Recentemente, al Teatro Regio di Torino, Coldiretti ha organizzato un convegno dal titolo “Gli allevamenti e la qualità dell’aria”. Fra i relatori molti ospiti illustri, compreso il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica Gilberto Pichetto Fratin. I vari interventi, tenuti a ritmo serrato, andavano tutti nella stessa direzione, ovvero quella di affermare che in realtà gli allevamenti intensivi non sono un vero problema per la qualità dell’aria e per le emissioni di gas climalteranti.

In realtà, la specifica “intensivi” è una libera aggiunta di chi scrive, dal momento che al convegno il termine non è praticamente mai stato menzionato, come se non esistessero differenze fra i metodi di allevamento intensivo e quelli di più piccola scala e meno impattanti. Cosa alquanto anacronistica dato che è ormai notorio che il sistema degli allevamenti intensivi ha impatti importanti sia dal punto di vista ambientale che sanitario.

Parlando di qualità dell’aria, le elaborazioni dell’Ispra ci dicono chiaramente che in Italia gli allevamenti intensivi sono la seconda causa di formazione delle polveri sottili (PM2,5) – quasi il 17% se sommiamo particolato primario e secondario – e che dal 1990 al 2018 il loro contributo è via via cresciuto. Polveri fini che ogni anno provocano circa 50 mila morti premature soltanto in Italia.

Più in generale, l’attuale modello di produzione agricola intensiva è responsabile da solo del 93% delle emissioni di ammoniaca e del 54% di quelle di metano legate all’attività antropica in Europa, e la maggior parte di queste emissioni proviene proprio dagli allevamenti intensivi. La produzione zootecnica è inoltre responsabile del 73% dell’inquinamento idrico derivante dalle attività agricole dell'Ue. Sono numeri importanti, e fare finta di non vederli non aiuta. Non aiuta le persone che vivono in zone con forte concentrazione di allevamenti intensivi come la Pianura Padana, ma nemmeno gli allevatori che si trovano spesso schiacciati in un ingranaggio che li costringe a produrre sempre di più, con margini di guadagno risicati al minimo e che, in prima linea, devono affrontare anche le conseguenze dei cambiamenti climatici. Mentre questo modello di produzione intensiva e di mercato resta fallimentare e arricchisce le tasche di altri, speculatori compresi.

Paradossalmente, però, una gran quantità di soldi pubblici continua a foraggiare il sistema.

In tutta Europa molti agricoltori sono in difficoltà e in tanti chiudono i battenti. Proprio in questi giorni alcune forze politiche stanno provando a sfruttare la situazione per fomentare l’opposizione al Green Deal e alle norme di tutela ambientale: ma quali sono le vere cause della crisi del comparto e quali sono gli interessi realmente tutelati da questi politici? Guardando i numeri vediamo che attualmente l’80% dei fondi europei per l’agricoltura italiana finisce nelle casse del 20% dei beneficiari. Un sistema che penalizza le piccole aziende e favorisce quelle più grandi. Secondo dati Eurostat, in poco più di dieci anni (tra il 2004 e il 2016) l’Italia ha perso oltre 320 mila aziende. Abbiamo assistito a un calo del 38% delle aziende “piccole”, mentre sono aumentate del 21% le aziende “molto grandi” e del 23% di quelle grandi. In soli 15 anni, l’Ue ha perso quasi il 40% dei suoi agricoltori, che hanno cessato l’attività o sono stati acquisiti da concorrenti sempre più grandi.

La crisi esiste, ma ciò che sta mettendo fuori mercato le aziende agricole è il fatto che i sussidi, le regole e il mercato sono tutti orientati a beneficio degli attori più grandi. Le maggiori catene della grande distribuzione e le grandi aziende alimentari e di trasformazione possono imporre prezzi bassi agli agricoltori. Ciò spinge letteralmente i produttori più piccoli fuori dal mercato, allevamenti compresi, poiché solo quelli intensivi possono vendere a prezzi così stracciati. Il sistema di sussidi della politica agricola comune (PAC) dell'Ue premia in particolare i più grandi proprietari terrieri e le aziende agricole più industrializzate. Il denaro pubblico non premia invece gli agricoltori che producono cibo di alta qualità in modo sostenibile.

Come se non bastasse, gli agricoltori di tutta Europa si trovano ad affrontare gli effetti della crisi climatica: siccità, ondate di calore, incendi, inondazioni e fenomeni meteorologici estremi sempre più numerosi. Una crisi che spinge ulteriormente con le spalle al muro le piccole aziende agricole che già lottano per restare a galla. Dare la colpa della crisi climatica alle norme di tutela dell’ambiente è dire una falsità: così facendo, si mente in primis agli agricoltori che sono allo stremo, mentre si continua a foraggiare un sistema che funziona solo per una piccolissima percentuale di grandi attori del mercato.

Ma quali regole green avrebbero fatto sparire così tante aziende agricole?

Gli obiettivi proposti dall'Ue di ridurre l'uso dei pesticidi del 50% al 2030 e di rinnovare il regolamento sul loro utilizzo “sostenibile” (SUR) sono stati nella pratica accantonati. La legge europea sul ripristino della natura non prevede alcun requisito di peso per le aree agricole in Europa. La strategia per costruire un “sistema alimentare sostenibile” è stata abbandonata prima ancora che diventasse una bozza di proposta ufficiale dell’Ue, così come il promesso aggiornamento delle norme sul benessere degli animali. L’uso del glifosato – l’erbicida catalogato dallo Iarc come “probabilmente cancerogeno” – è stato nuovamente autorizzato in Europa per altri 10 anni.

Tornando ad allevamenti intensivi e qualità dell’aria: la riforma della direttiva Ue sulle emissioni industriali inquinanti ha escluso completamente gli allevamenti di bovini, i più grandi e intensivi, dal campo di applicazione della direttiva, mentre nella pratica sono state allentate le regole applicabili ai più grandi allevamenti di suini e pollame. Le lobby del settore zootecnico, insieme ai deputati liberali, conservatori e di destra, sono riusciti a bloccare qualsiasi ampliamento del campo di applicazione della Direttiva sull’inquinamento industriale, sostenendo che le revisioni proposte avrebbero colpito negativamente i piccoli e medi allevamenti bovini europei. Dichiarazioni non supportate dai dati, dal momento che le proposte sul tavolo dei negoziati riguardavano appena l’1% di tutti gli allevamenti di bovini in Europa, solo quelli più grandi e più inquinanti.

Le aziende agricole di piccole e medie dimensioni hanno quindi tutto il diritto di protestare, perché siamo di fronte a un insieme di regole di mercato, sussidi e norme che funzionano a favore degli attori più grandi e industrializzati, difesi dalle organizzazioni di categoria. In un contesto di crisi geopolitica ed ecologica, che vede l’aumento dei prezzi delle materie prime e il calo del potere d’acquisto dei cittadini, le aziende agricole e gli allevamenti di piccole dimensioni sono tra le categorie che pagano il prezzo più alto. Chi continua a sostenere il modello attuale, che avvantaggia una piccola percentuale di aziende più grandi e intensive a scapito di tutte le altre, dipinge la crisi attuale come uno scontro di agricoltori contro l’ambiente. Non è così.

Gli agricoltori possono essere i migliori alleati dell’ambiente, a patto che le regole, i mercati e i sussidi non li costringano a una scelta disperata tra la produzione industriale o la bancarotta. Negare un problema non lo fa scomparire, analogamente alle emissioni inquinanti. Serve invece lavorare insieme e investire in una reale e sempre più urgente transizione ecologica, in modo da salvaguardare l’ambiente, il clima e con essi le nostre aziende agricole.

Federica Ferrario è responsabile Agricoltura di Greenpeace Italia

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L'agricoltura europea è in crisi, ma non è colpa del Green Deal

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02.02.2024

Recentemente, al Teatro Regio di Torino, Coldiretti ha organizzato un convegno dal titolo “Gli allevamenti e la qualità dell’aria”. Fra i relatori molti ospiti illustri, compreso il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica Gilberto Pichetto Fratin. I vari interventi, tenuti a ritmo serrato, andavano tutti nella stessa direzione, ovvero quella di affermare che in realtà gli allevamenti intensivi non sono un vero problema per la qualità dell’aria e per le emissioni di gas climalteranti.

In realtà, la specifica “intensivi” è una libera aggiunta di chi scrive, dal momento che al convegno il termine non è praticamente mai stato menzionato, come se non esistessero differenze fra i metodi di allevamento intensivo e quelli di più piccola scala e meno impattanti. Cosa alquanto anacronistica dato che è ormai notorio che il sistema degli allevamenti intensivi ha impatti importanti sia dal punto di vista ambientale che sanitario.

Parlando di qualità dell’aria, le elaborazioni dell’Ispra ci dicono chiaramente che in Italia gli allevamenti intensivi sono la seconda causa di formazione delle polveri sottili (PM2,5) – quasi il 17% se sommiamo particolato primario e secondario – e che dal 1990 al 2018 il loro contributo è via via cresciuto. Polveri fini che ogni anno provocano circa 50 mila morti premature soltanto in Italia.

Più in generale, l’attuale modello di produzione agricola intensiva è responsabile da solo del 93% delle emissioni di ammoniaca e del 54% di quelle di metano legate all’attività antropica in Europa, e la maggior parte di queste emissioni proviene proprio dagli allevamenti intensivi. La produzione zootecnica è inoltre responsabile del 73% dell’inquinamento idrico derivante dalle attività agricole dell'Ue. Sono numeri importanti, e fare finta di non vederli non aiuta. Non aiuta le persone che vivono in zone con forte concentrazione di allevamenti intensivi come la Pianura Padana, ma........

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