La protesta degli agricoltori rallenta ma non si spegne. Il problema c’è ed è grande. Si potrebbe dire che si sia giunti al redde rationem della partita sulla transizione ambientale, giocata negli ultimi anni prevalentemente a Bruxelles sulla pelle dei piccoli produttori, protagonisti del comparto dell’agroalimentare. Il nocciolo della questione è drammaticamente semplice: l’Unione europea, priva di una propria politica estera e di difesa, ha fatto del settore della produzione agricola la merce di scambio ideale per favorire il dialogo con i Paesi in via di sviluppo, con quelli in crisi o preda dell’espansionismo economico-strategico dei player globali. Ma il settore dell’agroalimentare è servito anche da cavia per sperimentare la transizione forzata al sistema green. L’errore colossale di calcolo politico dei vertici di Bruxelles è stato nel valutare il settore “resiliente” a tutte le possibili compressioni normative e regolamentari. Ma la corda, a furia di essere tirata, si è spezzata. E non bastano certo dei tardivi mea culpa pronunciati dalla presidente Ursula von der Leyen, a poche settimane dall’apertura delle urne delle Europee, a mettere a posto le cose. C’è una questione di regole comunitarie assurde che non possono essere cancellate con un tratto di penna; c’è una mala gestio della globalizzazione economica che sta trascinando il mercato europeo in un gorgo di speculazioni selvagge e c’è un fortissimo squilibrio remunerativo a danno dei produttori nell’ambito della filiera dell’agroalimentare.

Così non poteva funzionare. Ed è per questa ragione che si sono visti i trattori in tutte le principali piazze europee. Posto, quindi, che i motivi della protesta siano più che fondati, il problema si ribalta sulle posizioni che le singole forze politiche hanno assunto rispetto alle pressanti richieste degli agricoltori scesi in piazza. Riguardo alla situazione italiana, l’opposizione è letteralmente naufragata all’interno di una contraddizione esistenziale tra la ricerca del consenso e la paternità, in Europa, delle politiche green che hanno devastato il settore agricolo. Non si può stare contemporaneamente con il boia e con l’impiccato, come non si può tenere lo stesso piede in due staffe. Ecco perché sia Elly Schlein sia Giuseppe Conte, più che sibilare qualche critica al Governo, non possono spingersi oltre sul terreno impegnativo delle proposte. D’altro canto, il comparto dei produttori agricoli è stato tradizionalmente un bacino di consenso della destra in tutte le sue declinazioni. Normale che adesso la sinistra, con il suo silenzio, sembri voler dire alla maggioranza: è affare vostro, sbrigatevela da voi.

E nel centrodestra? Le acque sono agitate. Il sorgere improvviso, dall’interno della protesta, di un sindacalismo spontaneista che aspira a legittimarsi come espressione della maggioranza degli agricoltori, inguaia i piani del ministro meloniano dell’Agricoltura. Francesco Lollobrigida, negli scorsi mesi, ha puntato al consolidamento del rapporto con le associazioni di categoria, nella convinzione che ciò bastasse a garantire a Fratelli d’Italia il feeling con la maggioranza degli agricoltori. La contestazione di questi giorni, che è soprattutto rigetto dell’intermediazione finora svolta dalle associazioni di categoria, ha costretto il rappresentante del Governo a un inaspettato bagno di realtà. L’incontro del ministro con i contestatori ha comunque fruttato un risultato tattico significativo: la rottura dell’unità del movimento. Una fazione, raggruppata sotto la sigla “Riscatto agricolo” ha accettato il confronto istituzionale e ha sospeso la protesta in segno di apertura alle promesse fatte dal Governo; l’altra fazione, il “Cra Agricoltori traditi”, ha alzato il livello dello scontro annunciando una manifestazione a Roma per il prossimo giovedì.

Ciò che il Governo Meloni ha ritenuto di mettere immediatamente sul tavolo della trattativa con gli agricoltori è stato il ripristino dell’esenzione Irpef ai redditi agrari e dominicali che non eccedono l’importo di 10mila euro. Su questa proposta si è innescata la polemica di Matteo Salvini, il quale ha chiesto al Governo uno sforzo maggiore. L’alzata di scudi leghista è valsa a ottenere il taglio dell’Irpef del 50 per cento per i redditi compresi tra i 10mila e i 15mila euro. Tuttavia, indipendentemente dalla questione delle fasce di reddito da coinvolgere nel beneficio fiscale, colpiscono i toni della contestazione di Salvini. Il leader leghista sembra essere tornato alla fase della lotta senza quartiere al sistema oppressivo incarnato dalle istituzioni comunitarie. Salvini rispolvera il sovranismo presumibilmente per ricavarne un profitto in termini di consensi elettorali tra gli scontenti di questa Unione europea. Scelta che però suscita qualche perplessità. Cosa fa credere al leader leghista di essere preso sul serio dagli elettori dopo aver più volte abiurato al suo passato sovranista ed euroscettico? Ammesso che la sua idea di scavalcare a destra il partito della Meloni sia genuina, come pensa di farlo quando la punta di diamante della Lega nell’attuale Esecutivo è Giancarlo Giorgetti, ministro dell’Economia che tiene i cordoni della borsa della spesa pubblica, convinto europeista, più draghiano di Mario Draghi, amico dei poteri forti e dei banchieri centrali? Matteo punta a cavalcare l’onda montante della protesta dei trattori pur stando all’interno di una coalizione che non ha alcuna intenzione di avallare processi di delegittimazione delle tradizionali rappresentanze sindacali e datoriali. Come spiegare all’opinione pubblica una tale contraddizione? Il leader leghista deve fare molta attenzione che lo schema tattico del partito di lotta e di governo non gli si rovesci contro. Allora sì che sarebbero guai per il suo futuro politico. Sembra di rivedere il film dei giorni del 2022 che precedettero la rielezione di Sergio Mattarella alla presidenza della Repubblica, con un Salvini che si aggirava, in preda alla confusione totale, per le sacre stanze e bussava ai citofoni delle abitazioni della Roma che conta in cerca di un candidato da proporre per il Quirinale. In quella circostanza, la conduzione della trattativa con la sinistra per conto dell’intero centrodestra si rivelò un disastro tattico. Come, per altri versi, lo fu nell’estate 2019 il “Papeete” con la manovra pasticciata del siluramento nel momento sbagliato del Governo Conte I. Il sostegno acritico allo spontaneismo protestatario non è la carta vincente su cui puntare per crescere nel gradimento degli elettori, anche se costoro al momento mostrano forte sintonia con le ragioni degli agricoltori. Al contrario, potrebbe essere una buona mossa insistere nel trasmettere all’opinione pubblica il senso di compattezza della maggioranza non lasciando sola Giorgia Meloni a fronteggiare il malessere dei produttori e a difendere la centralità della funzione dei corpi intermedi nella fisiologia del rapporto società civile/Stato. Chi sa di cose di campagna ha piena contezza del pericolo che c’è nel provare a guidare un trattore senza averne la sufficiente competenza. Salvini faccia tesoro della saggezza contadina per non rompersi l’osso del collo.

Aggiornato il 13 febbraio 2024 alle ore 09:44:45

QOSHE - Salvini, salire sui trattori è rischioso - Cristofaro Sola
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Salvini, salire sui trattori è rischioso

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13.02.2024

La protesta degli agricoltori rallenta ma non si spegne. Il problema c’è ed è grande. Si potrebbe dire che si sia giunti al redde rationem della partita sulla transizione ambientale, giocata negli ultimi anni prevalentemente a Bruxelles sulla pelle dei piccoli produttori, protagonisti del comparto dell’agroalimentare. Il nocciolo della questione è drammaticamente semplice: l’Unione europea, priva di una propria politica estera e di difesa, ha fatto del settore della produzione agricola la merce di scambio ideale per favorire il dialogo con i Paesi in via di sviluppo, con quelli in crisi o preda dell’espansionismo economico-strategico dei player globali. Ma il settore dell’agroalimentare è servito anche da cavia per sperimentare la transizione forzata al sistema green. L’errore colossale di calcolo politico dei vertici di Bruxelles è stato nel valutare il settore “resiliente” a tutte le possibili compressioni normative e regolamentari. Ma la corda, a furia di essere tirata, si è spezzata. E non bastano certo dei tardivi mea culpa pronunciati dalla presidente Ursula von der Leyen, a poche settimane dall’apertura delle urne delle Europee, a mettere a posto le cose. C’è una questione di regole comunitarie assurde che non possono essere cancellate con un tratto di penna; c’è una mala gestio della globalizzazione economica che sta trascinando il mercato europeo in un gorgo di speculazioni selvagge e c’è un fortissimo squilibrio remunerativo a danno dei produttori nell’ambito della filiera dell’agroalimentare.

Così non poteva funzionare. Ed è per questa ragione che si sono visti i trattori in tutte le principali piazze europee. Posto, quindi, che i motivi della protesta siano più che fondati, il problema si ribalta sulle posizioni che le singole........

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