Kiev, 23 febbraio 2024 – La guerra declina al futuro solo la paura. È una prigione senza finestre: le pareti rinnegano l’orizzonte, il soffitto incombe come l’ansia. Come le bombe. Dal 2022 Nataliia Kavetska le sente tutti i giorni. Ha 34 anni e per 8 mesi si è rifugiata in Italia, dove ha lavorato come mediatrice linguistico-culturale negli Spazi Donna della Ong WeWorld. Poi ha deciso di tornare in patria, in Ucraina.

Kavetska, è possibile abituarsi alla guerra?

Sospira. "È dura, ma non rinunciamo a una vita normale. Non possiamo. Tuttavia, ogni ora, ogni minuto cambia tutto. Qualche giorno fa mi ha svegliato un grandissimo rumore. Mi sono affacciata dalla finestra e il palazzo che da sempre stava lì era completamente sventrato".

Che effetto le ha fatto?

"Non riuscivo a muovermi, non sapevo cosa fare. Aspettare? Correre a prendere mio figlio per portarlo in cantina al riparo? Ho passato qualche minuto inebetita, poi tutto è tornato tranquillo".

Cos’è la paura dopo due anni di guerra?

"È difficile rispondere – sospira ancora –. La paura è salutare mio figlio che sta per andare a scuola dicendogli ‘ci vediamo dopo’".

Come si affronta?

"Facendo le cose di sempre: io vado a lavoro, mio figlio a scuola. Frequentiamo la piscina. Affrontiamo la paura gioendo delle piccole cose".

Intanto, però, conoscenti, amici e famigliari continuano a morire. Come si convive con questo contrasto?

"Forse in questi due anni ci siamo abituati. Sentiamo ogni giorno parlare di morti, poi usciamo di casa e vediamo gente che prova a organizzare un’esistenza ordinaria: c’è chi vuole ballare, chi andare al cinema o a prendere un caffè. Senza la vita nel cuore non possiamo andare avanti".

E la sera, prima di chiudere gli occhi per dormire, quali pensieri fa?

"Non è facile andare a dormire con la paura che comincino i bombardamenti. Noi ucraini siamo tutti stanchi, sfiniti a tal punto che a volte ignoriamo l’allarme. Io provo a immaginare una giornata piena di colori, ci spero ogni volta".

Dal punto di vista materiale cosa manca?

"Se nelle città occidentali come Leopoli non ci sono problemi particolari, nei paesini, soprattutto vicino al confine con la Russia, mancano l’acqua calda, i medicinali, è impossibile riscaldare le case. E durante i bombardamenti viene meno la connessione internet".

Potrebbe sembrare una questione secondaria.

"Non lo è. A dicembre non è stato possibile accedere alla rete per quattro o cinque giorni. Suonava l’allarme e non riuscivo a chiamare mio figlio. Provavo e riprovavo, ma niente. Ero disperata, non sapevo cosa fare: se tornare a casa, andare in cantina, oppure raggiungerlo vicino alla metropolitana, dove gli avevo detto di ripararsi in casi del genere. L’ho trovato lì". Il pianto strozza il racconto di un incubo sospeso tra passato e futuro.

Quanto anni ha suo figlio?

"Ne compirà dieci ad aprile".

Sta già pensando al suo compleanno?

"Sì, vuole festeggiare. Pensiamo di organizzare una piccola festa con i compagni di scuola".

Qual è la differenza più grande rispetto alla vita quotidiana di prima?

"Al di là delle carenze concrete, l’impossibilità di pianificare il futuro".

Molte persone sono morte, tante sono scappate all’estero. Come si tengono insieme le famiglie?

"È complicato. Molte famiglie si dividono, appesantite peraltro dai drammi personali: ci sono tanti soldati invalidi, e non tutti riescono ad accettare la nuova realtà".

Lei si è rifugiata in Italia, come ha vissuto quel periodo?

"All’inizio non parlavo la lingua, non avevo i miei amici. La guerra aveva posto fine alla mia vita precedente, che era bellissima: avevo un’azienda che produceva vestiti per donne e bambini. In un attimo ho dovuto prendere consapevolezza di dover ricominciare tutto da zero. Ma tante persone mi sono state vicine, ero felice in Italia".

Perché ha scelto di tornare a Kiev?

"Sono laureata in giurisprudenza, la ministra per i Servizi sociali ucraina mi ha proposto di collaborare con lei. Ho accettato perché ho capito che potevo dare il mio contributo per il Paese, nel mio piccolo potevo cambiare qualcosa".

Sotto le bombe è morta anche la speranza?

"No. La speranza vive. Speriamo di vincere la guerra, di avere una vita normale, di andare a dormire senza l’incubo dell’allarme".

QOSHE - La vita sotto le bombe in Ucraina: "Quando lascio mio figlio ho paura" / - Antonio Del Prete
menu_open
Columnists Actual . Favourites . Archive
We use cookies to provide some features and experiences in QOSHE

More information  .  Close
Aa Aa Aa
- A +

La vita sotto le bombe in Ucraina: "Quando lascio mio figlio ho paura" /

4 0
24.02.2024

Kiev, 23 febbraio 2024 – La guerra declina al futuro solo la paura. È una prigione senza finestre: le pareti rinnegano l’orizzonte, il soffitto incombe come l’ansia. Come le bombe. Dal 2022 Nataliia Kavetska le sente tutti i giorni. Ha 34 anni e per 8 mesi si è rifugiata in Italia, dove ha lavorato come mediatrice linguistico-culturale negli Spazi Donna della Ong WeWorld. Poi ha deciso di tornare in patria, in Ucraina.

Kavetska, è possibile abituarsi alla guerra?

Sospira. "È dura, ma non rinunciamo a una vita normale. Non possiamo. Tuttavia, ogni ora, ogni minuto cambia tutto. Qualche giorno fa mi ha svegliato un grandissimo rumore. Mi sono affacciata dalla finestra e il palazzo che da sempre stava lì era completamente sventrato".

Che effetto le ha fatto?

"Non riuscivo a muovermi, non sapevo cosa fare. Aspettare? Correre a prendere mio figlio per portarlo in cantina al riparo? Ho passato qualche minuto inebetita, poi tutto è tornato tranquillo".

Cos’è la paura dopo due anni di guerra?

"È difficile rispondere – sospira ancora –. La paura è........

© Quotidiano


Get it on Google Play