Colossali errori strategici nella geopolitica; analisi del presente e del futuro dell’umanità totalmente starate; rimescolamento confuso delle aspirazioni a nuovi diritti individuali e collettivi; perdita di senso nell’allineamento dei valori fondanti della civiltà tradizionale all’orizzonte esistenziale della società post-moderna; cancellazione della memoria condivisa del passato; crisi del concetto di comunità; morte di Dio; cedimento all’egemonia delle culture allogene; professione idolatrica di fede nel dogma dell’incertezza come unica certezza. Sono questi gli indizi della volontà suicidaria dell’Occidente? Facciamo di tutto per apparire orfani di una storia verso la quale proviamo imbarazzo, quando non disgusto. Se così non fosse non potremmo spiegare altrimenti la difficoltà che accompagna, fino a sovrastarlo, l’approccio occidentale alle sfide che la nuova geografia del multipolarismo impone. Un esempio, per intenderci.

Dall’altra parte del Mediterraneo, in contiguità con la nostra storia e la nostra civiltà, c’è un piccolo Paese – Israele – che si batte come un leone per sopravvivere ai molti “nemici ontologici” che lo vorrebbero far scomparire. Dovremmo essere con gli israeliani, in tutto e per tutto. La loro guerra dovrebbe essere la nostra guerra. I loro morti, i nostri morti. Eppure, noi occidentali preferiamo renderci patetici nel guardare con aria infastidita i nostri fratelli maggiori combattere contro un nemico che dovrebbe essere comune ma che, per inspiegabili ragioni le quali richiamano alla mente la “Sindrome di Stoccolma”, non lo è. Abbiamo talmente annacquato il nostro sentimento di appartenenza che non sappiamo più pronunciare la parola “nemico” senza che questa ci provochi un rossore in viso. L’unica cosa che sappiamo ripetere allo sfinimento, come un disco rotto, è “pace”. Cosa vuol dire pace? Nulla. È pura retorica se non si dice come, con quali mezzi e a quale prezzo questa pace sia perseguibile. Pace in risposta a chi ci fa la guerra? Che senso ha?

Il premier Benjamin Netanyahu, commemorando la morte in combattimento a Gaza di 12 militari israeliani, ha dichiarato: “I nostri soldati sono caduti in una guerra, nessuna delle quali è più giusta: la guerra per la nostra casa”. Nessuno in Occidente che lo abbia applaudito. Nessuno che gli abbia detto: siamo con te contro il male assoluto. Invece, non sono stati pochi i nativi delle infide lande progressiste a pensare che il male fosse lui e non gli sgozzatori, i violentatori, gli assassini di ebrei e di occidentali nel nome di Allah. Friedrich Nietzsche fece dire al suo Zarathustra: “Ciò che è grande nell’uomo, è l’essere egli un ponte e non già uno scopo: ciò che in lui è pregevole è l’essere egli una transizione ed un tramonto. Io amo coloro che non sanno vivere se non tramontando, giacché sono quelli che vanno oltre”. Se, come occidentali, ce la stiamo mettendo tutta a tramontare, enfatizzando ogni catastrofismo possibile, dov’è – e soprattutto cos’è – l’”oltre” verso cui ci staremmo incamminando? Se quella verso cui siamo diretti è la terra dell’oblio e della negazione della nostra essenza, no grazie. Restiamo al di qua del ponte perché pensiamo che ci sia ancora lavoro da fare per riscattare la dignità dell’appartenenza occidentale. Non è tempo di ripiegare le bandiere e di concederci al nemico in segno di resa.

Ai progressisti, l’ideologia della cancellazione dell’identità culturale calza a pennello perché essa è incompatibile con l’afflato universalistico all’egualitarismo, fonte di appiattimento e di negazione di ogni diversità tra esseri umani. Ma non è un discorso facile da farsi neanche per chi è cresciuto nel solco del pensiero di destra. L’idea spengleriana secondo cui il carattere “faustiano” della modernità occidentale stia conducendo una civiltà sempre insoddisfatta di sé alla consunzione, ha fatto breccia nel pensiero conservatore del Novecento. Da William James Durant a Roger Scruton e, più recentemente, a Eric Zemmour, passando per James Burnham, teorico del conservatorismo americano nel secondo dopoguerra, a Pat Buchanan, tutti costoro hanno abbracciato e sviluppato il tema del declino autodistruttivo dell’Occidente. In Italia, Julius Evola ha teorizzato, con l’avvento dell’età del ferro, la crisi del paradigma occidentale. A destra – dobbiamo ammetterlo – siamo cresciuti nella convinzione pessimistica che la nostra civiltà stesse implodendo e che non meritasse di essere aiutata a riconquistare il ruolo egemone di faro dell’umanità. Per dirla con le parole di Federico Rampini che in una sua opera letteraria (Suicidio occidentale, Mondadori 2022) ha affrontato l’argomento della fine dell’Occidente per autodistruzione: “Sembra quasi che noi occidentali non abbiamo più valori da proporre al mondo e alle nuove generazioni, ma solo dei crimini da espiare”. Ha ragione Rampini: il disarmo strategico dell’Occidente è stato anticipato da quello culturale. Forse è tardi per invertire la rotta. O forse no. Ci sarebbe tempo per ritrovare nuove idee, desiderose di rappresentare valori solidi e duraturi. E nuove parole andrebbero pronunciate per ritrovare noi stessi nel divenire della Storia.

Al riguardo, colpisce la forza morale con la quale Lucetta Scaraffia, temeraria portatrice di parresia nell’oscuro mondo ecclesiastico, dalle colonne de La Stampa, prova a mettere le cose al loro posto sfruttando la leva semantica. Parole come verità, libertà e coraggio fanno capolino nel suo ragionamento per descrivere una società che non è perfetta ma è pur sempre perfettibile “grazie ai meccanismi democratici e alla libertà, cosa che non si può dire per la maggior parte degli altri Paesi del mondo”. Lei si domanda – e noi con lei – il perché dovemmo vergognarci di ciò che siamo, del fatto di essere europei, di avere una storia alle spalle da rivendicare, un passato complesso di cui comunque andare fieri. Già, perché? Da occidentali, e non da anonimi cosmopoliti in perenne fuga dalle nostre radici, abbiamo ancora strada da fare. Ma, come osserva acutamente Scaraffia, non è la libertà di imboccare il sentiero della rinascita che manchi, quanto piuttosto appaia annichilita la forza di combattere per le nostre idee. A suggello di questa riflessione niente di più appropriato della sua esortazione a stare in campo dal lato giusto della Storia: “Ci manca la certezza di avere ancora molto da dare e da insegnare, oltre che ovviamente da imparare, ma per farlo dobbiamo tornare a credere che la verità esista e non necessariamente stia dalla parte dei nostri nemici, dobbiamo tornare ad avere un po’ di coraggio”. Non sarà la risposta escatologica al destino ultimo dell’Uomo al termine della Storia, purtuttavia è un buon viatico per riconciliarci con l’essere noi orgogliosamente occidentali, cioè appartenenti a una sola, grande, comunità di destino.

Aggiornato il 05 gennaio 2024 alle ore 10:35:58

QOSHE - Il sole non tramonta a Ovest - Cristofaro Sola
menu_open
Columnists Actual . Favourites . Archive
We use cookies to provide some features and experiences in QOSHE

More information  .  Close
Aa Aa Aa
- A +

Il sole non tramonta a Ovest

5 0
05.01.2024

Colossali errori strategici nella geopolitica; analisi del presente e del futuro dell’umanità totalmente starate; rimescolamento confuso delle aspirazioni a nuovi diritti individuali e collettivi; perdita di senso nell’allineamento dei valori fondanti della civiltà tradizionale all’orizzonte esistenziale della società post-moderna; cancellazione della memoria condivisa del passato; crisi del concetto di comunità; morte di Dio; cedimento all’egemonia delle culture allogene; professione idolatrica di fede nel dogma dell’incertezza come unica certezza. Sono questi gli indizi della volontà suicidaria dell’Occidente? Facciamo di tutto per apparire orfani di una storia verso la quale proviamo imbarazzo, quando non disgusto. Se così non fosse non potremmo spiegare altrimenti la difficoltà che accompagna, fino a sovrastarlo, l’approccio occidentale alle sfide che la nuova geografia del multipolarismo impone. Un esempio, per intenderci.

Dall’altra parte del Mediterraneo, in contiguità con la nostra storia e la nostra civiltà, c’è un piccolo Paese – Israele – che si batte come un leone per sopravvivere ai molti “nemici ontologici” che lo vorrebbero far scomparire. Dovremmo essere con gli israeliani, in tutto e per tutto. La loro guerra dovrebbe essere la nostra guerra. I loro morti, i nostri morti. Eppure, noi occidentali preferiamo renderci patetici nel guardare con aria infastidita i nostri fratelli maggiori combattere contro un nemico che dovrebbe essere comune ma che, per inspiegabili ragioni le quali richiamano alla mente la “Sindrome di Stoccolma”, non lo è. Abbiamo talmente annacquato il nostro sentimento di appartenenza che non sappiamo più pronunciare la parola “nemico” senza che........

© L'Opinione delle Libertà


Get it on Google Play