In una pagina memorabile de “L’orologio”, il vero capolavoro di Carlo Levi, c’è tutto quello che dovremmo sapere sulla repubblica delle banane, quella dove non cambia mai niente proprio perché sembra sempre che tutto cambi.

A metà strada fra il romanzo, l’autobiografia, il trattato storico-politico e, soprattutto, il saggio di antropologia culturale, questo testo fondamentale della letteratura italiana del Novecento ruota tutto attorno alle dimissioni del governo Parri nel dicembre del 1945 e nei tre giorni in cui si sviluppa la vicenda il protagonista riesce a cogliere a pieno l’impossibilità del cambiamento proprio in anni in cui il cambiamento sembrava certo, obbligatorio e garantito. E non era questione di destra o di sinistra, di schieramenti o alleanze politiche e neppure di Nord o Sud, di ricchezza o povertà, perché sotto il gorgoglio della caduta del regime e del dopoguerra i due veri partiti assolutamente trasversali che si fronteggiavano, anzi, le due civiltà che si sfidavano, le due Italie contrarie e opposte erano quelle definite da Levi dei “Contadini” e dei “Luigini” (il nome è ripreso dal personaggio di don Luigino, il podestà nel “Cristo si è fermato a Eboli”).

I primi erano tutti quelli che non vivevano di protezioni, di sussidi, di colpi in borsa, di mance governative, di furti, di favoritismi, di tariffe doganali, di privilegi corporativi e, quindi, erano quelli che sapevano creare una fabbrica, dirigere una bonifica, dare valore a una terra abbandonata. E anche gli operai, in questa visione, erano “Contadini”, perché lavorano sulle frese, i torni, le presse, i forni, le macchine: “Sono contadini tutti quelli che fanno le cose, che le creano, che le amano”. Insomma, i produttori. I secondi, invece, erano gli altri: “La grande maggioranza della sterminata, informe, ameboide piccola borghesia”, con tutte le sue specie, sottospecie, con tutte le sue miserie, i suoi complessi di inferiorità, i suoi moralismi. “Sono la folla dei burocrati, degli statali, dei bancari, degli impiegati di concetto, dei militari, dei magistrati, degli avvocati, dei poliziotti, dei laureati, dei procaccianti, degli studenti, dei parassiti. Ecco i Luigini”. E il dramma infinito del paese è che ogni Luigino ha bisogno di un Contadino “per vivere, per succhiarlo e nutrirsene e perciò non può permettere che la stirpe contadina si assottigli troppo”.

Bene, questa analisi del 1950, un’analisi formidabile, acutissima, lucidissima e disperante, partorita da uno scrittore di sinistra e antifascista, dice in sostanza le stesse identiche cose che diceva il destrissimo, autonomista e separatista Gianfranco Miglio, a ennesima dimostrazione che le persone intelligenti trovano sempre un punto di accordo che va al di là delle miserie dei partiti. Ed è attualissima anche oggi. E lo sarà, purtroppo, pure tra dieci anni, venti, cento. Ed è ancora più attuale ogni volta che arriva dicembre e che viene approvata, tra urla, strepiti, insulti, maledizioni, imboscate, intemerate e cialtronate, la manovra di bilancio.

Siamo diventati vecchi a forza di vederle arrivare in porto, le meravigliose manovre di bilancio di cui sopra, varate da governi di ogni forma e colore, di ogni foggia e dimensione, di ogni tendenza e appartenenza, destra, sinistra, centrodestra, centrosinistra, tecnici, professori e consigliori. Sempre le solite cose, sempre le solite lagne, sempre le solite solfe. E sotto la grancassa, i pifferi e i tromboni, il nulla. Mai una vera riforma del fisco, mai una vera riforma del mercato del lavoro, mai una vera riforma scolastica o sanitaria o della giustizia o della pubblica amministrazione. Le solite mancette ai gruppi di pressione o di interesse, le solite furbate a debito, le solite demagogie qualunquiste di destra, di sinistra e pure di centro per accontentare le solite famiglie amorali: i tassisti e i balneari di qua, le cooperative e i parastatali di là. Sempre la solita fuffa. Sempre il solito ciarpame.

E noi ce le becchiamo tutte le volte, le filastrocche della destra e della sinistra, di quelli che si ucciderebbero per la libertà, il liberismo, il liberalismo (il libero mercato in Italia? Sai le risate…) e di quelli che si ucciderebbero invece per la giustizia, la lotta ai privilegi, l’ascensore sociale per tutti (l’eguaglianza in Italia? Sai le risate…). E invece non è vero niente. Perché la divisione vera e immodificabile non è mai verticale tra la destra e la sinistra e i suoi sedicenti leader da quattro soldi, ma sempre e solo orizzontale: tra quelli che sanno stare al mondo e quelli che non contano una mazza. Tra quelli che galleggiano sulla loro rendita di posizione e quelli che lavorano anche per gli altri. Tra i “Luigini” e i “Contadini”, appunto.

Ma chi se la beve la storiella della svolta epocale della seconda Repubblica e quella della terza Repubblica e magari pure quella della quarta? Chi se la beve la fanfaluca della panacea del sovranismo all’italiana e quella dell’europeismo all’italiana? Il problema è che “i Luigini hanno il numero, hanno lo Stato, i partiti, il linguaggio politico, l’esercito, la Giustizia e le parole. I Contadini non hanno niente di tutto questo: non sanno neppure di esistere, di avere interessi comuni. Sono una grande forza che non si esprime, che non parla”.

E’ da qui che nasce la grande deriva, il grande abbandono, il grande rancore di chi lavora e produce, da qui la fragilità assoluta della nostra politica e, quindi, del nostro Stato. Altro che i proclami su Instagram o le interviste sdraiate nei talk show. Ditelo alla Meloni, a Conte, a Letta. E pure a Draghi.

Ps: “L’Orologio” è un testo che andrebbe fatto leggere a tutti i liceali in vista della maturità. E invece non esiste docente sulla faccia della terra che lo assegni: molto meglio rifilare ai malcapitati studenti Vannacci, la Murgia o qualche ridicolo scrittoronzolo da premio Strega. E poi dicono che uno ricorda con nostalgia i tempi del pentametro giambico…

QOSHE - L’anno nuovo nel Paese dove tutto resta sempre uguale - Diego Minonzio
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L’anno nuovo nel Paese dove tutto resta sempre uguale

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01.01.2024

In una pagina memorabile de “L’orologio”, il vero capolavoro di Carlo Levi, c’è tutto quello che dovremmo sapere sulla repubblica delle banane, quella dove non cambia mai niente proprio perché sembra sempre che tutto cambi.

A metà strada fra il romanzo, l’autobiografia, il trattato storico-politico e, soprattutto, il saggio di antropologia culturale, questo testo fondamentale della letteratura italiana del Novecento ruota tutto attorno alle dimissioni del governo Parri nel dicembre del 1945 e nei tre giorni in cui si sviluppa la vicenda il protagonista riesce a cogliere a pieno l’impossibilità del cambiamento proprio in anni in cui il cambiamento sembrava certo, obbligatorio e garantito. E non era questione di destra o di sinistra, di schieramenti o alleanze politiche e neppure di Nord o Sud, di ricchezza o povertà, perché sotto il gorgoglio della caduta del regime e del dopoguerra i due veri partiti assolutamente trasversali che si fronteggiavano, anzi, le due civiltà che si sfidavano, le due Italie contrarie e opposte erano quelle definite da Levi dei “Contadini” e dei “Luigini” (il nome è ripreso dal personaggio di don Luigino, il podestà nel “Cristo si è fermato a Eboli”).

I primi erano tutti quelli che non vivevano di protezioni, di sussidi, di colpi in borsa, di mance governative, di furti, di favoritismi, di tariffe doganali, di privilegi corporativi e, quindi, erano quelli che sapevano creare una fabbrica, dirigere una bonifica, dare valore a una........

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