura nel 1977 Andy Warhol lo immortala in un suo celebre ritratto. Tutti vogliono O.J., l’uomo dal sorriso contagioso. Infatti, finita la carriera sportiva (brillante sì, ma senza alcuna vittoria di squadra), lo vuole anche Hollywood, che a cavallo degli anni ’90 lo fa coprotagonista della trilogia comica ’Una pallottola spuntata’.

Vola altissimo O.J., molto più di quanto abbia mai fatto su un campo di football: è il primo nero a entrare in un golf club aperto a soli bianchi, è il primo nero a organizzare party nella sua villa con i poliziotti di Los Angeles. E’ il primo per tante cose, ma il mito insegna che volare troppo vicino al sole fa bruciare le ali e O.J. si brucia, ma si brucia in modo clamoroso, epocale, in diretta tv nazionale.

Perché il 13 giugno 1994 a Brentwood, un quartiere residenziale di West Los Angeles, vengono ritrovati i cadaveri dell’ex moglie 35enne Nicole, dalla quale aveva divorziato due anni prima, e del suo amico cameriere Ronald Lyle Goldman. Il corpo di Nicole è aperto dalla gola in giù, venti coltellate sono state inferte sull’uomo. E il sangue è ovunque, sul cancello, sul vialetto della villa, sui corpi straziati. E poi il guanto ritrovato che doveva essere dell’assassino, di O.J., ma che a O.J. non calzava: una delle prove con cui la difesa persuase la giuria di una manomissione intenzionale della scena del crimine da parte della polizia.

Il 13 è il giorno del delitto, ma il 17 cambia l’America: O.J. deve costituirsi e invece di farlo prende un fuoristrada e inizia a scappare per le autostrade di Los Angeles, seguito da decine di auto della polizia e di telecamere. E’ quello che Kato Kaelin – suo vicino di casa e testimone al processo – definì “uno dei più grandi party che Los Angeles abbia mai visto”, con decine di persone ai bordi delle strade a incitarlo con cartelli “Free O.J.” e “Go, O.J., go”.

Addirittura viene stravolto il palinsesto delle tv per seguire la fuga di O.J.: la diretta della finale dell’Nba si riduce a quadratino nella parte bassa dello schermo e oltre 95 milioni di persone passano da Houston Rockets-New York Knicks alla messa in onda della follia di un uomo solo. Che alla fine si arrende e va alla sbarra. E il delirio continua. Anzi, cresce.

Il processo a O.J. Simpson spacca in due l’America: bianchi contro neri, ancora. A un mese dall’omicidio il 63% dei bianchi pensa che O.J. fosse colpevole, mentre il 56% dei neri lo giudica innocente. Più di un anno dopo, il 77% dei bianchi è colpevolista, mentre il 72% dei neri resta innocentista.

In O.J. – il nero meno nero possibile – i neri intravedono un riscatto, il risarcimento per tutti i torti e le discriminazioni subite. E il ballo in aula viene guidato da Johnnie Cochran, l’avvocato afroamericano della difesa, che trasforma un duplice omicidio evidente in uno scontro razziale dove il povero nero, O.J., è finito nel tritacarne del Los Angeles Police Department, un covo di poliziotti razzisti e fascisti.

Uno dei responsabili delle indagini, il detective Mark Fuhrman, viene fatto a pezzi in aula dalla difesa dopo che salta fuori il suo uso abituale della parola ‘negro’: non conta l’indagine, contano le parole. La forma diventa sostanza. Fuhrman è quello che trova due guanti all’interno della villa, uno dei quali è impregnato del sangue di Nicole. In aula, O.J. è costretto a indossarli, mostrando platealmente alla giuria che sono troppo piccoli per la sua taglia. E’ un’altra bufala: quei guanti sono extra large, ma l’usura li ha ristretti. E per l’accusa è la batosta definitiva, sigillata nella requisitoria finale dell’avvocato Cochran con uno slogan passato alla storia: «If it doesn’t fit, you must acquit». Tradotto: «Se non calza, si rilascia». Game over.

Una strategia stomachevole, ma alla fine vincente. Il processo a O.J. Simpson dura 267 giorni, coinvolge 133 testimoni, mostra 1105 prove e deposita 45.000 pagine di trascrizione in tribunale. Tutto in diretta tv. La giuria delibera in poche ore per la non colpevolezza dell’imputato: sono dodici persone che vivono in una camera d’albergo da mesi. Otto di queste 12 persone sono donne afroamericane e addirittura 9 su 12 hanno un conto in sospeso con i bianchi. Dopo il verdetto, uno dei giurati esce dall’aula con il pugno alzato, un gesto che vuole rifarsi all’atto di protesta di Tommie Smith e John Carlos alle Olimpiadi di Città del Messico del 1968; solo dopo si scopre che era stato un membro delle Black Panthers.

O.J. viene assolto in sede penale, ma poi giudicato colpevole nella causa civile (che non prevede però la galera) intentata dalle famiglie delle vittime due anni dopo. Nel 2008 viene condannato a 33 anni di carcere (dei quali nove senza libertà vigilata) per rapina a mano armata e sequestro di persona; viene liberato nel 2017 e rimarrà in libertà vigilata fino a ieri, quando è morto.

La sua storia racconta che è pericoloso uccidere i simboli, anche se sono assassini. Perché nel sogno di un riscatto che crollò con lui, morì anche la speranza che O.J. aveva regalato all’America nera, quella stessa America dalla quale lui stesso era voluto scappare. Oltre il football. Oltre la Giustizia. E che alla fine, contro ogni logica, lo aveva salvato. Ma, in fondo, non da se stesso.

QOSHE - La morte di - Gigi Paoli
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Roma 11 aprile 2024 – “Io non sono nero, io sono O.J. Simpson”. Niente più di questa frase può spiegare la parabola dell’uomo che nacque nero, si fece bianco nella gloria dello sport e di Hollywood e tornò nero nella polvere di un’aula di tribunale e di un’accusa di duplice omicidio.

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Togliamoci il dente: O.J. era colpevole? Sì, al 99,99%. Ma, come disse uno dei suoi sette avvocati, la superstar del Foro di Los Angeles, Robert Shapiro, “non solo abbiamo giocato la carta della razza, ma l’abbiamo giocata sottobanco”.

E non fu sincero fino in fondo, l’avvocato Shapiro, perché col cavolo che la carta razziale venne giocata sottobanco, ma fu calata in piena aula, trasformando un ’semplice’ processo per duplice omicidio in una sfida all’Ok Corral fra ’noi’ e ’loro’, fra neri e bianchi. Dove O.J., incredibilmente, riusci nell’impresa di........

© il Resto del Carlino


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