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LIVORNO. «Frida Misul un giorno mi portò un piccolo diario, da lei scritto, dove aveva annotato tutti i ricordi legati a mio padre ad Auschwitz. Lei fu una delle ultime a vederlo: prima entrare nella camera a gas e successivamente bruciare nel forno crematorio quando non era ancora morto». Dina Bueno, 80 anni portati benissimo, è la figlia di Dino Bueno, uno dei tanti ebree livornesi vittime della furia nazista. Quel diario tempo fa lo ha prestato, senza più averlo indietro.

Non si ricorda a chi. «Spero che me lo facciano riavere. Ci tengo molto». Ogni anno, in concomitanza con la Giornata della Memoria, sente il bisogno di raccontare la triste vicenda del padre, la cattura e l’ assassino ad appena 21 anni.

«Eravamo sfollati a Marlia, vicino a Lucca - dice-. Un giorno qualcuno passò per avvisarci: “andate via che stanno venendo a prendervi”. Ma mio padre e mia nonna, forse per paura, decisero di restare. Così, quando arrivarono i militari, mio nonno scappò da una porticina laterale con l’altro figlio e la figlia. A me invece mi prese una contadina, senza farsi vedere da nessuno, e mi nascose sotto la paglia di una stalla. Con uno straccio sporco sulla bocca per evitare che piangessi. Avevo 7 mesi. Quando le cose si calmarono, mi fecero subito a battezzare».

Correva l’autunno del 1943 quando Dino e la madre Dina Attal, vennero internati al campo di bagni di Lucca, luogo dal quale il ragazzo scrisse numerosissime lettere alla fidanzata, auspicando di tornare a casa al più presto per rivedere lei e la bambina. «Le lettere di mio padre fanno venire i brividi. Una la scrisse nel periodo di Befana, dove si scusa con me per non potermi portare un giocattolo, nel giorno di festa. Promettendo di portarmene tanti quando tornerà a casa. Ma non è mai tornato».

Di lettere ne ha scritte tantissime. «Tutte col visto. Venivano lette e controllate prima della consegna. Alcune sono conservate nell’archivio della comunità ebraica».

La madre di Dina, Neva, cristiana, che aveva solo 17 anni, subì molte angherie per l’unione con Dino, al punto che, una volta separati, finì per ammalarsi.

«Quando camminava per la strada le sputavano, dicendole che era fidanzata con un ebreo. E non poteva comprare il gelato per lo stesso motivo. Con le leggi razziali mio padre venne immediatamente licenziato dalla vetreria italiana. I mei zii furono fatti fuori dalla scuola. Dalla sofferenza patita si ammalò alle ghiandole tubercolari e io sono cresciuta in maniera molto difficile, passando da un sanatorio all’altro. E già a 10 anni andai a lavorare da un mio zio, quando invece avrei voluto studiare. Non è stato bello».

Da Bagni di Lucca, Dino e Dina vennero trasferiti a Firenze, poi a Milano, e infine, partendo dal tristemente famoso binario 21, col convoglio 06, alla destinazione finale: l’inferno di Auschwitz - Birkenau, dopo circa una settimana di viaggio disumano.

«Mia nonna fu assassinata subito appena arrivata, selezionata per le camere a gas. Era il 6 febbraio del 1944. Babbo un po’ dopo. Nessuno conosce la data precisa».

Quello che non tutti sanno, è che Dino ebbe un’altra possibilità di scappare, ma ancora una volta non la colse. «Mio cugino si salvò buttandosi in un camion tra i morti. E disse a mio padre “andiamo, se restiamo siamo finiti”. Ma lui, che aveva nel cuore la speranza di rivedere me e mia mamma, non volle correre il rischio. E commise un errore. Marino è ce l’ha fatta. L’unico della famiglia, su undici persone deportate».

Dina ha un sogno, quello di andare in Polonia per poter visitare quel tremendo campo di sterminio. «Ho quattro figli maschi, e a tutti ho chiesto di portarmi. Lo vorrei vedere, anche ora, che, nonostante l’età, sono sempre in grado di spostarmi bene. Sono preparata per vivere un’emozione di tale spessore. Spero che questo mio desiderio si possa esaudire».

Qualche anno fa, in via della Coroncina, di fronte a quella che un tempo fu l’abitazione dei Bueno, sono state poste le pietre d’inciampo per Dino e sua madre. «Tra le altre cose - conclude Dina Bueno - ricordo che, nell’immediato dopoguerra, quando era ormai semidistrutta, l’andai a vedere quella casa. Trovando la stanza grande di cui tanti mi raccontavano. Era bellissima».


QOSHE - «Cara figlia mia», poi fu Auschwitz. A Livorno Dina Bueno ricorda il padre Dino - Simone Fulciniti
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«Cara figlia mia», poi fu Auschwitz. A Livorno Dina Bueno ricorda il padre Dino

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26.01.2024

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LIVORNO. «Frida Misul un giorno mi portò un piccolo diario, da lei scritto, dove aveva annotato tutti i ricordi legati a mio padre ad Auschwitz. Lei fu una delle ultime a vederlo: prima entrare nella camera a gas e successivamente bruciare nel forno crematorio quando non era ancora morto». Dina Bueno, 80 anni portati benissimo, è la figlia di Dino Bueno, uno dei tanti ebree livornesi vittime della furia nazista. Quel diario tempo fa lo ha prestato, senza più averlo indietro.

Non si ricorda a chi. «Spero che me lo facciano riavere. Ci tengo molto». Ogni anno, in concomitanza con la Giornata della Memoria, sente il bisogno di raccontare la triste vicenda del padre, la cattura e l’ assassino ad appena 21 anni.

«Eravamo sfollati a Marlia, vicino a Lucca - dice-. Un giorno qualcuno passò per avvisarci: “andate via che stanno venendo a prendervi”. Ma mio padre e mia nonna, forse per paura, decisero di restare. Così, quando arrivarono i militari, mio nonno scappò da una porticina laterale con l’altro figlio e la figlia. A me........

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