Lo scorso fine settimana a Parigi, in Francia, si sono riuniti i capi dei servizi di sicurezza israeliani, statunitensi ed egiziani, e il primo ministro del Qatar. Il risultato della trattativa è al vaglio delle due parti in guerra, Israele e Hamas.

La posta in gioco? Una tregua di diverse settimane, la liberazione di parte dei 132 ostaggi ancora nelle mani di Hamas e la scarcerazione di migliaia di prigionieri palestinesi rinchiusi nelle carceri israeliane. Dopo la tregua dello scorso novembre, i combattimenti non si sono più fermati. Il numero dei morti aumenta, la crisi umanitaria peggiora e la sorte degli ostaggi pesa sempre di più sulla società israeliana.

Ma non c’è ancora un accordo. Il segretario di stato americano Antony Blinken è atteso il 3 febbraio in Israele per la sua quinta visita dal 7 ottobre, il giorno dell’attacco di Hamas a Israele. L’arrivo di Blinken indica che gli Stati Uniti vogliono fare pressione per un accordo, anche solo per frenare l’inquietante escalation regionale.

Il problema è che su ognuno dei due fronti ci sono delle contraddizioni e questo rende un compromesso estremamente delicato, per non dire impossibile.

Su quello israeliano l’estrema destra si rifiuta di fare qualsiasi concessione e minaccia apertamente di affondare la coalizione al potere, sull’onda di un incredibile raduno a Gerusalemme dai toni messianici a favore della ri-colonizzazione della Striscia di Gaza. Un terzo del governo ha partecipato all’evento, compresi alcuni esponenti del partito di Benjamin Netanyahu.

Il 30 gennaio il primo ministro israeliano ha inasprito i toni, senza dubbio sotto l’effetto della potente corrente estremista. Netanyahu si è detto contrario alla liberazione di migliaia di prigionieri palestinesi e ha giurato che non ritirerà le truppe da Gaza, come pretende Hamas, prima di aver raggiunto il suo obiettivo, ovvero l’eliminazione del movimento islamista. Blinken dovrà impiegare tutte le sue capacità di persuasione.

Anche Hamas ha le sue difficoltà, con le tensioni tra i leader fuori della Striscia e quelli all’interno, a cui Israele dà la caccia da quattro mesi. Anche in questo caso la decisione non è semplice.

Una tregua non significa la fine della guerra, anche se gli statunitensi, e non solo, cercheranno di utilizzare la sospensione dei combattimenti per avviare un processo politico. Il precedente di novembre ha dimostrato che dieci giorni di tregua non bastano a impedire la ripresa della guerra, se la sua logica non è superata.

Accadrà lo stesso anche stavolta in caso di un accordo tra le parti? Il bilancio umanitario e l’escalation regionale rendono indispensabile l’affermazione di un processo politico, che però in questo momento non esiste. Un primo segnale di distensione è arrivato il 30 gennaio, quando le forze sciite irachene che hanno colpito e ucciso tre soldati statunitensi in Giordania ha annunciato che smetterà di prendere di mira gli Stati Uniti. È solo paura delle rappresaglie? C’entra la preoccupazione di risparmiare l’Iraq? O magari è un segnale chiaro inviato da Teheran? In ogni caso è una notizia inattesa e positiva.

I prossimi giorni saranno decisivi. Se il piccolo spiraglio che sembra essersi aperto tornerà a chiudersi, assisteremo a un nuovo circolo vizioso di disperazione per gli ostaggi israeliani e la popolazione di Gaza. Di sicuro nessuno vorrà esserne ritenuto responsabile.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

QOSHE - Aumentano le pressioni per un cessate il fuoco a Gaza - Pierre Haski
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Aumentano le pressioni per un cessate il fuoco a Gaza

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31.01.2024

Lo scorso fine settimana a Parigi, in Francia, si sono riuniti i capi dei servizi di sicurezza israeliani, statunitensi ed egiziani, e il primo ministro del Qatar. Il risultato della trattativa è al vaglio delle due parti in guerra, Israele e Hamas.

La posta in gioco? Una tregua di diverse settimane, la liberazione di parte dei 132 ostaggi ancora nelle mani di Hamas e la scarcerazione di migliaia di prigionieri palestinesi rinchiusi nelle carceri israeliane. Dopo la tregua dello scorso novembre, i combattimenti non si sono più fermati. Il numero dei morti aumenta, la crisi umanitaria peggiora e la sorte degli ostaggi pesa sempre di più sulla società israeliana.

Ma non c’è ancora un accordo. Il segretario di stato americano Antony Blinken è atteso il 3 febbraio in Israele per la sua quinta visita dal 7 ottobre, il giorno dell’attacco di Hamas a Israele.........

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