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LIVORNO Quella volta che de Bernart bocciò a solfeggio Mario Menicagli. «Dicono di me che sono uno a cui la parola non manca, ma l’idea di dover parlare di Massimo de Bernart mi provoca un blocco totale, accompagnato da un inevitabile groppo alla gola; da sempre. Raramente riesco a parlare di lui in pubblico e per questo oggi preferisco scrivere». Il direttore del Teatro Goldoni, Mario Menicagli racconta il “suo” Massimo de Bernart. Venerdì 1 marzo alle 21 il concerto-evento in cui il Teatro lo ricorda, ovvero “Vent’anni senza massimo”. «Ho conosciuto il maestro a metà degli anni ’70 e se è stato, come è stato, assolutamente amore, non lo è stato certo a prima vista: avevo l’età in cui si giudicano i professori in base alle valutazioni ricevute e, dato che le mie non erano entusiasmanti, non posso dire di essere stato, all’epoca, folgorato dal suo carisma».

Srotola i ricordi: «Massimo de Bernart arrivò all'Istituto Mascagni come docente di solfeggio, preceduto da una fama che lo descriveva come severo e terribilmente esigente, cosa che non tranquillizzava certo gli allievi, soprattutto quelli meno studiosi come me: il responso alla fine del mio secondo anno di solfeggio, condiviso con altri compagni di studi, alcuni dei quali diventati validi musicisti e di cui non faccio nomi per motivi di “privacy", fu quello di una secca bocciatura». Non solo. «Anni dopo, ho saputo proprio da lui, che la mia permanenza al Mascagni fu “salvata" dal suo amico e mio indimenticabile maestro di violino, Stefano Michelucci che, non cedendo all’invito di Massimo De Bernart a dissuadermi dal continuare gli studi decise, per convincerlo, di invitarlo ad una mia lezione di violino che terminò con un suo: “come faccio a farlo smettere?”». Il tempo passa: «All’inizio degli anni ‘90 Marco Bertini e Alberto Paloscia mi chiesero di ricoprire il ruolo di “Spalla dei primi violini” nei Teatri di Livorno, Pisa e Lucca ma il mio entusiasmo fu subito placato dalla notizia che a dirigere la mia prima opera, Lodoletta, sarebbe stato proprio lui: il maestro de Bernart. Andai a trovarlo al “vecchio Mascagni”, sperando che non si ricordasse di me, ma il suo “benvenuto” non dette adito a dubbi: “Il solfeggio l’hai imparato?”, la mia pronta risposta fu: “Il solfeggio non si impara mai maestro”. Da lì un sorriso che non ha mai avuto fine».

E che Menicagli ricorda: «Alcune volte, durante le prove dei quattro anni di collaborazione, mi “sistemava” al suo posto sul podio per andare ad ascoltare l’orchestra da lontano, in fondo al teatro, incurante delle mie preghiere nel dissuaderlo per evitare di farmi fare figuracce con i miei colleghi. Allora, l’idea che un giorno avrei diretto era lontana da me anni luce». Poi la “prima”. «Quando decisi di farlo, il maestro ricevette l'invito alla mia “prima” soltanto la mattina della recita, certo che altri impegni avrebbero reso impossibile la sua presenza, cosa che ovviamente temevo. In realtà non venne perché da qualche minuto, mi disse al telefono, aveva avuto un responso che evidenziava “qualche problemino di salute”. Ma l’anno seguente, alla mia seconda direzione assoluta, nel “Silvano" di Mascagni, pur in condizioni più precarie, si presentò a Villa Carmignani a Collesalvetti».

Gratitudine, riconoscenza. «Aveva un’ora di autonomia per tornare a Firenze, mi spiegò dopo la recita, ma ci teneva a dirmi "tre cose, tre piccoli consigli”; uno, forse il più irrilevante, riuscì a darmelo subito, per gli altri mi invitò a casa sua. Le sue condizioni di salute precipitarono e non trovai mai il coraggio di andare da lui e sentirmeli dire: li ho sempre cercati illudendomi di trovarli e con questo spirito da allora ho continuato a fare musica sostituendo senza troppi rimpianti il mio strumento, il violino, con la bacchetta».

Il racconto del “suo” Massimo va avanti. «Ho iniziato mentre lui se ne stava andando e quando dirigo non passa momento in cui non tenga a mente la sua dedizione, l’attenzione ai particolari, i suoi respiri, le sue ansie e l'entusiasmo che ci trasmetteva: uniche qualità che posso tentare di imitare per cercare di trasmettere quanto più possibile porto di lui con me». Menicagli chiude: «Di più non ho avuto il tempo di chiedergli e confesso che questo è l'unico rimpianto che ho riguardo al teatro, mondo da cui, sinceramente, ho avuto mille volte di più di quanto ho dato».l




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«Quando Massimo mi bocciò a solfeggio». Il direttore del Teatro Goldoni di Livorno Menicagli ricorda il maestro de Bernart

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29.02.2024

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LIVORNO Quella volta che de Bernart bocciò a solfeggio Mario Menicagli. «Dicono di me che sono uno a cui la parola non manca, ma l’idea di dover parlare di Massimo de Bernart mi provoca un blocco totale, accompagnato da un inevitabile groppo alla gola; da sempre. Raramente riesco a parlare di lui in pubblico e per questo oggi preferisco scrivere». Il direttore del Teatro Goldoni, Mario Menicagli racconta il “suo” Massimo de Bernart. Venerdì 1 marzo alle 21 il concerto-evento in cui il Teatro lo ricorda, ovvero “Vent’anni senza massimo”. «Ho conosciuto il maestro a metà degli anni ’70 e se è stato, come è stato, assolutamente amore, non lo è stato certo a prima vista: avevo l’età in cui si giudicano i professori in base alle valutazioni ricevute e, dato che le mie non erano entusiasmanti, non posso dire di essere stato, all’epoca, folgorato dal suo carisma».

Srotola i ricordi: «Massimo de Bernart arrivò all'Istituto Mascagni come docente di solfeggio, preceduto da una fama che lo descriveva come severo e terribilmente esigente, cosa che non........

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