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LIVORNO. Fotogiornalista e giornalista freelance. E reporter di guerra, da anni sempre in prima linea: Afghanistan, Iraq, Kosovo, Ucraina, Libano, Siria, Kurdistan. Giacomo Sini perse suo padre Antonio, 42 anni, ingegnere, insegnante all’Accademia Navale, sulla Moby Prince. «Avevo un anno e mezzo; per non perdere il suo ricordo guardo spesso una foto dove sono sulle sue spalle: sorridiamo entrambi. ..».

Giacomo verso i 16 anni capisce che la strage non può restare impunita e inizia la sua battaglia al fianco di Loris Rispoli nell’ambito dell’Associazione #iosono 141. Sini, 35 anni, è appena rientrato da una missione a bordo della nave di Emergency che effettua salvataggi di naufraghi nel Mediterraneo.

Cosa ne pensa della “pista” che viene seguita per identificare la nave-fantasma che avrebbe costretto la Moby Prince a una manovra disperata?

«Credo che sia riduttivo far risalire la causa dell’impatto tra le due navi a una bettolina o a una nave: lo sostengo dopo tanti anni di studi e battaglie fatte al fianco di Loris Rispoli. Leggo con rammarico che si continua a parlare di navi-pirata e navi americane che si scambiavano armi come se fino al giorno prima della strage questo non avvenisse: così facendo si tiene lontana l’attenzione sulle vere colpe per la morte dei nostri cari».

Dunque su cosa è importante continuare a indagare dal momento che si è insediata la terza Commissione d’inchiesta?

«Vorrei che fosse fatta luce all’interno della Moby Prince dove non c’era sicurezza».

Può essere più esplicito rispetto a questa affermazione?

«Certo: sono almeno cinque i punti che rendevano il traghetto per niente sicuro in nome del profitto e a rischio per i passeggeri. A qualcuno dà fastidio, però credo che definirlo “carretta” sia appropriato».

Possiamo elencare punto per punto quelle che ritiene le fragilità della nave?

«Parto dagli sprinkler, i meccanismi che si attivano con il calore e fanno uscire l’acqua. Le indagini hanno accertato che la Compagnia, siccome uno perdeva e inzuppava la moquette, li aveva disattivati. Mentre, come asserì l’ingegner La Malfa, se gli sprinkler fossero entrati in funzione avrebbero abbassato la temperatura garantendo la sopravvivenza ancora più a lungo».

Secondo punto?

«L’impianto radio Vhf funzionava in modo pessimo, infatti quando il marconista Giovanbattista Campus lancia il “My day” si sente malissimo. C’era un problema alla saldatura dei fili che, a causa delle vibrazioni, creavano cali di tensione. Oggi si parla solo della modalità di registrazione di Livorno Radio, ma il problema era a bordo».

Terzo punto?

«I radar: a bordo della Moby Prince ce n’erano tre. Ma ne funzionava solo uno. Un altro era guasto, il terzo proiettava l’immagine capovolta a 180° e non fu possibile ripararlo perché non erano disponibili i pezzi di ricambio, fatto confermato da un dipendente della Telemar (il 13 dicembre 1995, ndr) , l’impresa addetta alla riparazione dei radar. E anche se i ricambi ci fossero stati la nave era in partenza e non ci sarebbe stato il tempo per la riparazione».

Quarto punto?

«Il motore e un’elica erano difettosi. Pochi giorni prima della collisione si bloccò il motore numero 4 e il traghetto andò in avaria e infatti il 9 aprile restò a banchina per i lavori che si protrassero sino alle 18 del 10 e il motore funzionava bene solo se spinto al massimo. Inoltre la nave navigava da qualche anno con il bulbo prodiero curvo a sinistra e col mozzo dell’elica di destra rotto con ordine del Rina (registro navale, ndr) di sostituirlo al più presto. La riparazione non fu mai fatta, il pezzo nuovo restò a bordo».

Quinto punto?

«Con l’intromissione di Navarma tramite il nostromo Ciro Di Lauro si è cercato di manomettere il timone del relitto della nave in porto. Ciro Di Lauro, al momento della tragedia, non è bordo perché ha chiesto un giorno di festa. Pochi giorni dopo la sciagura però si rende artefice di un tentativo di sabotaggio. E dichiara agli inquirenti di avere avuto l’ordine di manomettere la timoneria del Moby Prince da un ispettore della Navarma, Pasquale d’Orsi, per far credere che la timoneria del traghetto fosse impostata sul pilota automatico al momento della collisione. Ovvio: tutto sarebbe ricaduto sull’equipaggio che invece è stato impeccabile. Se la Navarma non avesse avuto niente da nascondere credo, è la mia ipotesi, che non avrebbe mai tentato di far sabotare il timone».

Vogliamo parlare dei soccorsi che non ci sono stati?

«Tutti sull’Agip Abruzzo, nessuno a cercare la Moby Prince. Il comandante della Capitaneria Sergio Albanese, arrivò sulla scena in ritardo, non dette ordini, non parlò via radio, nessuno si pose il problema che c’era un’altra nave-passeggeri in fiamme. Anche la Marina non si attivò e la ritengo parimenti responsabile».

Due processi senza verdetti di colpevolezza e un altro, recente, amministrativo, che ha negato risarcimenti ai familiari delle vittime. Cosa le viene da pensare?

«Noi sappiamo chi sono i colpevoli: quelli finiti sul banco degli imputati sono soggetti secondari. Sul banco degli imputati dovevano andare Superina, Onorato ed Albanese, quindi la ex Navarma, Eni e la Capitaneria di Porto dunque lo Stato; ma si sa, lo Stato non accusa mai se stesso».

L’ultima batosta che ha negato i risarcimenti?

«Colpisce la motivazione, la durezza nei punti espressi che ribadiscono la posizione immutata da parte del sistema giudiziario italiano. E si sottolinea quanto la nostra richiesta sia “inammissibile in quanto non fondata su elementi probatori idonei a giustificare la stessa”. Esiste quindi la volontà di bloccare ogni nostro tentativo di affermare che abbiamo le prove accusatorie, venute a galla grazie solo alla nostra tenacia. Ma non ci fermeremo».

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«Il Moby Prince era una carretta Non era in grado di navigare»

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10.04.2024

livorno

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LIVORNO. Fotogiornalista e giornalista freelance. E reporter di guerra, da anni sempre in prima linea: Afghanistan, Iraq, Kosovo, Ucraina, Libano, Siria, Kurdistan. Giacomo Sini perse suo padre Antonio, 42 anni, ingegnere, insegnante all’Accademia Navale, sulla Moby Prince. «Avevo un anno e mezzo; per non perdere il suo ricordo guardo spesso una foto dove sono sulle sue spalle: sorridiamo entrambi. ..».

Giacomo verso i 16 anni capisce che la strage non può restare impunita e inizia la sua battaglia al fianco di Loris Rispoli nell’ambito dell’Associazione #iosono 141. Sini, 35 anni, è appena rientrato da una missione a bordo della nave di Emergency che effettua salvataggi di naufraghi nel Mediterraneo.

Cosa ne pensa della “pista” che viene seguita per identificare la nave-fantasma che avrebbe costretto la Moby Prince a una manovra disperata?

«Credo che sia riduttivo far risalire la causa dell’impatto tra le due navi a una bettolina o a una nave: lo sostengo dopo tanti anni di studi e battaglie fatte al fianco di Loris Rispoli. Leggo con rammarico che si continua a parlare di navi-pirata e navi americane che si scambiavano armi come se fino al giorno prima della strage questo non avvenisse: così facendo si tiene lontana l’attenzione sulle vere colpe per la morte dei nostri cari».

Dunque su cosa è importante continuare a indagare dal momento che si è insediata la terza Commissione d’inchiesta?

«Vorrei che fosse fatta luce........

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