«Ho 47 anni. Con le leggi che cambiano, anno dopo anno, ne devo lavorare altri 18. Mi sono detta: «Ma ce la fai in questa situazione per altri 18 anni? Chiunque oggi lavora in ospedale dice che “se avesse il coraggio si licenzierebbe”. Io ho lasciato l’Asl a novembre e non tornerei indietro». A raccontare la sua fuga dall’ospedale, impiego pubblico, contratto a tempo indeterminato e stipendio garantito, è la pistoiese Francesca Terzaroli. Infermiera. Ventitré anni trascorsi in ospedale: sala operatoria, pronto soccorso, oncologia. Sempre in prima linea fino allo scorso novembre. E ora una nuova vita, con la partita Iva.

Qual è il motivo per cui ha lasciato il suo lavoro all’Asl?

«La mancanza assoluta di meritocrazia. In Asl non contano nulla gli anni di esperienza che hai. Ci sono colleghi che per un trasferimento sono passati dalla terapia intensiva di Firenze alla Medicina a Pistoia. Non per sminuire il reparto di Medicina ma se arriva un collega che ha anni e anni di terapia intensiva in un grande ospedale mi sembra scontato sfruttare subito le sue grandi competenze. Invece no, non accade».

Qual è stato però l’episodio che l’ha convinta a cambiare vita?

«Sentirmi prigioniera del mio tesserino. Sentirmi un numero nonostante l’impegno. Sono venuta via dal pronto soccorso l’anno successivo al Covid, al termine del 2021. La pandemia ci ha stroncati. Ci siamo fatti trasferire in altri reparti quasi in trenta. C’è stato un cambio generazionale quasi completo nel pronto soccorso dell’ospedale di Pistoia. Per noi colleghi, i vecchi che sono rimasti, sono i “temerari”. Anche per i medici è stato lo stesso, molti si sono dimessi per andare in cliniche private».

Qual era il suo lavoro ?

«Turni massacranti di 12 ore, dall’ingresso alla fine della giornata senza mai fermarsi un attimo, il giorno dello “smonto” serviva per recuperare fisicamente la notte e il giorno del riposo spesso veniva saltato perché dovevamo rientrare. Ho lasciato l’Asl con 60 giorni di ferie da fare. Mi sono detta: se devo lavorare tanto, sacrificare la mia vita ed essere dipendente di un posto che non mi valorizza per nulla non vale più la pena. Io ci sono stata 23 anni e quel lavoro fu la realizzazione di un sogno».

Ha lasciato la corsia e gli ambulatori di un lavoro pubblico per prendere la partita Iva. Una scelta che in tanti considerano irresponsabile.

«Per alcuni aspetti è vero. Tutti i diritti che, anche come delegata sindacale, ho rivendicato nel pubblico posso scordarli. Come l’aspettativa di cui mi sto avvalendo come “salvagente”. Quando c’era qualcosa che non funzionava in Asl ero io a fare la prima segnalazione, ora come libera professionista, deve cambiare molto la mentalità. Non vorrei dare l’impressione ai miei colleghi che sono rimasti in Asl che fuori è tutto bello e dentro tutto sbagliato. Ma io ho fatto una mia scelta e la rifarei».

Ma ora cosa fa esattamente?

«Io ora faccio l’assistenza domiciliare e lavoro in un centro con 80 medici, seguo la parte degli ambulatori per le prestazioni a domicilio. E a breve entrerò in alcuni studi di medici di famiglia per le terapie infermieristiche. Sono una libera professionista. Io presto il mio servizio, vengo pagata a ore e rimetto la fattura a fine mese. Sono la titolare di me stessa. Mi sento come liberata».

Perché liberata?

«Ho la mia soddisfazione professionale e il riconoscimento da parte del paziente. In Asl sei un dipendente pubblico e i pazienti sono arrabbiati se mancano le risposte. Tu, in quel momento, sei quello che rappresenta l’azienda e i pazienti ti buttano addosso tutte le frustrazioni. Sono momenti in cui sono fragili. Ti dicono: “Lo stipendio te lo pago e quindi mi devi dare questo servizio”. E tu sei in mezzo. Ora invece vado da un paziente, mi paga, e c’è un rapporto diverso: cerca uno scambio, una collaborazione, si affida riconoscendo una mia professionalità. Nel pubblico invece è tutto scontato. Perfino se il servizio fa schifo diventa scontato. Ed è sbagliato anche questo».

Poi c’è il tema degli orari.

«Se ho un’esigenza non mi segno niente sull’agenda. Certo, non riscuoto. All’Asl se avevi bisogno e non ti veniva dato il permesso andavi a lavorare. Spesso capitava di essere richiamato al lavoro. E non avevi mai una timbratura regolare del cartellino».

Gli altri colleghi come fanno a sostenere un lavoro così pesante senza avere in cambio riconoscimenti?

«Sono insoddisfatti. In settimana mi hanno chiamato due colleghe dicendomi che avevo avuto tutto il coraggio del mondo. È stato coraggioso certo, non ho dormito per un mese e mezzo pensando che se non avessi lavorato non avrei avuto uno stipendio. Ho due figli che ancora studiano. Invece ora mi sento bene, non ho più il pensiero di arrivare, timbrare quel cartellino ed entrare in quella routine. Per quanto ami il mio lavoro e trovassi gioia nel rapporto con i pazienti era una guerra continua: abusi, non rispetto delle regole e del contratto. Ero veramente disperata. Mi chiamano le colleghe e mi dicono: “Devo avere il coraggio di fare ciò che hai fatto tu”. Serve coraggio, è vero, ma fuori c’è un mondo che ci riconosce un valore».

Non è sempre stato così.

«In 23 anni le cose sono peggiorate tantissimo. La fusione nella Toscana Centro per me è una delle cause: Firenze controlla da lontano Pistoia, Pescia e San Marcello. E quindi a distanza si è visto il peggioramento, la lontananza della testa dai servizi. E anche per la formazione è peggiorato tutto tantissimo: prima facevamo bei corsi, importanti e utili. Ora la formazione è, secondo me, poca e scadente».

Ora però la formazione deve pagarsela.

«Almeno pago qualcosa che vale e che mi fa crescere».

Per il resto come va?

«Guadagno come in Asl ma il mio progetto è guadagnare di più. Quando vado a portare il curriculum capisco che ha un peso: l’esperienza nei reparti, al pronto soccorso, il master. Certo, ci sono anche le cose belle come i colleghi che ho conosciuto negli anni. Inoltre la formazione e l’esperienza che ho potuto fare in passato, oggi mi permette di andare in sala operatoria per piccoli interventi o a casa di un paziente senza alcun timore». l


QOSHE - Francesca, infermiera pistoiese in fuga dall’ospedale: «Ho lasciato il posto fisso per la partita Iva, ecco perché» - Ilenia Reali
menu_open
Columnists Actual . Favourites . Archive
We use cookies to provide some features and experiences in QOSHE

More information  .  Close
Aa Aa Aa
- A +

Francesca, infermiera pistoiese in fuga dall’ospedale: «Ho lasciato il posto fisso per la partita Iva, ecco perché»

15 3
03.02.2024

«Ho 47 anni. Con le leggi che cambiano, anno dopo anno, ne devo lavorare altri 18. Mi sono detta: «Ma ce la fai in questa situazione per altri 18 anni? Chiunque oggi lavora in ospedale dice che “se avesse il coraggio si licenzierebbe”. Io ho lasciato l’Asl a novembre e non tornerei indietro». A raccontare la sua fuga dall’ospedale, impiego pubblico, contratto a tempo indeterminato e stipendio garantito, è la pistoiese Francesca Terzaroli. Infermiera. Ventitré anni trascorsi in ospedale: sala operatoria, pronto soccorso, oncologia. Sempre in prima linea fino allo scorso novembre. E ora una nuova vita, con la partita Iva.

Qual è il motivo per cui ha lasciato il suo lavoro all’Asl?

«La mancanza assoluta di meritocrazia. In Asl non contano nulla gli anni di esperienza che hai. Ci sono colleghi che per un trasferimento sono passati dalla terapia intensiva di Firenze alla Medicina a Pistoia. Non per sminuire il reparto di Medicina ma se arriva un collega che ha anni e anni di terapia intensiva in un grande ospedale mi sembra scontato sfruttare subito le sue grandi competenze. Invece no, non accade».

Qual è stato però l’episodio che l’ha convinta a cambiare vita?

«Sentirmi prigioniera del mio tesserino. Sentirmi un numero nonostante l’impegno. Sono venuta via dal pronto soccorso l’anno successivo al Covid, al termine del 2021. La pandemia ci ha stroncati. Ci siamo fatti trasferire in altri reparti quasi in trenta. C’è stato un cambio generazionale quasi completo nel pronto soccorso dell’ospedale di Pistoia. Per noi........

© Il Tirreno


Get it on Google Play